Non è il miracolo che fa la fiducia ma la fiducia che fa il miracolo. Infatti solo chi ha fiducia nella vita ne è curioso, aggettivo derivante da «cura»: chi ha cura del mondo non solo vede i miracoli, ma li fa. La fiducia non è un trucco, doping psicologico come il pensiero positivo, ma è una postura originaria di apertura alla realtà che dipende da quanto siamo amati: la fiducia deriva dalla forza dell’amore che ci genera in ogni istante, e consiste nel sapere, in ogni cellula, che questo amore c’è e mi vuole esistente. L’uomo non è prodotto, come ci fa credere la tecnocrazia odierna, ma generato, e ri-generato quando fa esperienza di appartenere (essere amato), e può quindi sporgersi sulla vita senza essere paralizzato dalle vertigini che comporta. Questa appartenenza (legami liberanti, perché «assicurano» come quando si scala in montagna), effetto di ogni buona relazione, crea energia in questa sequenza: fiducia, coraggio, curiosità, scoperta, vocazione, creatività, gioia. Se l’appartenere a un amore che ci vuole esistenti non c’è o viene meno, si esaurisce l’energia vitale e la si deve elemosinare. Le dipendenze (legami bloccanti) sono contraffazioni dell’appartenere: poiché non si può non appartenere (essere in relazione) si accetta di dipendere, la schiavitù. Inoltre la fiducia è scalzata dal sospetto: distanza e paura di tutto. Il bambino non amato teme tutto, non è curioso ma insicuro, nessuno fa sicurezza alla sua esplorazione. Si può recuperare o allenare questa fiducia?
Per recuperare e allenare la fiducia di cui parlo, radicale apertura alla vita, bisogna far esperienza di un amore che ci vuole esistenti. Uno dei modi in cui questo accade nel quotidiano è la meraviglia, energia che riceviamo senza merito e ci porta a sentire che apparteniamo. Alla meraviglia abbiamo infatti attribuito un senso, il senso di meraviglia, che è il grado di apertura al mondo, da cui origina il pensiero che, come fa un bambino, si interroga sul perché di ogni cosa. Ognuno può attingere alle sue fonti di meraviglia da cui viene ri-generato, tornando figlio, cioè tornando ad appartenere: amato, coraggioso, curioso… vivo. Immagino una scuola che alleni questo senso di meraviglia: avremmo ragazzi più intelligenti e meno passivi, perché la conoscenza viene dallo stupore e non della paura. La vita si svela a chi se ne sente figlio, per questo l’offesa peggiore colpisce la filiazione: figlio del caso, del meretricio, del nulla. Tradotto: inappartenenza.
In quest’ultima settimana mi son capitate tre esperienze «filiali», che hanno rinnovato la mia fiducia.
1. Ho visitato la mostra «Dal cuore alle mani» a Palazzo Reale a Milano. Si tratta di alcuni vestiti creati da Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Miracoli «fatti a mano». Nel corso degli anni i due stilisti hanno ambientato le sfilate di alta sartoria in località italiane di chiara bellezza. Le forme del luogo di volta in volta ispirano la lavorazione a mano delle fogge e delle stoffe: soffiate nel vetro a Venezia, modellate negli stucchi palermitani, uscite dalle decorazioni di un tempio di Agrigento, intarsiate negli ori dei mosaici bizantini o tramate da affreschi rinascimentali… Abito ha la stessa radice di abitazione: mi sono sentito a casa nella sorprendente galleria delle meraviglie nostrane. Vedi vestiti e ti innamori dell’Italia (essenziale per un popolo che spesso si disprezza e quindi si trascura), ti meravigli e ritrovi fiducia nell’abitare qui, indossando la storia. Mi sono poi ritrovato anche in una sala-bottega, un atelier dove i miracoli sono cuciti in diretta da giovani sarti che, per un giorno alla settimana, lavorano lì, come in una delle botteghe rinascimentali che hanno reso l’Italia un abito che tutti vogliono indossare, per sentirsi a casa nel mondo.
2. La biologia mi ha sempre affascinato e vi ritorno sempre in cerca di meraviglia. Ultimamente mi ha incuriosito un filone di studi scientifici che mostra come l’interpretazione darwiniana dell’origine delle specie come sola risposta adattiva sia insufficiente a spiegare forme e colori presenti in natura. Si tende sbrigativamente a ridurre nervature delle foglie, disegni di farfalle, colori di piumaggi, trasparenze di animali marini, mantelli di mammiferi… a strategie per evitare predatori e sedurre partner: sopravvivenza e conservazione. Invece quelle forme sono di più. Adolf Portmann ha infatti mostrato, grazie a studi ispirati da una curiosità straordinaria, che la varietà di forme e colori in natura eccede scopi così ristretti, gli aspetti qualitativi non sono del tutto riducibili a quelli quantitativi. La varietà non nega ma include la teoria di Darwin, infatti se la vita mirasse solo all’utile agirebbe più in economia: «È nell’abbondanza che vediamo una manifestazione originaria della vita» (Le forme viventi), un’abbondanza ancora inspiegabile ma foriera di una prospettiva più ampia per nuove scoperte. Il fine della vita più che la conservazione è la bellezza: l’arrossarsi delle foglie autunnali non serve a farle durare di più, è solo festa per gli occhi. Le cose si rivelano nelle relazioni, che non sono solo di «bisogno» (predare, copulare) ma anche di “sogno” (bellezza, gratuità). Guardando questi abiti naturali penso anche agli studenti: ognuno di loro, con i suoi colori e motivi, non è un vivente in lotta, ma un capolavoro in potenza.
3. Mia madre ha compiuto 80 anni. Più la guardo più mi meraviglio. Noi figli abbiamo composto un libretto con brevi scritti delle persone che la conoscono. Mi sono ritrovato tra le mani il bilancio di otto decadi fatto di istanti di cura: una parola, una passeggiata, una lezione, un maglione, un consiglio, una spiegazione, una ricetta… Poesia e frigorifero. Dio e dettaglio. Spirito e calorie. Professione e improvvisazione. Pianterreno e cimasa. Leggendo mi sono tornati in mente i versi di Maura del Serra in Speranza: «Nella rinata bellezza del mondo/ ogni giorno mi levo e mi consumo:/ creatura momentanea di durata infinita,/ tesso per il Creatore la veste della vita» (Concordanze).
Ci sarebbero altre «meraviglie» ma queste sono quelle dicibili nell’ultima settimana, altre rimangano non dette, perderebbero altrimenti l’energia data loro proprio dal silenzio. Se smarrite la fiducia, cercate i «meravigliatori», coloro che fanno miracoli e vi rigenerano perché vi fanno sentire voluti come figli, appartenenti. Chi sono? Quelli che per amore fanno e quelli che fanno per amore.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it