«Sono una mamma e nella vita faccio il lavoro più bello: l’infermiera. Ho bisogno di aiuto per una ragazza che qualche giorno fa ha deciso di gettarsi da un cavalcavia. Da quel volo è uscita viva ma con il corpo distrutto, avrà una vita in carrozzina. Mi ha confidato che lei è uno dei suoi autori preferiti, allora mi sono chiesta cosa posso fare per riportarla alla vita? Sì, perché vuole ancora morire. Forse chiedo troppo, ma se c’è una possibilità di riportare il cuore di questa ragazza alla bellezza della vita, perché non provarci? Due righe potrebbero cambiare la vita a lei e ai suoi genitori che sono distrutti». Lettere come questa mi riportano al perché fare lo scrittore e l’insegnante. Infatti «portare alla bellezza della vita», come chiede questa donna, è di sicuro lo scopo di queste due professioni, e di chissà quante altre… Uno scopo descritto perfettamente dal Nobel per la letteratura Elias Canetti nella sua conferenza-testamento, intitolata «La missione dello scrittore»: «Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri. Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri a ognuno». Che cosa dire allora? Che parola? L’occasione ne richiede una nuova, o da riscoprire. La dedico a questa ragazza.
Come ripeto spesso vivere è sperare di nascere del tutto, quindi se qualcuno decide di smettere di vivere è perché non spera più che la propria vita abbia e possa raggiungere un compimento. Questa energia, che caratterizza ogni vivente, nell’umano è specifica, infatti non la chiamo nascita, ma «nascenza», recuperando una parola desueta in italiano, ma comune in altre lingue neolatine: in francese nascita si dice naissance, in spagnolo naciencia. Uso quindi nascenza anziché nascita per marcare la differenza tra il processo e l’esito del nascere. Tutti gli esseri viventi, alla nascita – consentite la ripetizione – nascono del tutto, l’istinto li dota infatti sin da subito del programma per raggiungere la propria felicità; l’uomo invece è chiamato a nascere, venire alla luce, venire al mondo, per tutta la vita. È in nascenza perché è libero, non è determinato direttamente dall’istinto, ma sceglie. In noi l’energia vitale non si esplica spontaneamente ma è attivata e indirizzata attraverso ciò che traduce l’istinto in riti, luoghi e narrazioni, cioè la cultura, l’insieme di forme con cui sopra-viviamo. Per esempio a differenza di un’ape che ha da subito un ruolo e sa fare un alveare, noi per vivere riceviamo istruzioni attraverso forme educative come la scuola, o impariamo a regolare i rapporti sociali attraverso forme politiche come la democrazia. E mentre l’alveare è e sarà sempre la forma di sopravvivenza delle api, le forme di nascenza umana con il tempo possono logorarsi, perché non rispondono più alle sfide vitali, anzi magari finiscono con ingabbiare e mortificare la vita (come oggi spesso accade con la politica e con la scuola). In questi casi le civiltà decadenti o si aggrappano ossessivamente al passato e affondano insieme al relitto o si lasciano andare per disperazione senza neanche provare a nuotare verso terra, le civiltà vive invece trovano e inventano forme nuove di salvataggio. Atene inventò la democrazia e Roma le reti stradali, forme che ancora durano perché restano tra le migliori per farci «nascere». La «nascenza» è quindi il dialogo continuo e fecondo con la realtà, un incontro che diventa «co-nascenza», cioè un nascere del mondo con noi e di noi col mondo. Reinterpretando l’Ulisse dantesco fatti non fummo per vivere come animali ma secondo «virtute», la vita buona, e «co-nascenza», cioè la vita in cui si nasce insieme a ciò che ci sta attorno, vita collegata, energie che si alimentano e moltiplicano a vicenda, come in un’orchestra. A proposito di musica, in una recente canzone intitolata «Tutti hanno paura», il rapper Ernia sintetizza in che stato è oggi la «nascenza»: «A breve sarò anch’io fuori dai venti/ I grandi mi tengon sotto, i piccoli crescon svelti/ Dovrei donare ai primi la fine che fa Saturno/ Ed ingoiare i secondi per rimandare il mio turno». Si riferisce al mito del dio che divora i figli appena nati perché sa che uno di loro lo eliminerà, cosa che infatti accadrà perché la moglie gli darà in pasto un masso anziché il neonato. Il rapper canta la paura della in-co-nascenza: l’adulto è da eliminare, il nuovo da divorare, pur di occupare la scena e rimandare l’appuntamento con la morte. La ragazza della lettera ha perso ogni speranza di co-nascere, e quindi ogni ri-co-nascenza: la gratitudine per essere venuta al mondo e la speranza di poter venire ancora al mondo. Eppure un’infermiera decide di prendersi cura non solo del suo corpo e ascolta che cosa la lega (appartenenza) alla vita. Questa ragazza, senza energie per ri-nascere, può trovarle in chi ha deciso gratuitamente di «ri-co-nascerla». Può salvarsi grazie alla co-nascenza, cioè la scoperta che, benché le sembri di essersi ridotta al nulla, qualcuno la vuole viva. E un nulla, amato, diventa tutto. Quindi La parola che riporta alla bellezza di vivere non è un fiato, ma carne: è l’infermiera. La «nascenza» viene sempre da una appartenenza d’amore. Qualche giorno fa ho tenuto un racconto teatrale al quale avrebbe partecipato una ragazza che mi ha scritto parole più autorevoli delle mie, perché nate proprio da una «carrozzina»: «Sento una profonda gratitudine. Anni fa, uscita da un ospedale vicino a dove parlerai, in preda alla disperazione per la malattia che mi bloccava braccia e gambe, ho sentito nella morte l’unica soluzione possibile per me, la bellezza di quelle strade non mi parlava più. Poi però negli anni in sedia a rotelle, attraverso i libri il mondo è entrato nella mia stanza e leggendo ho sentito che valeva ancora la pena vivere». La via della co-nascenza sono stati dei libri. Adesso questa ragazza si occupa professionalmente di aiutare altri a uscire da situazioni critiche, la sua esperienza l’ha resa capace di «co-nascenza». Allo stesso modo gesti, parole, luoghi ci fanno nascere se sono «co-nascenza», cioè forme della creatività umana che creano appartenenza (carezze, lettere, libri, ospedali, scuole, spazi architettonici…) e attivano le energie vitali già presenti in ognuno, ma spente dalla disperazione. Un docente co-nasce con gli studenti, uno scrittore con i lettori, un giardiniere con le piante, un capo con i dipendenti, un politico coi cittadini. In ogni ambito, ciascuno nel suo, vivere è creare condizioni di co-nascenza. Solo così smettiamo di oscillare tra voler occupare tutta la scena e voler toglierci di scena, per paura di non esistere abbastanza, e ci apriamo all’unica forma felice di vita, quella che ci permette di nascere fino alla morte: la ri-co-nascenza.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it