La settimana scorsa il presidente americano Joe Biden aveva auspicato il raggiungimento di un cessate-il-fuoco a Gaza entro lunedì 4 marzo. Come abbiamo visto, però, alle dichiarazioni sono seguite azioni di più basso profilo: prima l’aviolancio di 30.000 pasti sulla Striscia di Gaza, in un’operazione simile a quella già messa in atto dalla Giordania, poi l’annuncio della costruzione di un molo galleggiante per favorire l’afflusso di aiuti umanitari. La triste ironia dell’Economist: mentre Israele sgancia bombe fabbricate dagli americani, gli americani sganciano pasti pronti. Una situazione peggiorata dal fatto che proprio nell’ultimo lancio di aiuti, avvenuto venerdì 8 marzo, alcuni paracaduti non si sono aperti. Risultato, per quanto ancora da verificare: altri cinque morti tra i palestinesi e diversi feriti.
Così, morte, traumi e distruzione continuano a segnare le vite dei palestinesi di Gaza e degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Anchal Vohra su Newlines Magazine si è soffermata sulle sofferenze psicologiche dei più giovani: «che cosa succede alla mente di un giovane quando vede degli estranei entrare nel suo spazio sicuro, la sua casa, e uccidere i suoi genitori? E quando si è rapiti e imprigionati in un tunnel buio molto al di sotto del suolo? E cosa provoca vedere i propri genitori indifesi e l’intero quartiere bombardato? O, se non si sta soffocando sotto le macerie, non avere acqua, né una casa, né un bagno, né medicine, né un’uscita verso una nazione vicina più sicura?». I traumi a cui questi giovani sono costretti si faranno purtroppo sentire ben oltre la fine delle ostilità. Che comunque non sembra vicina, nonostante i negoziati, pur con grandissima fatica, proseguano, nel disperato tentativo di fermare il conflitto prima dell’inizio del mese di Ramadan.
Sul tavolo c’è un accordo che prevede sei settimane di pausa nei combattimenti in cambio del rilascio di 35-40 israeliani detenuti da Hamas, ma per il movimento terrorista anche stilare la lista degli ostaggi è un grosso problema. In cambio Israele dovrebbe rilasciare centinaia di detenuti dalle carceri dello Stato ebraico, tra i quali i palestinesi vorrebbero inserire Marwan Barghouti, ciò che invece, ricorda il Times of Israel, Tel Aviv vuole assolutamente evitare. La storia di Barghouti è stata raccontata nel nuovo documentario “Tomorrow’s Freedom”: ne ha parlato con il figlio, Arab Barghouti, la giornalista della CNN Christiane Amanpour (video).
Sebbene si sia rifiutato di adottare un approccio muscolare per imporre a Israele la sua linea, come fece Reagan, il quale bloccò l’invio di armi allo Stato ebraico, Biden continua a spingere per la tregua. Secondo al-Monitor in questi giorni le pressioni si sono spostate su Hamas, complice il fatto che, anche secondo un quotidiano ultra critico nei confronti di Netanyahu, come Haaretz, il governo israeliano avrebbe questa volta accettato le condizioni negoziate con Stati Uniti, Egitto, e Qatar. Secondo Amos Harel però, è il leader di Hamas Yahya Sinwar ad avere piani differenti alla vigilia di Ramadan: «a causa del carattere religioso del periodo del Ramadan, Sinwar potrebbe sperare di scatenare una conflagrazione regionale, infiammando Gerusalemme e la Cisgiordania, e forse [scatenando] manifestazioni di massa nei Paesi arabi vicini. Sembra un’altra grande scommessa che si aggiunge a quella che la leadership di Hamas nella Striscia di Gaza ha fatto in ottobre». Sebben anche in Israele, scrive al-Jazeera, prenda sempre più forza il coro di chi chiede un cessate-il-fuoco, Sinwar potrebbe contare su un improbabile alleato: Itamar Ben-Gvir. I timori sono che il ministro per la Sicurezza Nazionale decida unilateralmente di alzare la posta, compiendo atti provocatori come recarsi al complesso di Al-Aqsa.
