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Filosofia e teologia

Nella storia del pensiero occidentale teologia e filosofia si coappartengono così profondamente da potersi descrivere come inseparabili, anche se mai unite1. Ai nostri giorni, poi, esse si scoprono accomunate in una nuova solidarietà di fronte alla sfida del dolore del tempo nelle forme che ci hanno raggiunto con la pandemia e le guerre in atto. Anche per questo l’invito alla teologia raggiunge il filosofo come una voce familiare, a volte obliata o taciuta, sempre comunque reperibile nel profondo del proprio indagare. E al teologo l’esercizio dell’interrogazione radicale, caratteristico del filosofo, appare componente ineliminabile del suo più profondo pensare2. Nelle riflessioni che seguono una tale coappartenenza è verificata intorno a quattro grandi temi: la domanda della vita e del dolore, la questione di Dio, il pensiero della Croce e la sfida della speranza, aperta al futuro assoluto.

a) “Cogitatio vitae et doloris” – Pensare la vita e il dolore

Ciò che rende oggi più poveri filosofi e teologi è la sofferenza dell’assenza di patria (la Heimatlosigkeit heideggeriana), la mancanza cioè di un orizzonte comune, rispetto a cui motivare l’impegno e dare senso alla vita. Questo senso di addio, questa fragilità e debolezza, sono il luogo in cui filosofi e teologi non possono più scontrarsi muovendo da facili certezze, quasi che qualcuno possegga la clava della verità, con cui punire o giudicare l’altro. Questo senso di smarrimento, di disagio, di bisogno di patria, questo peso del dolore dell’abbandono, può essere evaso, nascosto, fuggito: si può tentare di essere non pensanti, e dunque negligenti di fronte alla condizione del naufragio. Ma nel momento in cui si pensa e si è coscienti, la lama di questo dolore del mondo non può non interrogarci tutti: teologia e filosofia più povere, meno ideologiche, sono proprio per questo più aperte alla ricerca, e perciò accomunate nell’esperienza e nel bisogno di curare le ferite del vivere e di aprirsi alla sfida e al dono dell’Altro, ultimo e misterioso.

Danno voce a questa sfida che viene dalla domanda del dolore numerosi pensatori: due esempi possono renderne la portata. Il primo è quello offerto da Andrea Emo, il solitario pensatore che lasciò ai posteri la testimonianza della sua ricerca senza curarsi di cercare riscontri o reazioni in vita3. Con una paradossale invocazione Emo esprime il destino di porre domande che aprono al mistero, ma che non trovano luce o risposta: «Concedici, o Signore, i paradisi del nulla, i giardini della tua primavera. Signore che fai della notte un mattino, il mattino che paghiamo con le monete luminose degli astri, astri della notte, guide degli erranti, degli erranti verso l’infinito: cos’è il cielo se non l’infinita via verso il nulla? Che è il nulla se non un ritorno, il tuo ritorno? Che è l’infinito se non un ritorno?»4.

Queste parole non esprimono una banale negazione di Dio e del Suo mistero, ma danno voce alle inquietudini della vita che sembra “gettata verso la morte” (la “Geworfenheit zum Tode” di Heidegger), e che dunque è lotta col nulla, che sembra assorbire tutte le cose.

Altra voce, testimone della rilevanza della sfida del dolore per il pensiero, è quella di Dietrich Bonhoeffer, il teologo evangelico morto martire della barbarie nazista nel campo di concentramento di Flossenburg. In una poesia inviata dal carcere di Tegel scrive: «Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione / piangono per aiuto, chiedono felicità e pane, / salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte. / Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani. / Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione, / lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane, / lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte. / I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza»5. A differenza di Emo, Bonhoeffer riconosce un orizzonte di senso davanti alla sfida del dolore nella sofferenza di Dio rivelata in Cristo: il Dio sofferente non solo attesta la sovrana dignità del dolore, ma dà ad esso valore nell’offerta d’amore che fa di sé.

