La poetessa: “Ho pagato la dissidenza e le proteste contro Mosca con il carcere, come tanti altri. C’è chi ci accusa di indifferenza verso Kiev, ma nel Paese ci sono 120 forme di attivismo pacifista. Mi chiedo tutti i giorni se basteranno… Ma vedo che molti Paesi cercano un accordo con Putin, continuano a commerciare con lui, trovano modi per aggirare le sanzioni. Chi è colpevole?”.
Cosa sta succedendo in Russia? Davvero un’indifferente massa umana sta assistendo senza battere ciglio allo spettacolo di una dittatura che si gonfia, ingloba e distrugge? Due anni fa, il 23 febbraio 2022, un giorno prima dell’invasione russa dell’Ucraina, Daria Serenko, attivista e poetessa di Mosca, viene rilasciata dopo quattordici giorni di carcere. Era stata arrestata per un post su Instagram che, secondo le autorità, conteneva simboli “estremisti” collegati alla lotta di Alexei Navalny. Quella notte, finalmente a casa, Daria vuole solo dormire un po’. Si sveglierà con la notizia che Putin ha invaso l’Ucraina e con la consapevolezza che qualcosa bisogna fare. Il 25 febbraio contribuisce a fondare il movimento clandestino Feminist Anti-War Resistance, che invita le femministe di tutto il mondo a unirsi contro Putin. Serenko scrive ai russi: «Smettetela di sedervi nei caffè. Smettetela di pianificare le vacanze. Smettetela di ascoltare la propaganda… Protestate contro questa guerra». Per Serenko, trent’anni, è l’inizio di una nuova battaglia. Sarà una guerriglia sotterranea, clandestina, pericolosissima, che scava tra le pieghe grigie della dittatura e inserisce parole e piccole azioni che – come sassolini – tentano di rallentare un ingranaggio che tutto mastica e riduce in poltiglia. Oggi, la dissidente russa costretta all’esilio in Georgia, arriva in Italia per la prima volta. Sarà ospite del Festival Slavika questa sera al Magazzino sul Po, in dialogo con il docente di Lingua e letteratura russa Massimo Maurizio.
Per il Cremlino lei è un “agente straniero”, per tutti gli altri il volto, l’unico conosciuto, della Resistenza femminista contro la guerra, che riunisce 45 organizzazioni e centinaia di attiviste anonime. Qualcosa, in Russia, si muove?
«Oltre a noi in Russia esistono diverse altre forme di attivismo antibellico, per esempio quello delle formazioni partigiane che fanno deragliare i treni che portano armi e materiale militare in Ucraina, quello delle mogli, le madri e le sorelle dei soldati mobilitati, costretti loro malgrado ad andare in guerra, poi ci sono i gruppi di studenti, di operai… Sebbene quasi invisibili, oggi in Russia ci sono oltre 120 forme di attivismo contro la guerra in Ucraina».
Perché una lotta femminista?
«La guerra è la manifestazione più estrema del patriarcato e Vladimir Putin è la rappresentazione più stupida della mascolinità, quindi le femministe capiscono meglio di chiunque altro il legame tra genere e militarismo e i modi per combatterlo. La guerra incomincia a casa: in un Paese in cui non c’è una legge contro la violenza domestica, dove lo Stato non punisce il marito che picchia la moglie, sarà molto più facile per la società accettare la cultura della violenza, del possesso e del controllo e, fatalmente, accettare che si riversi fuori dalle mura domestiche e oltre i confini. Sono gli stessi uomini che in patria picchiano le donne ad andare in guerra e uccidere gli ucraini. E sono gli stessi uomini che poi – se sopravvivono – torneranno in Russia e continueranno a uccidere. È una spirale di violenza».
Che forme di protesta mettete in campo?
«Ho sempre l’impressione che le persone che vivono sotto una dittatura e le persone che invece la osservano dall’esterno abbiano un’idea diversa di quello che può essere un’azione politica».
Sta sulla difensiva?
«No. In questo momento in Russia le manifestazioni di piazza sono praticamente impossibili. I funerali di Navalny sono stati un’eccezione. Dobbiamo mettere in campo tutta la nostra fantasia per inventarci forme di protesta che, da “fuori”, potrebbero apparire piccole e limitate. Per esempio, da due anni abbiamo una linea di aiuto psicologico per coloro che sono stati sottoposti a torture e arresti. Questo è un tipo di attivismo politico? Non lo so, sicuramente è un sostegno a chi continua a lottare dall’interno della Russia: è Resistenza. Poi stampiamo un giornale clandestino e le nostre attiviste più coraggiose continuano a mettere in atto piccole azioni di protesta».
Cosa fanno?