Sinwar si muove in un equilibrio molto fragile: rifiutare un cessate-il-fuoco significherebbe aumentare ulteriormente le pene della popolazione di Gaza, ciò che potrebbe risultare in una diminuzione della popolarità di cui gode Hamas tra i palestinesi. La situazione umanitaria è veramente insostenibile: il ministero della Sanità palestinese (controllato dal gruppo islamista) ha reso noto che 18 persone sono già morte di fame e sete, mentre le Nazioni Unite hanno dichiarato che la carestia è «quasi inevitabile» nella Striscia di Gaza. L’Onu si è pronunciato anche sulle accuse di stupri e violenze sessuali perpetuate da Hamas: un rapporto pubblicato lunedì ha affermato non soltanto di avere «chiare e convincenti» informazioni riguardo alle violenze sessuali compiute durante l’attacco del 7 ottobre 2023, ma anche di «torture sessuali» a cui sono stati assoggettati alcuni degli ostaggi. Sebbene, come ha ricordato il New York Times, il presidente israeliano Isaac Herzog abbia applaudito alla «chiarezza e integrità morale» del documento, questa condanna nei confronti di Hamas non è sufficiente a sanare i rapporti, che restano tesissimi, tra l’Onu e lo Stato ebraico. Lo dimostra il fatto che il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha accusato il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, di sforzarsi di «dimenticare il report ed evitare di prendere le necessarie decisioni». Al centro delle tensioni c’è, come ha ricordato Le Monde, l’UNRWA, che Israele ha nuovamente accusato di impiegare «centinaia» di terroristi tra i suoi lavoratori.
Anche la vicepresidente americana Kamala Harris, la quale ha ricevuto alla Casa Bianca Benny Gantz (ne parliamo nel successivo paragrafo), ha chiesto che il cessate-il-fuoco venga accettato da tutte le parti in causa e ha accusato Israele di non fare abbastanza per l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Uno dei dati incontrovertibili che emergono da questi cinque mesi di guerra è l’incapacità degli Stati Uniti di portare Israele ad agire nel modo preferito da Washington. Se da un lato gli Stati Uniti non riescono più a indirizzare il corso degli eventi in Medio Oriente, dall’altro, ha osservato Gregg Carlstrom su Foreign Affairs, non è ancora emerso un vero ordine mediorientale post-americano. «La regione è in un interregno. Dimenticate i discorsi sull’unipolarismo o sul multipolarismo: il Medio Oriente è non-polare» e lo era già prima del 7 ottobre, ma fino a quel momento molti si erano illusi del contrario.
Tornando ai viaggi di questi giorni, Gantz non è stato l’unico a recarsi a Washington. Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan è nella capitale americana per avviare colloqui approfonditi sullo stato delle relazioni tra Stati Uniti e Turchia e per parlare della guerra tra Israele e Hamas. Precedentemente è stato il turno del primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, il quale durante gli incontri avuti con il segretario di Stato Antony Blinken ha riaffermato l’importanza del legame tra Doha e Washington e lavorato per il cessate-il-fuoco a Gaza. Ci sono stati anche movimenti nella direzione opposta: la Casa Bianca ha nuovamente mandato il suo inviato speciale Amos Hochstein in Libano, dove la situazione è sempre più tesa. Secondo il resoconto dell’Associated Press, infatti, almeno tre paramedici di Hezbollah sono morti in un attacco israeliano, mentre un lavoratore straniero è stato ucciso da un razzo lanciato dalle milizie del “Partito di Dio” verso lo Stato ebraico. Sul versante palestinese, invece, si registra il viaggio di Abu Mazen in Turchia, dove ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan per discutere dei piani per il “giorno dopo”. Il leader dell’AKP ha sottolineato l’importanza dell’unità all’interno del campo palestinese, necessaria per rendere credibile qualsiasi strategia per un futuro Stato palestinese. Uno degli elementi fondamentali del piano immaginato dagli Stati Uniti è il rafforzamento dell’Autorità Palestinese, che a sua volta passa dal consolidamento delle sue forze di sicurezza. Quest’ultimo, però, sembra essere un obiettivo difficilmente raggiungibile: l’Autorità Palestinese, con le sue forze, «non è pronta per andare a Gaza, e non lo sarà in breve tempo. Non hanno i numeri per farlo, e nemmeno la volontà e la conoscenza di Gaza», ha dichiarato un diplomatico occidentale al Washington Post. «Nonostante due decenni di riforme, le forze di sicurezza restano cronicamente sottofinanziate e largamente impopolari, mal equipaggiate per assumere le enormi responsabilità che i loro sostenitori occidentali stanno immaginando», hanno scritto i giornalisti del Post dopo aver avuto accesso a un centro di addestramento palestinese.
Fonte: Claudio Fontana | Oasiscenter.eu