È, dunque, la fede in Cristo che può dare luce e significato alla prova di chi soffre e soffrendo ama. Esprimono bene una tale esperienza queste parole di Adriano Fabris: «La fede si presenta come quell’immediato coinvolgimento nel rapporto personale con Dio, che è capace di guidare e di riempire di senso ogni mia relazione: sia conoscitiva, sia pratica»6. È la relazione di affidamento, rivolta all’amore divino rivelato nel Figlio, che può renderci capaci di dare senso e valore al limite, alla prova e al dolore. Questa prospettiva teologica non è meno filosofica. Lo attesta Luigi Pareyson con parole riferite alla scelta ineludibile di fronte a cui ci pone la Croce di Cristo: «La questione è filosofica, nel senso più intenso della parola: ecco perché essa è ineludibile e il dilemma che ne risulta è perentorio. Inutile obiettare che si tratta d’una questione extrafilosofica, esclusivamente religiosa, e quindi intima e privata, che interessa soltanto un determinato genere di persone. Come questione filosofica, che emerge dalla coscienza critica d’una concreta situazione storica, essa interessa tutti … ed è qui che la scelta per e contro il cristianesimo diventa decisiva. Non meno che la questione, è filosofica anche la decisione: è la filosofia che configura il dilemma, che pone l’aut aut, che esige la scelta. Non ci si può sottrarre: il faut choisir»7.

b) “Cogitatio Dei” – La questione di Dio

Connessa alla sfida rappresentata dalla domanda del dolore è la questione suprema che impegna il pensiero tanto teologico, quanto filosofico: la questione di Dio, la cogitatio Dei. Riguardo al rapporto fra filosofia e teologia è decisivo comprendere che tipo di genitivo sia questo “di Dio”: la risposta a prima vista evidente – che cioè per la filosofia il genitivo sia oggettivo, per la teologia soggettivo – è soltanto apparentemente corretta. Essa dà per scontato che la filosofia sia un «disputare de Deo», destinata agli strali di chi ritiene «magnum peccatum» una simile disputa (Lutero), e invece la teologia sia puro «auditus fidei», ascolto credente di ciò che è dietro, nascosto, ultimo e profondo al di là del Verbo, che si è detto e abbreviato nel tempo. In realtà, come c’è una teologia che concepisce in senso oggettivo il genitivo della «cogitatio Dei», così c’è una filosofia che lo interpreta in senso puramente soggettivo: è la filosofia intesa come «ragione di Dio», nella quale sarebbe Dio stesso a conoscere sé stesso nell’atto del Suo rivelarsi al pensiero.

La «pointe» di questa filosofia è riconoscibile in Hegel, che fa della ragione umana la «ragione di Dio» nel forte senso soggettivo di questa espressione: secondo la parodia di Nietzsche «Dio è divenuto finalmente comprensibile a sé stesso nel cervello hegeliano». Scrive Hegel: «Dio si rivela.Rivelarsi vuol dire… il determinarsi per sé, essere per un altro; questo manifestarsi appartiene all’essenza dello spirito stesso. Lo spirito che non si manifesta non è spirito… Dio come spirito è essenzialmente questo: essere per un altro, manifestarsi… Dunque questa religione si manifesta: poiché essa è lo spirito per lo spirito, è la religione dello spirito e non del mistero, non del chiuso, ma del manifesto … Lo spirito è apparire a se stesso»8. L’originario “in sé” dell’essere divino – il Padre che eternamente genera – si fa “per sé” divenendo oggetto di conoscenza a sé stesso – il Figlio amato -, affinché giunga alla riconciliazione, l’“in sé” e “per sé” della comunione dello Spirito, che è appunto l’amore ricevuto e donato dall’Uno e dall’Altro. La fede trinitaria è risolta nell’auto-mediazione del Dio hegeliano, in un assoluto “monismo dello Spirito”9, che fa dell’auto-comunicazione divina agli uomini un atto necessario, non libero, della vita divina, e perciò tutt’altro che un atto d’amore. Un atto, per giunta, deducibile dallo stesso processo dello spirito umano, fenomenologia dello Spirito eterno.

A questa impostazione si oppone F.W.J. Schelling, che nella sua Filosofia della rivelazione scrive: «A che scopo si darebbe una rivelazione, o a quale scopo se ne manterrebbe anche solo in generale il concetto, se noi attraverso tale rivelazione infine non progredissimo, o non divenissimo consapevoli se non di ciò che anche senza di essa o da noi stessi già sappiamo o potremmo sapere? … È dunque facile riconoscere … che diventa necessario ammettere che il contenuto della rivelazione è tale che senza di essa non soltanto non lo si sarebbe saputo, ma non lo si potrebbe sapere. Qui la rivelazione viene dunque determinata anzitutto come una specifica e particolare fonte di conoscenza»10. Pensare Dio, insomma, non deve né può escludere per il filosofo l’ascolto di ciò che l’esperienza religiosa – con il suo fondarsi sulla rivelazione come auto-comunicazione divina – ci dice di Lui. Al contrario il filosofo accetterà di arrivare a quello “stupore della ragione”, che è condizione per aprirsi alla voce del mistero e a quel trascendersi verso la Trascendenza che fa del pensiero via all’incontro con Dio: «È una sentenza nota di Platone: la passione del filosofo è la meraviglia. Se questa sentenza è vera e profonda, allora la filosofia, invece di essere limitata a ciò che deve essere compreso come necessario, sentirà piuttosto la tendenza a trapassare da ciò che essa deve riguardare come necessario, che pertanto non provoca nessuna meraviglia, a ciò che sta fuori e al di sopra di ogni esame e conoscenza necessari; essa non troverà nessuna pace, prima di essere arrivata a qualcosa che sia degno di una assoluta meraviglia»11.

