Sulle fatiche degli attuali adolescenti descritte in un recente Ultimo Banco un lettore mi scrive:
Ho 73 anni, la mia generazione non ha avuto questi problemi. Io studiavo, una parte di tempo libero l’impiegavo per i divertimenti, l’altra parte ad aiutare mio padre nei nostri vigneti e cantina annessa. Potevo anche esimermi ma lo facevo volentieri, come facevano i miei coetanei con i genitori agricoltori, artigiani o commercianti. E io e i miei amici siamo cresciuti senza problemi esistenziali. Ora mi chiedo e Le chiedo: è possibile che questi problemi dei giovani siano dovuti all’aver trascorso l’adolescenza nella bambagia, troppo coccolati e sempre esauditi dai genitori? Quando qualche padre mi racconta di problemi esistenziali del figlio rispondo: “Fai lavorare tuo figlio”. Come fece un mio amico, titolare di una vetreria con una quarantina di dipendenti, con il figlio che immaginava di dirigere subito l’azienda, invece il padre lo mise alla catena di lavorazione vetri dicendogli: “Se vuoi comandare devi conoscere il mestiere di vetraio”. È moralismo generazionale, boomer contro generazione Z, con autoassoluzione ottenuta dando la colpa ai genitori (gen X o Y che però sono figlie dei boomer) o c’è altro? Avere 18 anni nel 1969 è lo stesso di averli nel 2024?
I problemi esistenziali di cui si parla nella lettera, in misura e modi diversi, sono toccati a tutti nella storia umana. Perché?Esistenziale è l’aggettivo derivante da esistenza (latino ex-sisto: porsi fuori), quindi esistere è: uscire, venire al mondo. Infatti le storie, dall’Odissea a Pinocchio narrano di qualcuno che affronta il faticoso viaggio verso il compimento: vivere è (ri-)uscire. Se esistere, che è nascere del tutto, diventa un regredire, allora qualcosa manca alla (ri-)uscita, cioè al rapporto tra evoluzione (natura) e iniziazione (cultura). Che vuol dire? La natura in millenni ha fatto sì che la maturazione abbia un ritmo preciso: la plasticità del cervello, che è in tutto il corpo, è esplosiva nei primi anni di vita e poi nella pre- e adolescenza, con un rallentamento in mezzo (le elementari) utile a consolidare, di quanto acquisito nei primi sei anni, solo ciò che è necessario a sopravvivere. Ma che differenza c’è tra l’esplorazione infantile (la mano nella presa) e quella adolescenziale (la mano sulle chiavi di casa)? Lo scopo. Il bambino deve scoprire il necessario a stare al mondo (essere amato, camminare, lavarsi, parlare, giocare…), i limiti entro cui la vita fiorisce e oltre i quali si distrugge. Il pre- e adolescente invece può generare vita in proprio, il corpo-cervello, impregnato in ogni cellula dall’eros, ha la spinta per uscire di casa e farne una propria. Questa nuova curiosità esplorativa serve a far esperienza di sé senza il copione dettato dai genitori, per scoprire a che cosa si è chiamati, lasciare il nido per costruirne uno nuovo. Se l’infanzia è fatta per imparare a uscire dal grembo, l’adolescenza per imparare a uscire da casa. Nella prima lo scopo è «stare al mondo che c’è», nella seconda è «fare un mondo nuovo». Attorno ai 20 anni il cervello-corpo rallenta di nuovo (fino alla fine dei giorni) e si concentra per portare a compimento la propria originalità (dare origine a). L’educazione del bambino-adolescente incanala l’energia evolutiva attraverso una iniziazione. Tutte le culture, antiche e moderne, con le loro agenzie educative strutturano infatti pratiche formative in base al modello di uomo/donna a cui mirano e che culminano in un rito di passaggio: l’ingresso nell’età adulta attraverso una «morte» rituale. Porto due esempi illustri della nostra tradizione, anche se ce ne sono per ogni parte del mondo. Ulisse per entrare nel mondo adulto deve affrontare la caccia al cinghiale in cui, rischiando la vita, si procura l’indelebile cicatrice grazie alla quale la sua nutrice, 20 anni dopo, lo riconoscerà. Cristo a 12 anni, in visita a Gerusalemme con i genitori, si allontana da loro ai quali, quando lo ritrovano, angosciati, dopo tre