Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. Oggi l’incontro con il teologo domenicano padre Giuseppe Barzaghi
Il magister in sacra theologia aveva tre compiti: legere, disputare e praedicare. Doveva interpretare i testi (biblici, di Aristotele, le Sentenze di Pietro Lombardo, etc.), tenendo conto del fatto che un maestro può leggere in un modo diverso da un altro, e perciò era necessario mettere a confronto le diverse tesi avviando così una disputa, il che non significava litigare, ma pulire intensamente le idee opponendo il proprio all’altrui parere. M’incontro con padre Giuseppe Barzaghi, il quale appare come l’ultimo degli Scolastici, perché è tra i pochi che riescono a svolgere tutt’e tre le funzioni, anche l’ultima: «Certo, perché se non predichi che teologo sei?».
L’INCONTRO CON SAN TOMMASO
Domando anzitutto come mai abbia deciso di farsi domenicano: «La decisione è maturata leggendo Tommaso d’Aquino. All’inizio della prima liceo classico mi ero interessato al problema della paleoantropologia, perché negli anni ’70 era uno degli argomenti che andava di moda. Mi ero imbattuto nel libro Il fenomeno umano di Teilhard de Chardin… e non c’avevo capito niente! Tuttavia, nella Prefazione si diceva che il gesuita aveva fatto con il positivismo quello che l’Aquinate aveva fatto con Aristotele. Chiesi allora a mia mamma di compararmi la Somma Teologica e a 16 anni ho cominciato a leggerla. Quando ho maturato la vocazione sacerdotale ho cercato d’istinto i Domenicani. Mi sono laureato in filosofia e poi ho fatto il mio ingresso nell’Ordine». Capisco che la passione per il Dottore Comune non si sia mai spenta: «In san Tommaso ho trovato un maestro e coltivando questa idea di maestro – magistero, maestria – mi sono accorto che ne aveva generati tanti altri, e non soltanto nel suo periodo storico. Voglio menzionare almeno Alberto Boccanegra, un gigante. Non solo, nel Medioevo c’erano le scuole di pensiero e d’altra parte tutta la storia della filosofia è la storia di scuole di pensiero: dal Peripato all’Accademia, dalla Stoà al Giardino. è terribile per gli studenti l’assenza nel loro bagaglio culturale di quelle parti tipiche della Scolastica come la logica, la critica, l’ontologia, la teologia razionale. Ce ne si accorge dalla loro grande confusione verbale e, quindi, concettuale».
Chiedo conto del perché: «Perché manca la sistematicità che invece c’è quando è presente un maestro, un maestro di pensiero! Per esempio san Tommaso afferma che per chi riflette filosoficamente non è tanto importante sapere chi ha esposto una tesi, ma se sia vero o meno quanto è stato enunciato. E questo, per esempio, è ciò che maturava in una scuola come quella di Bontadini in Cattolica. Per dire che non si studia l’ontologia di Heidegger, si studia l’ontologia in quanto tale. Lo studio dell’ontologia ha diverse prospettive che vanno valutate, ed è questa valutazione a portare in seconda battuta alla scoperta di un maestro. Solo la verifica fa capire la bontà di un maestro».
QUID EST VERITAS?
Entriamo a gamba tesa in un discorso tra i più importanti della nostra epoca: “Cos’è verità?”. Giro la quaestio al mio interlocutore: «Posso ripetere l’espressione di san Tommaso: la verità è adeguazione dell’intelletto e della realtà. Il problema, però, è declinare questa definizione: dalla verità logica (adeguazione dell’intelletto alla cosa) a quella ontologica (adeguazione della cosa all’intelletto) si scopre che la verità è adeguazione dell’intelletto e della realtà, cioè è un pareggio originario tra l’intelletto e la realtà. Quando uno parla di realtà parla inevitabilmente dell’intelligenza che ne ha, e quando parla dell’intelligenza, questa è l’intelligenza di qualche cosa (l’intelligenza di nulla è nulla come intelligenza). Questa è l’originaria dimensione che va ribadita e che nella filosofia di san Tommaso si chiama intenzionalità: il conoscente nell’atto di conoscere e il conosciuto nell’atto di essere conosciuto sono la stessa cosa, perché sono il conoscere. Dentro questo atto di conoscere il soggetto possiede un duplice criterio di verifica». Esponendo ed espandendo la dottrina tomistica, padre Barzaghi sale in cattedra: «Il primo livello è la spiegazione. Conosco qualche cosa, e devo spiegarla. Ma la spiegazione che può essere ottima, non è detto che sia l’unica. È dunque necessario il secondo livello, l’elemento scientifico: mostro che quella spiegazione non solo è buona, ma addirittura ottima, ed è l’unica spiegazione possibile. Faccio così vedere che tutto ciò che le si oppone è in sé assurdo. Questa è la radice della scientificità, della scienza in quanto scienza».