c) “Cogitatio Crucis” – La sfida della Croce

È possibile così pervenire ad una conclusione, che è al tempo stesso un inizio e una domanda: davanti alla questione di Dio filosofia e teologia si ritrovano in qualche modo entrambe spiazzate, precisamente a causa del gioco complesso di significati del genitivo “di Dio”, irriducibile ad una interpretazione univoca. Esse saranno vive proprio nella misura in cui non si lasceranno definire o fermare in un’unica opzione interpretativa: è questo “déplacement” che le rende più libere, più disposte ad incontrarsi per vivere l’agone più bello, la lotta dove vince chi perde, chi si lascia raggiungere e sovvertire dall’Altro. Lottare con Dio è al tempo stesso la debolezza e la forza del vero teologo, ma è anche la forza e la debolezza del filosofo, che non sia negligente: dal sorgere della luce al cadere della notte, e dal tramonto all’aurora, sta qui la dignità del pensiero, la sua vocazione e il suocompito. Dove Dio questiona come l’assalitore notturno dell’esperienza di Giacobbe al guado, dove Dio è il «Deus vivens et adveniens», lì l’uomo è veramente interrogante e vivo nella sfida. Lì vince chi, perdendo, si affida: «vere tu es Deus absconditus, Deus Israel Salvator» (Is 45,15).

Questa lotta suprema è rivelata nel Crocefisso: nel silenzio della Croce, Dio parla; in quella morte, la vita vince. La Croce è la suprema teologia: non di meno essa è per il filosofo della tradizione occidentale il luogo della provocazione più alta, con cui non può non confrontarsi, per lo meno per la storia degli effetti della rivelazione cristiana sull’ethos, di cui tutti siamo figli in Occidente. Solo in quell’evento si proclama la morte della morte: e, in un mondo che resta bisognoso di salvezza, una simile sfida è troppo alta per essere messa da parte e non venire accolta da tutti, credenti e non credenti. Qui filosofia e teologia vivono il rischio più grande: qui si incontrano nella loro povertà; qui si aprono alla novità possibile dell’avvento dell’Altro nel pensiero e nella vita. Qui non possono fuggire o fuggirsi, ma devono insieme lasciarsi sfidare dall’alterità indeducibile e sorprendente che viene ed entra in relazione con noi. Afferma Emmanuel Lévinas: «Non può esserci alcuna “conoscenza” di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini. Altri è proprio il luogo della verità metafisica, indispensabile al mio rapporto con Dio. Non ha affatto il ruolo di mediatore. Altri non è l’incarnazione di Dio, ma appunto attraverso il suo volto, nel quale è disincarnato, la manifestazione della maestosità nella quale Dio si rivela»12. E questo anche quando quel volto è segnato dalle lacrime o dal gelo della morte.

Esprime questa sfida una poesia di Elena Bono, frutto di una meditazione sulla vita, che oscilla fra domanda filosofica e ricerca teologica: «Quando tu mi hai ferita? / Forse ero ancora nel seno di mia madre / o forse solo nei tuoi pensieri. / Tu mi amasti da sempre. / Io non ho che un piccolo tempo da darti / ed un piccolo amore. / Ma mi perdo nel tuo, / questo mare che brucia / e di sé si alimenta. / Allorché mi feristi / io non sapevo / quanto il tuo amore facesse male. / Ed è questo che vuoi, / soltanto questo in cambio dell’infinito amore: / che io soffra l’amor tuo, / che me lo porti come piaga profonda / e non la curi»13. Si sente in queste parole l’eco della testimonianza mistica di San Giovanni della Croce, espressione della fede ardente nel Dio della vita, ma anche voce della mente pensosa sulle sfide dell’esistenza nel tempo: «O fiamma d’amor viva, / che tenera ferisci / dell’alma mia il più profondo centro! / Poiché non sei più schiva, / se vuoi, ormai completa: / rompi la tela a questo dolce incontro. // O lampade di fuoco, / nel cui vivo splendore / le profonde caverne del sentire, / che era oscuro e cieco, / con mirabile primizia / al loro Amato danno luce e calore! …»14.

