Il bambino che «sarebbe meglio che non sopravvivesse» – come alla nascita qualcuno diceva – sgambetta furioso per tutta la casa a cavalcioni di una macchinina dei pompieri, evitando gli spigoli del lungo tavolo da pranzo di legno scuro intorno al quale i fratelli controllano i bigliettini per la festa del quinto compleanno. I compagni dell’asilo sono tutti invitati; mamma Emanuela aspetta però quel sabato per vedere quanti davvero saranno presenti.
Del resto, talvolta capita che incrociando Giovannino per strada, qualche passante si soffermi un po’ troppo a lungo sul suo volto imperfetto, sulla sua manina destra con un paio di dita in meno, sulle sue orecchie incollate al cranio, sul suo incarnato rossastro. Sebbene il piccolo sia il beniamino della sua classe, alla scuola dell’infanzia di un paesino nel cuneese cinto da una corona di vette alpine ancora imbiancate, è lo sguardo dei genitori, non certo quello dei bambini, a impensierire Emanuela e Luca. Da poche settimane, dopo quasi 5 anni di affidamento, sono diventati la madre e il padre adottivi di Giovannino e con quella sentenza in mano, finalmente responsabili in tutto e per tutto del piccolo, hanno deciso che era tempo di raccontare chi è quel bambino imperfetto che «qualunque genitore che avesse saputo della sua condizione avrebbe abortito», quel piccolo abbandonato dai genitori naturali per la severità della sua malattia e che «nessuno adotterà perché le persone scappano da situazioni simili», come ancora (mal)preconizzava qualcuno. Chi è Giovannino ora, un lustro dopo quei terribili eventi che fecero rumore sulla stampa e sul web, e quanto profondo è l’amore che ha portato nella vita della loro famiglia.
Hanno scelto Avvenire per farlo.
Nato nel luglio 2019 da una fecondazione assistita, strenuamente voluto da una coppia piemontese che però non resse alla spietata diagnosi: il piccolo è portatore di una gravissima malattia genetica, la ittiosi Arlecchino, la variante peggiore della Ittiosi autosomica congenita, non rilevabile con i comuni test prenatali. Nell’utero materno il feto è ricoperto da una specie di corazza, alla nascita la pelle si secca a squame e si stacca, lasciando ferite profonde. Le membrane degli occhi e della bocca sono rovesciate all’esterno, gli arti contratti a causa della pelle che tira. È una malattia rara, ne è colpito un neonato su un milione, e quell’uno difficilmente sopravvive. Quando sopravvive, però, il suo sviluppo e la sua aspettativa di vita non sono sostanzialmente diversi da quelli di un altro bambino. Per quanto riguarda le cure necessarie, è un altro discorso. In ogni caso, i genitori biologici di Giovannino sono comprensibilmente spaventati, pensano di non essere in grado di crescerlo. Il piccolo resta solo, accudito per 4 mesi dai sanitari dell’ospedale torinese in cui è nato.
Emanuela e Luca P. con Giovannino – Famiglia P.
All’inizio di novembre 2019 la notizia trapela, sui giornali se ne parla, si aprono dibattiti sul comportamento dei genitori biologici, sulla sicurezza della fecondazione assistita e sulla sorte del piccolo. Al Sant’Anna di Torino arrivano diverse telefonate di persone che offrono accoglienza, il Cottolengo scrive una lettera aperta di disponibilità.
E avviene l’impensabile: un medico del Sant’Anna, il dottor Silvio Viale, già esponente radicale, scrive parole dure su Facebook: la gara di solidarietà «è una cosa penosa», «chiunque di noi, potendo conoscere la diagnosi durante la gravidanza, abortirebbe», «c’è da sperare davvero che non sopravviva». Parole che sono costate al professionista l’apertura di un procedimento disciplinare.
Da pochi giorni è arrivata la sentenza:
Luca ed Emanuela
sono mamma e papà del piccolo
«Non giudichiamo i genitori naturali,
hanno avuto paura. Ma la vita fragile
è preziosa. E lui per noi è gioia immensa, amore puro»
E sono quelle parole che ronzano ancora nella testa di Luca P. (non completiamo il cognome perché sono coinv olti minori fragili): perché sono lui e la moglie Emanuela, “blindati” dai sanitari dell’ospedale, che sul finire del 2019 portano a casa Giovannino, che lo accolgono nella loro grande famiglia che già conta quattro figli naturali, uno adottivo e altri in affido com’è caratteristica di chi fa parte dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi. «Un giorno andrò a trovare quel medico – riflette sereno Luca -; gli presenterò Giovannino e gli racconterò che ventata di gioia e di amore ha portato tra noi. La sua è una storia di fragilità, certo, ma soprattutto di infinita voglia di vivere».
