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Smartphone ai bambini? «È una condanna alla depressione»

Fa discutere l’allarme lanciato dallo psicologo Jonathan Haidt autore di un libro intitolato “La generazioe ansiosa”. Il digitale moltiplica l’ansia, gli atti di autolesionismo e anche i suicidi

Immaginate che un giorno qualcuno vi proponesse di lasciar partire vostro figlio di 10 anni per Marte, dove potrebbe essere tra i primi ad acclimatarsi alla vita sul pianeta, e quindi avere più possibilità di sopravvivere in caso di un trasferimento di tutta l’umanità sul pianeta rosso. Certo, non mancherebbero le incognite e i possibili effetti collaterali, anche gravi, delle diverse condizioni all’interno dell’atmosfera marziana, e inoltre non sarebbe garantita la possibilità di tornare sulla Terra. Eppure tutti i suoi amici selezionati per la missione vogliono andare. Voi lo mandereste? Ovviamente no. La paradossale situazione, secondo lo psicologo Jonathan Haidt, autore del libro appena uscito negli Usa, The Anxious Generation (La generazione ansiosa) ricorda, per assurdo, quella di ogni genitore che si trova a consegnare uno smartphone collegato in rete al proprio figlio: un biglietto di sola andata per Marte.

In fondo anche nel caso dei social media si è trattato, una ventina d’anni fa, di un viaggio dalle molte incognite. Nessuno poteva dire con certezza quali sarebbero state le conseguenze di una precoce e intensa frequentazione del mondo digitale. E comunque tutti ci volevamo andare. Così, senza farci troppe domande, abbiamo lasciato che i nostri figli fossero coinvolti nel più gigantesco esperimento sociale della storia dell’umanità. Con risultati che oggi cominciamo a vedere. E non sono rassicuranti.

Nel suo libro Haidt, psicologo sociale, dimostra, dati alla mano, la responsabilità dei social media nell’aver causato quella che oggi è ormai considerata una vera e propria epidemia di disagio mentale tra gli adolescenti. La “generazione ansiosa” è la cosiddetta Gen Z, i nati dopo il 1995, che sono stati i primi a vivere gli anni della pubertà a stretto contatto con i social media, ovvero, nelle parole di Haidt, con “in tasca un portale che li richiamava di continuo in un universo alternativo” attraente e ipnotico, ma inadatto a bambini e adolescenti. Un’ansia che si combina a depressione nelle cifre contenute nel volume, che ci parlano di episodi di autolesionismo triplicati dal 2010 al 2020, nelle ragazzine statunitensi tra i 10 e i 14 anni e aumentati del 48% tra i ragazzi della stessa età. Quanto ai suicidi l’incremento è stato del 167%, tra le ragazze tra i 10 e i 14 anni del 91% tra i ragazzi della stessa età.

E qual è il cambiamento più rilevante avvenuto in questo lasso di tempo? Certamente il dilagare dell’uso dei social media, che nel 2010 era ancora piuttosto limitato, poi con l’acquisizione di Instagram da parte di Facebook nel 2012 e la diffusione sempre più capillare degli smartphone è diventato pervasivo, come confermano gli ultimi dati del Pew Research Center secondo cui il 46% dei teenagers è online quasi costantemente.

L’analisi di Haidt si propone però di indagare le radici di questo fenomeno, che secondo l’autore sarebbero da ricercare in un cambiamento radicale nel modo di intendere l’infanzia, avvenuto all’incirca a partire dagli anni Ottanta. In quel periodo, per un insieme di ragioni, i genitori hanno iniziato ad avere sempre più paura del mondo esterno, riducendo gradatamente le attività consentite ai propri figli nel timore di possibili incidenti. Secondo Haidt questo ha comportato il passaggio da un’ “infanzia basata sul gioco” a un’infanzia (e adolescenza) “basata sul telefono” portando alla situazione attuale, in cui i bambini sono troppo protetti nel mondo reale e invece lasciati a loro stessi in quello digitale. Soltanto il gioco, e una moderata dose di rischio, aiutano il bambino a cogliere quali sono i propri limiti e ad acquisire consapevolezza di sé e fiducia nella sua capacità di agire nel mondo esterno. Tutto ciò è impossibile nel virtuale, dove non esistono limitazioni.

Il primo consiglio di Haidt per un necessario cambiamento di rotta è proprio quello di aumentare le situazioni di gioco libero, non strettamente supervisionato, e abituare i bambini fin dai primi anni di età a fare piccole commissioni, in modo da doversi orientare da soli nel mondo reale.

Il volume è prodigo di consigli, in risposta ai numerosi genitori che l’autore ha incontrato e di cui riporta le dichiarazioni, accomunate da una generale sensazione d’impotenza rispetto alla pervasione della tecnologia, come se non fosse possibile un modello alternativo.

Secondo Haidt invece è molto chiara la direzione da prendere per cambiare (in meglio) la situazione. Oltre all’importanza del gioco libero, gli altri tre consigli che ci dà sono relativi al recupero di una gradualità e moderazione nell’uso di questi strumenti: aspettare fino alla scuola superiore prima di avere uno smartphone di proprietà e fino ai sedici anni per accedere ai social media e non utilizzare lo smartphone in classe (nemmeno negli intervalli). Haidt invita poi a muoversi insieme, come comunità perché da soli è molto difficile applicare queste indicazioni.

The Anxious Generation ha già scatenato un acceso dibattito negli Stati Uniti, dove non manca chi accusa l’autore di sovrastimare i dati sulla diffusione del disagio tra i giovani e di accusare in modo troppo sbrigativo l’uso del digitale. Forse qualche cifra sarà da rivedere, e in parte magari il ruolo dei social andrà ridimensionato o relativizzato. Ma per il resto i consigli di Haidt paiono improntati a un sano buon senso, ormai perduto. Allora forse varrebbe la pena di seguirli. Insieme.

Fonte: Stefania Garassini |  Avvenire.it

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