Se possono apparire discorsi astratti, invero sono più reali di quanto ci si aspetta: «Certo – mi viene ribadito –, perché se il criterio è questo c’è poco da contrabbandare come fa la radio, la televisione o i social, magari affermando “la scienza dice…” e crederci acriticamente! La scienza moderna, o la scienza sperimentale, è ipotetico-deduttiva, e ciò vuol dire che è suppositiva, ed essendo suppositiva non è incontrovertibile: non sto dicendo che non abbia le caratteristiche dell’ipotesi con verifica, ma che non si può proporre la scienza moderna alla stregua di oracoli divini! È scienza provata non quando è probabile, ma solo quando una tesi risulta essere incontrovertibile! Per cui una cosa è vera non perché lo sostengono gli scienziati, ma lo è solo quando si dimostra scientificamente la validità di quella ipotesi: altrimenti è come l’ottone che è l’oro del Giappone!».
TEOLOGIA E’ SCIENZA?
Rimango ammaliato da tanta capacità speculativa dell’uomo in saio davanti a me – che aveva colpito per acume anche un filosofo del calibro di Emanuele Severino – e insieme dalla sua contagiosa simpatia. Rilancio: la teologia è una scienza? «Assolutamente sì! San Tommaso stesso attinge il suo argomentare dagli Analitici Secondi di Aristotele, ma la prima applicazione che ne fa è a proposito della sacra doctrina (la teologia la chiama così): Utrum sacra doctrina sit scientia e sit una scientia. Perché per scienza si intende una conoscenza certa di un enunciato. La definizione di san Tommaso sarebbe cognitio certa per causas. In teologia c’è un criterio fondativo, ma non ultimo, perché l’ultimo fondamento è la fede. La teologia è scienza, perché ha un carattere sillogistico ma non dimostrativo, bensì presuppositivo, cioè non si dimostra il contenuto di fede, bensì lo si spiega per comprendere “che cosa si crede”, perché si continui a crederlo; non è una dimostrazione, altrimenti non si crederebbe più. Cerca, altresì, di far capire che cosa si crede, illustrando il contenuto di fede mediante l’opera della ragione: opus fidei et rationis, cioè un lavoro scientifico prodotto insieme dalla fede e dalla ragione. Sicché, continui a credere, ma la teologia ti consente la comprensione di ciò che stai credendo».
È innegabile che la speculazione teologica abbia raggiunto livelli estremamente bassi: «Il problema è cosa s’intenda per teologia. Adesso la identificano con la teologia positiva tipica del moderno. In più, la teologia positiva è diventata l’esegesi, che invero ha lo scopo di ricostruire – neppure interpretare – il testo. Sembra che il compito degli attuali esegeti sia quello di far perdere la fede! Per questo dico che san Tommaso la chiamava sacra doctrina, dottrina “sacra”. Uno può fare il teologo se ha una dimensione contemplativa: contemplari et contemplata aliis tradere».
PIU’ DOTTRINA PER TUTTI
M’informo su cosa sia assente nel nostro contesto: «Quello che manca è la dottrinetta», mi vien replicato con umorismo, per poi rilanciare: «C’è un catechismo? Ecco la dottrina: la teologia sintetizzata, compendiata. La gente ha bisogno di capire in cosa crede, poi vanno bene tutte le esperienze, ma (tenendo conto che i cieli e la terra passeranno) bisogna innanzi tutto andare a vedere effettivamente qual è il contenuto di fede. E uno che segue la dottrina diventa dotto, perché il contenuto di fede implica il contenuto di ragione. Il fatto che oggi ci sia questo apprezzamento per il cosmo dovrebbe dipendere più dalla fede cristiana che non dalla ragione o dalle mode!».
