Studio di umani
— 8 Aprile 2024 — pubblicato da Redazione. —Mi sono sempre protetto dal dolore, soprattutto quello di chi amo. Come si fa a non fuggire o, se si resta, a non soccombere? Esiste una terza via?
Di recente ho ricevuto queste righe di una madre che raccontava la crisi della figlia: «Ha scelto la scuola sbagliata, ma questo è solo ciò che si vede da fuori, ciò che vede la scuola dei risultati. Io e mio marito abbiamo imparato in questi due anni a conoscere e vivere la sua sofferenza che in alcuni periodi è stata così acuta che la portava a mangiarsi letteralmente le mani. A scuola le sue nocche insanguinate che non guarivano mai non sono state notate da nessuno! Dopo due anni di terapia, sta imparando a gestire meglio l’ansia ma il percorso scolastico è stato compromesso. A scuola hanno solo saputo dirci la solita vecchia frase: intelligente ma non si applica».
Le mani di questa ragazza, non viste o non guardate, rinnovano la domanda sul paradosso umano: come mai, pur essendo noi esseri che si sono evoluti per essere curati e curare, poi tras-curiamo?
Qualche risposta l’ho trovata nel Compianto sul Cristo morto di Bellini, quadro abitualmente ai Vaticani, ora in prestito fino a maggio al Museo Diocesano di Milano come capolavoro che, per sapiente scelta di chi guida il museo, è esposto «a solo» e al termine di un percorso che permette alla bellezza, quando è «da solo a solo», di rinnovare il nostro sguardo impoverito e donarci quindi più mondo. E nel quadro sono proprio le mani a farlo. Come?
Giovanni Bellini, pittore veneto tra i più celebri del Rinascimento, intorno al 1475 dipinge questa tavola per la contemplazione, sostantivo il cui senso originario indicava il fissare lo spazio di cielo visibile dal recinto del tempio, esercizio scientifico e spirituale necessario a cogliere l’essenziale nel continuo scorrere del tempo. Nel ritaglio sacro del quadro si scorge un morto (Cristo), il cui corpo esangue è sorretto da un uomo (Giuseppe d’Arimatea), mentre una donna (Maria Maddalena) gli unge le mani rattrappite da colpi di chiodi, con l’olio che un altro uomo (Nicodemo) accigliato tiene in un vasetto.
Mi vedo in quest’ultimo, fronte aggrottata dinanzi alla morte, pensieri come rughe, in cerca di risposte davanti a un muro: l’uomo della Vita è morto. Cadavere. Con sapienza compositiva l’artista mette al centro del quadro le mani dei protagonisti, ma soprattutto quelle della donna che accarezzano con l’olio la sinistra del morto che perde rigidezza, al contrario della destra ancora contratta. In quelle mani c’è la farmacopea alla mia incapacità: al fuggire o soccombere aggiungono un’altra via.
Contemplavo il quadro guidato dalle parole della direttrice del museo Nadia Righi che spiegava come Bellini avesse rappresentato l’esperienza di tutti di fronte al dolore: il quadro dà forma a tutte le ferite vive e nascoste in noi, certifica l’impossibilità di trovare risposte astratte, la sconfitta dell’intelligenza e l’inadeguatezza delle parole. Tutti tacciono dentro e fuori dal quadro, sospesi, parlano le mani: la risposta è solo la cura, cioè rimanere, sostare. E io so stare? Fuggo o soccombo perché non ho risposte. E invece potrei restare proprio perché non le ho.
