Amo il calcio da quando sono bambino. L’ho praticato ovunque, dal corridoio al campetto, sull’erba o sulla sabbia, in strada o in un parcheggio. Da dilettante, chi si diletta, cioè gode. Amo altrettanto guardarlo, ancor più da quando ho smesso di giocare per la terza frattura al polso sinistro («La prossima volta non lo recuperiamo», mi ha detto il chirurgo), cicatrici che non cancellerei in cambio di una vita senza calcio. Pasolini giocava come ala e faceva un tifo sfrenato per il Bologna: per lui il calcio conservava il sacro popolare più delle messe (allo stadio la gente si stringe con più verità che al segno della pace). Saba, conquistato dall’atmosfera del tifo, ne scrisse in poesia. Luzi ne dedicò una struggente al grande Torino scomparso nel disastro aereo di Superga. La leva calcistica del ’68 di De Gregori mi fa ancora sognare. Le ragioni di questo amore per il calcio mi si sono chiarite una volta di più nel finale del recente derby tra Milan e Inter, che ha attribuito lo scudetto alla squadra supportata da mio padre, mentre io, «guidato» dai miei fratelli all’età di 5 anni, mi schierai dal lato opposto. A dieci minuti dal termine della partita, che l’Inter conduceva per 2 a 0, il Milan ha segnato. Il commentatore ha urlato: «Si riapre la partita» e a me si è riaperto il cuore, come se si trattasse della vita stessa. Qual è il segreto del giocare e in particolare al calcio?
Come tutti i giochi anche il calcio mostra ciò che è umano nell’uomo. Giocare ci rende felici perché imita la vita come nient’altro, tanto che al verbo ludico diamo la massima estensione umana possibile: «giocarsi la vita».
Gli studiosi spiegano che in tutte le culture il godimento del gioco dipende dalle regole. Sembra strano per noi che cerchiamo la felicità nella libertà, nell’assenza di condizionamenti. Invece il gioco ci ricorda che siamo veramente liberi solo nei e non dai legami.
L’uomo gode a trovare la propria via, originalissima e creativa, in mezzo ai limiti: giocare è la rappresentazione della vita come destino e destinazione. Il destino è ciò che non scegli, la destinazione che cosa fai con le carte (altra immagine ludica) che ti capitano.
Nel calcio, come in molti giochi, i limiti sono spaziali e temporali: rettangoli le cui linee sanciscono zone più o meno sacre, da custodire o conquistare, e porzioni di tempo con recuperi commisurati al «non gioco» (non vita). Gli attori agiscono dentro questo spazio-tempo: il destino. Non ci si potrebbe divertire senza confini (la prima cosa che si faceva da ragazzi, improvvisando una partita, era piazzare due zaini come pali e ci si scannava per immaginare l’altezza della traversa nei tiri alti…), né senza orologi (il fatidico «chi segna vince» delle «infinite» partite interrotte solo dal buio).
Ma il calcio, ai limiti di spazio-tempo che ha in comune con tanti giochi, aggiunge un azzardo. È un gioco contro-evolutivo: preferisce il piede, meno sensibile e duttile, alla mano, da cui è invece cominciata l’evoluzione. Dentro questi «legami», garantiti da un giudice (l’arbitro vituperato proprio perché rappresenta e custodisce «il limite»), i giocatori si esaltano, cercando di trasformare il destino in destinazione, il limite in gioia.
Non è forse questa la vita: un perimetro di spazio e di tempo dato una volta sola a ciascuno di noi? Non è la vita un’azione che siamo chiamati a fare entro limiti che non scegliamo?
La passione per il calcio lo è per la vita così com’è: cercare, nei legami, la propria originalità. Anche sulla lapide ci sono scritte le regole del gioco della vita: luogo e data di nascita/morte. Le regole grazie alle quali siamo come tutti ma anche come nessuno. Ce la dobbiamo giocare in questo limite spazio-temporale, e quindi la chiave è nel trattino tra quelle scritte del nascere e del morire: agire, nel calcio l’azione, nella partita, cioè la parte che ci è data, sia come «porzione» di storia umana, sia come «ruolo» da interpretare in quella storia. Come me la gioco?
Agire entro dei limiti, nel proprio ruolo, con altri, non assomiglia alla vita? Essere convocati, rimanere in panchina, scendere in campo non sono tutte metafore dell’esistenza? E oltre ai limiti previsti e fissi, ci sono gli avversari (le «avversità» della vita), limiti imprevisti e mutevoli. Non sono nemici, ma occasioni e resistenze: e chi non ne incontra nel mondo? E poi il risultato a volte non corrisponde all’essere stati superiori e non sempre vince il più forte, perché, nella vita come in questo gioco, c’è sempre la sorpresa di una grazia inattesa.
Chi gioca o guarda confida sino all’ultimo in un guizzo, anche in partite noiose e bloccate, perché il goal non è come il punto, è raro e non garantito. Il risultato può anche essere un pareggio, e come era bello, in origine, affidare non ai rigori ma al caso, una monetina, la vittoria, perché sul campo si è pari.
Siamo fatti per giocarci la vita, eroi di una squadra in cui siamo chiamati a trasformare il destino, regole e limiti, in destinazione, azioni da goal.
Il calcio mima ed esorcizza anche la guerra con il suo lessico: strategie e tattiche, attacco e difesa, ali e centro, incursioni e assedi, barriere e cannonate, infortunati e sostituti… ma della guerra non ha la violenza mortifera, tranne quando i giocatori e le tribù di supporto dimenticano stupidamente che è solo un gioco, una rappresentazione, come a teatro (to play dicono gli inglesi per l’agire in scena e per il giocare).
E in tempi così ottusamente bellici, capisco meglio perché amo il calcio, perché, come ogni gioco, è un sogno: un giorno saremo così evoluti da abbandonare gli scontri armati per dedicarci solo a quelli sportivi. Sapremo mai giocarci così umanamente e gioiosamente la vita?
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it