«Sono performance artistiche simboliche, ma è evidente che danno fastidio: è di ieri la notizia che sono state arrestate 18 artiste, questo indica che anche fare arte sta diventando qualcosa di estremamente pericoloso. La repressione è diventata velocissima a individuarle, e a reprimerle con il carcere e le botte. Continuiamo a innovare le tattiche di protesta: scrivere slogan contro la guerra sulle banconote, installare oggetti d’arte nei parchi, vestirsi completamente di nero in pubblico in segno di lutto, distribuire fiori o semplicemente piangere nella metropolitana… Ieri funzionava, oggi no, le tattiche vengono aggiornate, cambiano costantemente, perché ad ogni azione le attiviste vengono immediatamente arrestate e sottoposte a tortura. Ma sono soltanto alcune delle direzioni della resistenza: molti, per esempio, offrono un aiuto clandestino agli ucraini finiti in Russia».
Cioè?
«Quando i russi hanno occupato i territori ucraini, non tutti i civili sono riusciti a fuggire. Allora i militari li hanno trasferiti a forza nelle città russe e poi chiusi in centri di detenzione temporanea, dove vivono da allora. Hanno bisogno di aiuti umanitari e di qualcuno che li faccia uscire dalla Russia. Sono senza telefoni, senza documenti, vivono in un limbo tra due mondi, senza nessun diritto e costretti a subire il lavaggio del cervello. È una situazione terribile, hanno davvero bisogno di aiuto».
Di quanti ucraini si parla?
«Ovviamente Mosca ha reso segreti i numeri, ma noi sappiamo con una certa sicurezza che sono ben oltre centomila».
Parliamo delle azioni di resistenza. Cosa sperate di ottenere?
«Il senso non è quello di cercare di fermare la guerra, sappiamo che non bastano azioni di dissenso per fermarla, ma cerchiamo di distruggere l’idea che sta andando tutto bene, che non succede nulla, che tutto questo è normale. Per esempio, quando per la prima volta è diventato di dominio pubblico quello che stava succedendo a Mariupol, quando abbiamo visto le fotografie delle tombe improvvisate, scavate nei giardinetti di fronte ai condomini, abbiamo iniziato a costruire memoriali e croci e siamo andati a metterli nei cortili delle case russe e nei parchi giochi dei bambini russi. Sono arrivate immagini da più di 120 città della Russia, sono state costruite più di duemila croci. Piazzare delle tombe di fronte a delle case dei ricchi moscoviti, li ha costretti a pensare che c’era una guerra e che gli ucraini stavano morendo. Non potevano più fare finta di niente».
Cosa prova quando dicono che i russi non fanno nulla per fermare Putin, che sono inermi, indifferenti?
«Lo accetto. Perché la rabbia che mi suscita questo tipo di dichiarazioni non servirebbe a nulla. In questi casi di solito inizio a elencare i nomi dei prigionieri politici detenuti in Russia e le “ragioni” per cui sono rinchiusi in galera. Ad Aleksandra Skochilenko, ad esempio, hanno dato sette anni di carcere perché ha incollato dei messaggi di contenuto antibellico sulle targhette dei prezzi dei supermercati. Io non credo che coloro che fanno domande del genere abbiano un’idea di cosa sia realmente una dittatura. Negli ultimi mesi sto girando molto per l’Europa per presentare i miei libri: inevitabilmente ogni incontro finisce sempre col concentrarsi sul perché i russi sono così inermi. Ad uno di questi incontri mi è stato perfino chiesto: “Ma allora perché non denunciate Putin?”».
Basteranno il dissenso interno, la resistenza degli ucraini e le sanzioni a fermare Putin?
«Me lo chiedo tutti i giorni. Ma vedo che molti Paesi cercano un accordo con Putin, continuano a commerciare con lui, trovano modi per aggirare le sanzioni. Questo succede dal 2014. Quindi mi chiedo se non siamo tutti colpevoli – io, noi russi, ma anche tutte le istituzioni globali – di questa escalation e del fatto che al regime di Putin non sia stato dato un colpo sufficientemente forte per fermarlo. Una nostra collega qualche anno fa ha partecipato a una conferenza in Italia e, quando ha detto che sarebbe stato necessario armare l’Ucraina, molte persone in sala sono uscite urlando dallo sdegno. L’idea che non si debbano dare le armi all’Ucraina è sempre più diffusa in Europa, e ora si insinua anche la teoria che, per ottenere la pace, l’Ucraina dovrebbe arrendersi. Ma il mondo non deve cercare accordi con Putin: Putin non rispetta nessun tipo di accordo, non l’ha mai fatto. C’è un enorme rischio che lo si dimentichi e che vinca la tentazione di scendere a patti con un dittatore. Ma la dittatura si diffonde come un virus e chiunque faccia accordi con un dittatore rischia di trasmettere questo virus».
Fonte: MONICA PEROSINO int. DARIA SERENLO | LaStampa.it