«Il mio supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia». Parole di Giuseppe Ungaretti nei Fiumi, poesia in cui tratteggia, nello scenario bellico della Prima guerra mondiale a cui partecipò, un rarissimo momento di felicità trovato immergendosi nelle acque di un fiume per lavarsi dalla sporcizia e dalle tenebre in cui era precipitato. Le vorrei usare per ringraziare della fortuna di aver festeggiato un nuovo compleanno e le 200 puntate di questa rubrica.
Il supplizio di cui parla il poeta ci tocca tutti: siamo infelici in misura di quanto siamo dis-armonici e dis-integrati, cioè mancanti di sintonia e unione nelle tre direzioni fondamentali dell’eros: con noi stessi (il supplizio è la distanza tra chi siamo e chi siamo chiamati a essere: in-autenticità), con il mondo (il supplizio è l’isolamento dalle cose, in-differenza, e dagli altri, in-appartenenza), con dio, con la minuscola a indicare la ricerca di senso (il supplizio è la paura che l’esistenza non ne abbia, in-sensatezza). Per un essere fatto di, nelle e per le relazioni le ferite di queste dimensioni sono il supplizio: l’eros, energia attraverso cui cresciamo e gioiamo, si spegne e noi con lui. Come fare a (ri-)trovare l’armonia e vivere la felicità del poeta purificato dalle acque del fiume? Perché e con chi siamo in guerra?
Il poeta soldato dice di soffrire non perché «non è» ma perché «non si crede» in armonia, differenza abissale: l’armonia non è un traguardo da raggiungere ma uno stato che perdiamo o dimentichiamo. Se dico ai miei studenti: «Adesso prestate molta attenzione», si mettono in tensione, quando invece dovrebbero chiudere gli occhi e rilassarsi, come nell’abbandono alle acque che fanno sentire il poeta «una docile fibra dell’universo», unito nelle tre direzioni, personale, relazionale e trascendente. Se il nostro corpo è arrivato a credere che l’armonia sia allerta e non abbandono, è perché siamo permeati dalla spossante convinzione che la felicità sia una performance, qualcosa da ottenere, raggiungere, afferrare, e non semplicemente da ricevere, coltivare, liberare. Mi ha spesso guarito da questa idea tossica la doppia (è rivolta alle due categorie sociali degli ascoltatori) parabola che Cristo usa nel vangelo per descrivere non una religione ma la vita: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13).
Il regno dei cieli o regno di Dio nel vangelo non è un posto sulle nuvole o da raggiungere dopo la morte, ma una metafora per indicare dove Dio regna cioè dove la vita trabocca, una vita viva da subito: la gioia qui, ora e sempre, anche nelle burrasche. E come si legge non è qualcosa da raggiungere ma che ci raggiunge dove siamo, una grazia, un dono. Di fronte a questa «fortuna», si vende tutto, come quando ti innamori e tutto il resto passa in secondo piano. Credenti o no, qui ci si libera dalla felicità-traguardo e ci si apre a una possibilità diversa: la vita ti trova lei, tu lo senti dove e quando sei vivo, fai esperienza di ciò che ti fa crescere, e a quel punto non puoi perder tempo con il resto, perché hai l’essenziale e in abbondanza. Nel compleanno mi sono chiesto a che punto sono con questo essenziale nelle tre dimensioni dell’eros: me stesso, il mondo (cose e persone), dio. A che punto sono con l’esser vivo in ogni circostanza, anche nella tempesta? Lo psichiatra Viktor Frankl, pochi mesi dopo la liberazione dal campo di concentramento, tenne tre affollate conferenze all’Università popolare di Vienna, nella prima delle quali descrisse l’esperienza della prigionia da una prospettiva insolita: «Ciò che rimane è l’essere umano, il mero essere umano. Tutto lo aveva abbandonato: denaro, fama, potere; non c’era più niente di sicuro: non la vita, non la salute, non la felicità; tutto era stato messo in discussione: vanità, ambizione, relazioni. Tutto si era ridotto alla nuda esistenza. Reso incandescente dal dolore, tutto l’inessenziale si era fuso riducendo l’essere umano a ciò che, in ultima analisi, era: o uno qualunque nella massa, cioè nessuno di reale, cioè l’anonimo, nient’altro che il numero di matricola di un prigioniero; oppure riducendolo al suo sé». Se ci tolgono ogni cosa che resta di noi? Nulla o il sé autentico? Il discrimine tra la prima o la seconda opzione per Frankl dipende da «qualcosa di simile a una decisione… perché l’esistenza, alla cui nudità e inermità l’uomo era stato ricondotto, non è altro che questo: decisione». Che cosa intende lo psichiatra viennese per “decisione”? «Compiere un rovesciamento di 180° attraverso cui la domanda non è più “Cosa devo aspettarmi dalla vita?”, bensì “Cosa si aspetta la vita da me?”. Quale compito mi aspetta nella vita? Adesso comprendiamo quanto sia mal posta la domanda sul significato della vita, se la poniamo come si fa di solito: non siamo noi a poter fare domande sul senso della vita, ma è la vita stessa che le rivolge a noi, è lei a interrogarci! E siamo noi quelli tenuti a rispondere. La vita è un essere-interrogati, tutto il nostro essere è un rispondere alla, o della, vita, un esserne responsabili. Assumendo una posizione del genere più nulla può spaventarci, nessun futuro, nessuna apparente mancanza di futuro. Ora, infatti, il presente è tutto, poiché racchiude l’interrogativo eternamente nuovo che la vita ci rivolge. Quello che ci riserva il futuro, invece, non abbiamo bisogno di saperlo» (Sul senso della vita).
Parole a cui sono tornato spegnendo le candeline: quante altre ne avrò? In questa prospettiva la domanda è mal posta e senza risposta. Il punto è invece sgombrare il presente, il più grande serbatoio di sorprese, nel bene e nel male, dal rumore, la paura, le illusioni che gli impediscono di farmi la domanda su cosa si aspetta da me. Che cosa mi chiede la vita ora? Che cosa mi rende vivo nei tre spazi del fiorire: me stesso, il mondo, dio? Mi sono allora chiesto quali siano i tesori nascosti trovati sino ad ora in ognuno di questi ambiti, per vendere tutto ciò che è nulla al confronto. Mi è tornato allora in mente che trent’anni fa, il 1 maggio, nel Gran Premio di Imola moriva il più forte pilota della storia: Ayrton Senna. Allora seguivo con passione la Formula Uno con mio padre. Vidi in diretta l’incidente, ricordo tutto. Avrei compiuto 17 anni l’indomani, e sentii il morso di quella fine incombere sul mio inizio da rinnovare. Volevo sapere tutto dell’incidente: se anche Senna muore, figurati io… Lessi che nella tuta che indossava in gara era stato trovato un biglietto con scritto: «Nessuno mi può togliere l’amore che Dio ha per me». Quello era tutto il suo presente, il tesoro nascosto. Più cresco più mi sembra che la vita non abbia un traguardo da raggiungere ma che il traguardo siamo noi se ci lasciamo raggiungere, qui e ora, dalla grazia di essere nati per poi, forti di questo eros, far nascere il presente. Solo quando trovo in me ciò che non può essermi più strappato riesco a vedere nelle candeline non quanti anni di vita compio, ma quanta vita si compie negli anni. E soffio.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it