Sono le mani a rispondere. Manutenzione, cioè «tenere nelle mani», così diciamo per riferirci alla cura delle cose: della macchina, di un impianto, di un edificio. Ma le persone? «Teniamo per mano» quelle che amiamo e ci commuove chi ancora lo fa per strada, ma come si fa a «manu-tenerle», a «man-tenerle», quando il dolore o la morte li prendono. Stando. Sostando. So stare? Perché nessuno ha visto o guardato le nocche sanguinanti di quella ragazzina? Noi non ci prendiamo cura delle persone perché le amiamo, ma impariamo ad amarle perché ci prendiamo cura di loro: curare è una scelta che ci trasforma, ci fa uscire da noi stessi, che è l’unica maniera di non fuggire o di non soccombere alla vera morte in vita, la chiusura in se stessi. Io fuggo o soccombo se penso solo a me stesso, invece se sosto, se so stare, mi salvo. L’amore, alla fine, è la quantità di vita di cui decidiamo di farci carico, che solo così si trasforma, anche quando è vita ferita.
Nel corridoio che segue al Compianto di Bellini sono state allestite quattro sale: altrettante opere di artisti contemporanei ispirate dalla «contemplazione» del quadro. L’artista visuale Emma Ciceri ha deciso di mostrare un video di una decina di minuti in cui si vedono solo le mani di una donna e di una bambina, in un dialogo di carezze. I movimenti della bambina sono incerti perché ha delle fragilità. Le mani sono proprio quelle dell’artista e della figlia. Le mani fanno la cura, manutenzione. Non cercano risposte, sono la risposta. L’opera si intitola «Studio di mani», titolo che gli artisti danno a esercizi, ma qui l’esercizio è la vita tutta: stare, sostare senz’altra risposta che la presenza, è per eccellenza l’esercizio che umanizza.
A scuola nessuna mano ha toccato le nocche sanguinanti dell’ansia: «Abbiamo le capacità, ma non ci applichiamo», direbbe anche di noi la pagella. Non abbiamo tempo, occhi, mani: non sappiamo «stare». Eppure ormai lo sappiamo che ci vuole un abbraccio di almeno 30 secondi per permettere al corpo di produrre ossitocina, l’ormone che cura il dolore. E ciò accade sia in chi dà e in chi riceve: non si sa più chi abbraccia chi. Si è abbracciati dalla Cura. Ecco la terza via, quella che immette vita nella vita. Chi siamo noi che — è solo un gioco di suoni — nella nostra lingua abbiamo le mani nel nome: umani? E quanto — gioco ancora — possiamo diventare senza mani: disumani?
La mamma che mi ha scritto conclude: «Qualche settimana fa mia figlia ha detto: “Ho capito che devo tornare a fare ciò che mi rendeva felice da bambina: disegnare, dipingere, creare”. Da qui la scelta drastica di cambiare scuola. Ha trovato il coraggio per realizzare la sua vocazione? Noi siamo con lei». Un ritorno alla chiamata originaria, e quindi all’originalità che, grande o piccola che la consideri il mondo delle apparenze, definiamo «il nostro posto nel mondo»: sostare, so stare. Gioire. Le mani della ragazza, curate, ora vogliono curare, riprendere in mano il mondo e i suoi colori, come la ragazza che rinuncia al suicidio descritta da Pavese:
«La magra bambina che fui/
si è svegliata da un pianto durato per anni./
E desidero solo colori./
Ogni nuovo mattino,/
uscirò per le strade cercando i colori»
(Agonia).
Questa è la manutenzione della vita, l’umano non è fatto, costruito, risolto come un problema, ma dato alla luce, generato, nasce figlio e rinasce quando ritorna figlio, cioè quando si sente appartenente a un amore che lo vuole esistente, è ri-generato quando riceve di nuovo la vita. Quelle nocche divorate dal demone contemporaneo dell’ansia chiedevano mani. È l’ansia d’amore che abbiamo tutti, oggi di più perché non c’è tempo di fermarsi ad amare e lasciarsi amare al di là dei risultati. Dieci minuti, un’infinità per chi contempla un’opera, dura la ripresa di «Studio di mani» di Ciceri. L’uomo si è differenziato evolutivamente grazie alle mani. Uno studio di mani, da Bellini a oggi, è uno studio su quanto siamo umani. Guardiamole adesso, le nostre, e sapremo quanto siamo umani.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it