Un paesaggio di periferia ripreso da un autobus, in bianco e nero, mentre si ascolta a tutto volume un brano hip hop (Jet di Justina, rapper iraniana). Poi l’ingresso di un gruppo di donne nel palazzetto dello sport di Tbilisi, Georgia. Capiamo che sono atlete e vediamo che tra loro si distingue Leila Hosseini, allenata da Maryam Ghanbari. È la nazionale iraniana di judo, che si appresta a disputare i campionati mondiali. Cominciano i combattimenti, ma dopo il secondo match, che Leila stravince, Maryam riceve dalle alte sfere politiche, presidente e guida suprema, per il tramite della federazione iraniana di judo, l’ordine di far ritirare la sua atleta simulando un infortunio a causa della possibilità concreta che si scontri con la sua omologa israeliana, vale a dire con la concorrente del “paese occupante”.
Leila, dopo ripetute insistenze e minacce a lei e ai familiari (il marito deve scappare con il figlio verso il confine, i genitori vengono arrestati e il padre viene picchiato), decide di non cedere al ricatto, incoraggiata dal medico della federazione internazionale di judo, a sua volta rifugiato politico (nel 1978, dalla Romania al Canada), e dalla presidente della federazione stessa e da una sua collaboratrice, perché esercitare pressioni di quel tipo è una violazione palese del regolamento sportivo oltre che un’interferenza di carattere politico, anche se dev’essere l’atleta a chiedere aiuto, segnalando la situazione. Più sofferto è il percorso di Maryam, che all’inizio cerca di resistere alle minacce (che coinvolgono anche la madre), poi fa di tutto per convincere Leila ad arrendersi salvo poi, quando vede la determinazione della donna nell’incontro decisivo, che peraltro perde perché non è più concentrata, appoggiare la sua rivolta e il suo coraggio e chiedere, a sua volta, asilo politico, rinunciando a rientrare in Iran nel momento in cui si rende conto che stanno cercando di rapirla. Anche perché ha vissuto un’esperienza analoga nei campionati del mondo precedenti, dove ha finto un incidente, con tanto di ingessatura di una gamba sana, per gli stessi motivi.
Già per queste ragioni il film, passato a Venezia 2023 in Orizzonti e interpretato da Zar Amir Ebrahimi, vista di recente in Holy Spider per cui ha ricevuto il premio come miglior attrice a Cannes, e dalla rivelazione Arienne Mandi, potrebbe essere interessante: un racconto sportivo dal finale non scontato, un andamento da thriller (cosa deciderà di fare, Leila? cederà alle minacce? e Maryam, soprattutto, la seguirà?), l’elemento politico anzi politico-religioso, dal momento che l’Iran è una teocrazia, e la scelta, alla fine, delle due donne per la libertà, come recita l’evitabile sottotitolo italiano (l’epilogo vede le protagoniste, un anno dopo, affrontare un’altra competizione sportiva, in Francia). Una storia non reale ma che nel reale ha esempi ben concreti come quello di Sadaf Khadem, la pugile iraniana che nel 2019 ha rifiutato di indossare l’hijab in una gara, o quello della campionessa di taekwondo Kimia Alizadeh, che nel 2020 ha trovato asilo politico in Germania, o ancora quello della sciatrice Atefeh Ahmadi, esule nel 2023 sempre in Germania per poter avere, come donna, le stesse chances degli uomini. E l’elenco potrebbe continuare.
L’interesse aumenta poi, tragicamente, nel contesto geopolitico attuale, diverso da quello veneziano; e aumenta ancora di più se si considera chi sono i due autori: lei, la Zar Amir Ebrahimi di cui sopra al suo esordio nella regia, attrice iraniana fuggita in Francia dopo un episodio di revenge porn per il quale era stata condannata al carcere e a cento frustate (il ministero iraniano della cultura ha tra l’altro condannato il festival di Cannes per averla premiata per Holy Spider); lui, Guy Nattiv, regista israeliano autore di Skin, il cortometraggio vincitore dell’Oscar 2019, che negli Stati Uniti, dove vive, è anche produttore di film dai contenuti socialmente rilevanti. La prima volta in cui un autore israeliano lavora con un(a) regista iraniano(a); con l’esplicito intento di omaggiare le persone che non hanno abbassato la testa e che a causa del regime iraniano, o di altri simili, hanno perso la libertà quando non la vita.
Ma al di là di tutto questo, e al netto che qualche ingenuità, il film è puro piacere della visione: la commistione di generi di cui abbiamo detto e in cui prevale, a livello di ritmo (intenso, serrato, magnificamente incalzante), la dimensione del thriller anche in riferimento all’esito della competizione; un bianco e nero sufficientemente contrastato per rendere il senso di claustrofobia che caratterizza l’opera, che all’unità di tempo (la giornata in cui si svolge il campionato mondiale, con qualche flash-back e con l’epilogo nell’anno successivo) associa l’unità di luogo, il palazzetto dello sport con la sua cupola a spirale (che la protagonista guarda nel momento in cui sta perdendo il match decisivo, come a “realizzare” che non ha più scampo, se non andando fino in fondo nella scelta che ha compiuto), alternato in pochi momenti significativi alla casa di Teheran in cui gli amici di Leila stanno seguendo la competizione in tv; una macchina da presa che segue da vicino le interpreti rendendoci partecipi di quello che vivono, sia fisicamente (gli incontri di judo) che psicologicamente, con primissimi piani, sfocature e dissolvenze; i movimenti di macchina, carrellate (ce n’è una, bellissima, circolare, su Maryam; e ci sono quelle – numerose, quasi un leit motiv – nei corridoi del palazzetto, a seguire e a precedere), panoramiche, camera a mano; e una protagonista strepitosa, cangiante, che parla con gli occhi e con il corpo e che incarna tutti i suoi ruoli di donna, moglie e madre prima ancora che sportiva.
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