Intuisco che la teologia è un saper guardare in alto, come suggerisce il tomismo anagogico di produzione barzaghiana: «L’idea fondamentale mi è nata quando il cardinal Giacomo Biffi aveva istituito una scuola di anagogia in cui si rilevava che l’anagogia non era solo un modo d’interpretare le Sacre Scritture. Richiamando brevemente, la Scrittura può avere un significato letterale, storico e spirituale suddiviso in allegorico, morale e anagogico. Quest’ultimo, che permette di scoprire nella “lettera” la presenza di realtà eterne, era quello più interessante. È quindi diventato chiave per Biffi e per il suo commento all’inno cristologico di Colossesi dove si evince che per mezzo di Gesù, in vista di lui, tutte le cose sono create e tutte sussistono in lui. Il problema era che quel pronome si riferiva a Cristo in quanto uomo, non a Cristo in quanto Verbo. Ma come è possibile pensare che l’umanità di Cristo presiedesse all’atto creatore? Il Cardinale mi aveva chiesto di fondare metafisicamente questo discorso. Ho attinto il termine scolastico sub specie aeternitatis. Se noi assumiamo la prospettiva dell’eternità, quel problema di come sia possibile si risolve, perché vuol dire considerarlo ex parte Dei, dalla parte di Dio. La rivelazione è Dio che parla, non siamo noi che facciamo gli opinionisti. Se è Dio che parla, si rivela dal punto di vista dell’eternità e dal punto di vista dell’eternità non c’è il problema del “prima” e del “poi”. Dio conoscendo la propria essenza conosce tutte le realizzazioni similitudinarie di questa essenza che si chiamano creature. Inoltre, dove c’è una conoscenza di una pluralità, la conoscenza di questa pluralità implica un ordine e dove c’è un ordine c’è un criterio. L’espressione paolina è quella del disegno, che non significa porre la temporalità in Dio (Egli prima pensa una cosa e dopo la compie). Il disegno è un complesso di linee che strutturano una realtà con un punto di fuga. Questo punto di fuga è l’umanità di Cristo paziente e risorto e, quindi, l’incarnazione, la passione, la morte e la risurrezione di Gesù».
NELLA PROSPETTIVA DI CRISTO
Interrompo: è la stessa idea presente nella Redemptor hominis di Giovanni Paolo II: «Sì, perché lì si dice che il Redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è centro del cosmo e della storia. Non bisogna dimenticarlo: se fosse semplicemente centro della storia, ognuno fa il centro che vuole (si può fare, per esempio, la divisione della storia prima e dopo la scoperta dell’America), ma siccome Cristo è centro del cosmo, la sua dimensione fondativa fa sì che sia discrimine anche rispetto agli avvenimenti della storia, proprio perché il centro del cosmo lo posso considerare dal punto di vista dell’eternità. Così è nato il mio tomismo anagogico, perché prendevo alcune tesi di san Tommaso, ma dovevo per forza espanderle». Proseguire il metodo dell’Angelico si può definire tomismo vivente: «Di più – mi viene confidato – se uno trasmette il tomismo vivente si sente che il tomismo è diventato vitale».
Quanti padre Giuseppe Barzaghi ci vorrebbero nel nostro mondo accademico, in grado cioè di aiutare nella riflessione, senza dimenticare il buonumore! Mi devo congedare dopo tanti minuti passati in un soffio, e lo faccio interrogando il frate predicatore su come comportarsi in tempi tanto drammatici: «Bisogna essere capaci di fare l’andatura! Cosa vuol dire? Quando corri in bicicletta c’è sempre uno davanti che detta l’andatura e di cui segui la scia. La stessa cosa vale nell’attività di pensiero: ognuno deve essere capace di fare l’andatura, perché un certo fascino salta fuori sempre ed è contagioso, affascina! Se uno crede, prova un tal gusto in quello che fa, che inevitabilmente genera una scia. Nelle circostanze in cui ci si trova si possono recuperare i bellissimi discorsi della tradizione, della scuola medievale, dei Padri…».
Fonte: Samuele Pinna | IlTimone.org