giorni, risponde: «Perché mi cercavate? Non sapevate che devo compiere le cose del Padre mio?». Un’altra appartenenza, un’altra casa da fare. L’iniziazione oggi è caotica e inefficace: il bambino viene adultizzato e l’adolescente infantilizzato. Inoltre i riti di passaggio sono esangui: esame di maturità e forse la patente… quel che resta di un passaggio «esistenziale» ridotto al fare lavorativo (nessuna pratica di cura di sé, degli altri, della comunità) e trasformato in faraoniche feste di 18 anni. Ma fare una casa nuova e che stia in piedi è molto di più, casa è infatti una vita fondata su: a) conoscenza di se stessi (capacità e limiti), b) ruolo creativo per la comunità attraverso un lavoro il più possibile rispondente alle proprie attitudini (vocazione), c) relazioni buone (coppia, amicizia e cittadinanza). L’iniziazione deve quindi essere: a) personale b) vocazionale c) relazionale. Non basta lamentarsi se i genitori oggi sono più o meno permissivi, perché è un’intera cultura a non fornire un’educazione capace di trasformare l’energia vitale in promessa di futuro, forse perché quel futuro, con i suoi comportamenti, se lo è mangiato, in Italia proprio a partire dall’ultimo quarto del XX secolo come dimostra Luca Ricolfi in La società signorile di massa. Non riusciamo a (r-)innovare i processi educativi perché continuiamo a improvvisarli o a ispirarli a modelli inadeguati. Un esempio: la nostra scuola è la stessa di cento anni fa, con banchi fissi e studenti seduti 5-6 ore al giorno. Poteva andar bene per chi doveva essere alfabetizzato e messo dietro una scrivania, oggi non più. Al tempo dell’autore della lettera le pratiche descritte (studio, passioni, relazioni, lavoro) offrivano un’esperienza di mondo sufficiente a (ri-)uscire, tutte le possibilità erano aperte. Oggi? Le tappe dell’età evolutiva non sono cambiate, il cervello-corpo continua a dare la spinta «esistenziale», ma l’iniziazione è inefficace e/o desincronizzata. Gli adolescenti sono smarriti: il corpo-cervello li spinge a uscire, ma loro non sanno verso dove. C’è un virus culturale che corrode l’iniziazione e che chiamo CONIND: il COnsumismo che scambia la vita felice con la vita piena, il NIchilismo che azzera qualsiasi scopo o risposta ai perché, l’INDividualismo che appiattisce la socialità all’usarsi. Questo virus ai ragazzi lo abbiamo regalato noi. Nel finale del Pinocchio di Collodi non è il legno a diventare carne come nella semplificazione disneyana, infatti il Pinocchio di carne chiede: «“E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?”. “Eccolo là”, rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte». Per (ri-)uscire nella vita bisogna far morire l’io legnoso e asservito ad aspettative e a modelli fallimentari, per far nascere il sé libero e autentico. L’educazione serve a trovare il coraggio per liberarsi dai fili: diventare sempre più liberi è il compito di una buona iniziazione, cioè capaci di ricevere il mondo, custodirlo e moltiplicarlo, liberi in latino erano i figli capaci di ereditare. Ma quale mondo diamo in eredità? «“Levatemi una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento improvviso?” gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci. “Questo improvviso cambiamento è tutto merito tuo”». E il lettore sa quanto è costato il cambiamento, che ogni nuova generazione, come Pinocchio, deve fare. Educare è mettere in condizione, negli anni fatti per questo, di scegliere se essere figli o burattini. Lo facciamo? Se l’iniziazione non conduce sulla soglia di questa scelta, che poi si ripresenterà periodicamente nel corso della vita e si potrà affrontare sempre alla luce della prima (ri-)uscita, è perché vogliamo «servi» non «liberi». L’energia evolutiva va sprecata e i ragazzi consegnati al sentimento del nostro tempo: la paura. Chiuso in casa, quando era fatto per uscire. Ma forse proprio il «problema esistenziale» che gli abbiamo creato, lo costringerà a (ri-)uscire.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it