Il bambino che in casa ora salta sulla rete elastica e si immerge nella vasca delle palline di plastica sistemate in una stanza come ausili alla motricità, frequenta il penultimo anno della scuola materna, è un po’ più piccolo di quanto richiederebbe la sua età perché ha un consumo metabolico basale superiore al normale e quindi c’è un dispendio eccessivo di energia; l’integrazione all’alimentazione via bocca è affidata a un sondino enterale che funziona di notte. In classe ha un’insegnante di sostegno, fa sedute di neuropsicomotricità e ha problemi di vista. Presto sarà operato per aumentare la presa alle dita della mano destra. Al mattino deve essere deterso accuratamente con speciali soluzioni e quattro volte al giorno la sua epidermide deve essere idratata con creme speciali. Durante la giornata si alternano diverse figure di assistenza e sostegno familiare, anche per seguire Maria Vittoria, la bambina con grave disabilità in affidamento familiare in casa di Luca ed Emanuela.
La famiglia P. al completo, con quattro figli “di pancia” e gli altri tre in affido o adottati – Famiglia P.
«Non neghiamo che questi anni siano stati impegnativi e per questo non giudichiamo i genitori naturali, pensiamo che si siano trovato di fronte a una situazione inattesa e che si siano sentiti soli – spiega mamma Emanuela, infermiera di professione -. Ma la vita fragile merita tutto il nostro amore. A chi dice: che futuro può avere questo bambino, rispondo che per ora è nella norma, domani non lo so. A chi pensa che sia un povero infelice, rispondo che Giovannino ha una vita felice perché lui è felice, buono, allegro, gioia pura; talvolta sente su di sé gli sguardi degli altri, qualche parola cattiva di troppo, ma non ci bada. Non per ora, più avanti non lo so».
Ecco perché 5 anni dopo vogliono che si riparli di Giovannino, nel frattempo divenuto figlio con una sentenza del Tribunale a dispetto dei profeti di sventura che dicevano «nessuno lo adotterà»: perché la fragilità non è una colpa, la fragilità è ricchezza e ciò che conta è la vita. La vita di Giovannino non vale meno di quella di un qualunque altro bambino. «Non vorrei ferire i genitori naturali – ripete più volte Luca -, che comunque questa esperienza di sofferenza si porteranno sempre nel cuore». Ma accanto alla preoccupazione di non giudicare né riaprire ferite indelebili, c’è il desiderio di affermare un principio molto semplice: nessuno può decidere quale vita valga di più o di meno, né quanto una persona possa o non possa vivere. Ogni vita conta. Quella di Giovannino come tutte. O, forse, più di tutte.
La Comunità papa Giovanni XXIII: una casa per chi non ce l’ha
Emanuela e Luca P. fanno parte dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi nel 1968. La loro famiglia (i figli “di pancia” sono quattro) da oltre 30 anni si è aperta all’accoglienza: sono oltre 40 i bambini e i ragazzi che hanno trovato un tetto e un affetto presso di loro, per un breve o un lungo periodo. Oltre a Giovannino, la coppia ha adottato il 18enne Karim e ha in affidamento Marco che oggi ha 27 anni e ha la Sindrome di Down. Entrambi sono arrivati a casa P. a 5 mesi di vita, il primo dopo la dichiarazione di adottabilità e l’altro dopo l’abbandono dei genitori naturali. Ad attivare ogni volta la famiglia, tramite la Comunità Papa Giovanni XXIII, sono i servizi sociali o gli ospedali: in presenza di casi disperati gli operatori sanno che quello di Luca ed Emanuele è un abbraccio sempre aperto. La Comunità nel tempo è diventata una realtà complessa, presente in tutto il mondo con oltre 500 realtà di condivisione tra case famiglie, mense per i poveri, centri di accoglienza, comunità terapeutiche, Capanne di Betlemme per i senza tetto, famiglie aperte e case di preghiera. Esistono anche progetti di emergenza umanitaria, di cooperazione allo sviluppo e di azione nonviolenta di pace nelle zone di conflitto (Operazione Colomba). Dall’idea di don Benzi di “dare una famiglia a chi non ce l’ha”, è nata nel 1973 a Coriano, in provincia di Rimini, la prima casa famiglia. Uno straordinario progetto di condivisione di vita, per tutta la vita, con bambini, disabili, persone emarginate, che continua a vivere in 306 case famiglia e famiglie aperte sparse in 26 Paesi del mondo. dove migliaia di persone hanno trovato e ancora trovano la risposta al bisogno innato di tutti: sentirsi amate.
Fonte: Antonella Mariani | Avvenire.it