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«Giulia s’è uccisa a 17 anni. Parlo di suicidio ai giovani per salvare vite»

Il racconto di Rocchina Stoppelli, mamma di una ragazza che si è tolta la vita a 17 anni. Ora ha fondato un’associazione e si batte per promuovere nelle scuole la cultura della vita

«Giulia si è suicidata nel 2017, poco prima di compiere 17 anni. Era simpatica, intelligente, sportiva. Amava le lingue straniere. Leggeva di cinema e di politica. Da qualche settimana mi ero accorta che c’era qualcosa che non andava, perché era cambiata. Più volte le avevo domandato che cosa avesse. La sera, avevamo scherzato e riso tutti insieme. Poi ero andata in camera sua per augurarle la buona notte. E per l’ennesima volta le avevo chiesto: per favore, dimmi che cosa c’è. Possiamo parlare, insieme qualsiasi problema si affronta e si risolve. Avevo pensato a tante cose, eppure mai avrei potuto immaginare che cosa stava per accadere. Ma se lo avessi saputo – mi sono interrogata molte volte – avrei avuto il coraggio di chiederle se stava davvero pensando di uccidersi?».

Per Rocchina Stoppelli, presidente dell’Associazione La Tazza Blu (https://www.latazzablu.org/) – fondata nel 2019, in ricordo di sua figlia Giulia, per fare informazione e prevenzione sul suicidio in adolescenza – le parole sono la chiave di volta per entrare in contatto con i ragazzi. Perché parlare con loro, anche di un tema così duro, e saperli ascoltare, è fondamentale per poterli aiutare.

Continua mamma Rocchina: “Giulia ha lasciato delle lettere. Ha scritto a noi e ai suoi amici, dicendo che non era colpa nostra, ma solo colpa sua. Non era affatto colpa sua, però, perché lei stava male. Ha scritto anche “non so perché lo faccio”. Con mio marito e con nostro figlio abbiamo pensato spesso che Giulia non abbia saputo trovare le parole per dire ciò che provava perché non ha riconosciuto i pensieri di morte nella sua mente. La nostra associazione, allora, è nata proprio per questo: per far sì che i ragazzi trovino le parole per dire ciò che provano, anche il dolore più indicibile, che può portare alla scelta più drammatica”.

Quanto valore bisogna dare alle parole, alla loro forza e alla loro necessità?

Intanto, dovremmo cominciare a usare le parole giuste. Giulia non è passata a miglior vita, non se ne è andata. Giulia si è suicidata, che non significa nient’altro se non questo. Mi fa male dirlo ogni volta, ma è così. Non bisogna aver timore di usare la parola suicidio. Così come non si deve aver paura di pronunciare la parola vittima. Perché deve essere chiaro il concetto che chi si suicida sta male. Ha questo male indescrivibile, intollerabile e per liberarsene non vede altra via d’uscita; ma di questo dolore da cui vuole fuggire, in realtà, è vittima.

Sono parole dure…

Certo. E fanno ancora tanta paura. Se le usi, le persone si ritraggono, perché sono spaventate. E anche perché intorno alla parola suicidio c’è ancora un forte stigma, troppi pregiudizi. Ci sono genitori che non dicono che il loro figlio si è suicidato per non affrontare il giudizio degli altri. Sono parole importanti, però. E a differenza di noi adulti, i ragazzi non le temono. Perché vogliono parlare di questo, hanno bisogno di farlo.

Da che cosa nasce questa necessità?

Spesso, sono proprio loro a invitarci nelle scuole. E quando chiediamo il perché, ci dicono “perché nessuno ci parla di questo tema”. La maggior parte dei ragazzi che incontriamo si sono scontrati con il suicidio di un amico, un compagno di scuola o di sport, un fidanzato… Ad alcuni, purtroppo, è capitato anche più volte. All’inizio, non sanno nemmeno loro molto bene come affrontare il tema. Però sentono di avere bisogno di capire, di elaborare un evento così definitivo. E lo fanno con serenità ma anche con concretezza. Perché le domande che rivolgono agli esperti che guidano i nostri incontri (psicologi e psicoterapeuti) sono sempre molto precise.

Che cosa si aspettano dagli adulti?

Si aspettano che sappiamo chiedere loro “come stai?”. Che sappiamo ascoltarli e capirli senza giudicare. Che diamo loro la fiducia per potersi appoggiare a noi nel momento della difficoltà. Perché è fondamentale che comprendano che devono chiedere aiuto per uscire dalla loro sofferenza. Da soli, non ce la si può fare.

Quali sono gli stati d’animo che emergono con maggior urgenza?

C’è chi porta il proprio vissuto e si racconta con grande disponibilità. Chi cerca di dare significato a quei pensieri di morte che non sa dire da dove siano arrivati. E chi – e sono tanti – non sa come affrontare il senso di colpa per non aver capito che un amico stava così male da non poterne più.

Il suicidio di una persona cara cambia la vita di tutti coloro che le sono stati vicini. E lo fa in modo drammatico e inevitabile. Per tutti c’è un “dopo” terribile e doloroso. E allora io mi chiedo: di che cosa dobbiamo avere più paura? Delle parole o di quel “dopo”?

Quale compito spetta ai genitori?

Non dobbiamo temere di parlare con i nostri figli né di far loro delle domande. Perché chi sta così male da pensare di farla finita, è chiuso in una bolla, isolato da tutti, ma spera fino all’ultimo che qualcuno lo aiuti. E forse, anche una piccola domanda può far scoppiare quella bolla… Per Giulia io non posso fare più niente, ma non riesco a pensare che la sua morte resti senza senso. I nostri ragazzi sono bellissimi, preparati, coraggiosi. Sono una grandissima speranza di futuro. E devono andare incontro alla loro vita con serenità e fiducia. Stare al loro fianco per sostenerli dà un senso alla morte di Giulia, perché mi fa pensare che il suo ultimo grido di dolore non sia rimasto inascoltato.

Fonte: Antonella Galli |  Avvenire.it

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