d) “Cogitatio spei” – Pensare e vivere la speranza

Per la fede cristiana la Croce non è, però, l’ultima parola: la vita nuova del Risorto apre ad un oltre, cui la teologia come la filosofia d’Occidente non potranno non guardare. Si potrebbe perfino affermare che la tentazione più forte che potrebbe impadronirsi di noi di fronte agli scenari del tempo in cui viviamo, segnati dall’angoscia della pandemia e della guerra, sia la disperazione: se il rischio dei tempi di relativa sicurezza è quello della presunzione, prodotta dall’illusione di poter cambiare facilmente il mondo e la vita, il rischio opposto, proprio dei tempi di prova, è la paura del domani, più forte della volontà e dell’impegno per prepararlo e plasmarlo. E poiché accogliere la sfida della speranza è accettare di volersi veramente umani, nella risposta a questa sfida si gioca la nostra vera e piena umanità. Lo aveva capito il filosofo della speranza, Ernst Bloch, che nella sua opera Il principio speranza15 partiva dal denunciare il grigiore dell’assenza di sorpresa ed ulteriorità, proprio delle ideologie. Il confronto era con Hegel, il cui sistema dell’idealismo aveva fondato tutte le utopie rivoluzionarie della modernità: «Alla fine del sistema, il risultato del processo del mondo è per Hegel pubblicato … Tace, in virtù della sua filosofia, la comprensione del mondo futuro»16.

Bloch si rende conto dell’impossibilità del pensiero di bastare a sé stesso in una sorta di comprensione solare, comprensiva del tutto: «Solo con la liquidazione del concetto di essere chiuso e statico si apre la dimensione effettiva della speranza. Il mondo è piuttosto pieno di disposizione nei confronti di qualcosa, di tendenza verso qualcosa, di latenza di qualcosa, e il qualcosa così inteso si chiama adempimento di chi tende»17. Il pensiero comprende il già, ma il più gli è davanti incompreso, “patria intravista, ma non posseduta”: verso questo “novum” si protende la “coscienza anticipante”, rapsodicamente disvelata nei «piccoli sogni a occhi aperti», che fanno la vita. Se il grande merito di Bolch è l’aver fatto della speranza il principio formale del conoscere e dell’agire umano, liberandolo dalle secche dell’ideologia paralizzante, l’utopia che egli propone non esce però dalle limitate possibilità dell’uomo. Non è l’esodo umano che spiega l’Avvento divino e lo contiene in sé come latenza da disvelare: è piuttosto l’Avvento che raggiungendo l’esodo lo apre e lo fa nuovo. Per il cristiano c’è, allora, un ulteriore e decisivo passo da compiere: raccogliere l’invito dell’Apostolo Pietro ad «adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15).

La speranza non è la semplice dilatazione del desiderio, ma l’orientamento del cuore e della vita a una meta alta, che valga la pena di essere raggiunta e che tuttavia appare raggiungibile solo a prezzo di uno sforzo serio, perseverante, onesto, capace di sostenere la fatica di un lungo cammino. La speranza nasce da quell’amore doloroso e gioioso che lega il cuore umano a ciò di cui ha profonda nostalgia e attesa. Occorre distinguere, allora, due possibili volti di un tale futuro: il bene sperato è un fiore della terra spuntato esclusivamente grazie alla fatica dell’uomo, o è un dono dall’alto, certamente preparato e atteso, e tuttavia sempre sorprendente e irriducibile a un calcolo puramente umano? Su questa domanda si confrontano due visioni diverse dell’uomo e della storia: una visione solo umana della vita e del tempo, affida il futuro unicamente alle forze umane. Espressione eloquente di questa visione è il progetto emancipatorio proprio dell’Illuminismo, per cui il presente e il domani sono totalmente nella mente e nelle mani dell’uomo. In realtà, la parabola della modernità occidentale ha dimostrato come una speranza umana, solo umana, non abbia prodotto maggiore libertà, uguaglianza e fraternità.

Tutte le avventure ideologiche hanno reso evidente che la speranza affidata al solo portatore umano è sfociata nell’inferno dei totalitarismi, dei genocidi e delle solitudini, in cui l’altro è stato ridotto ad avversario da eliminare o a semplice “straniero morale” da ignorare. Perciò, consapevoli o meno, tutti abbiamo bisogno di una speranza più grande, di una speranza ultima. La fede cristiana riconosce il fondamento di questa speranza nel futuro di Dio, dischiuso all’uomo come patto e promessa nella storia biblica della salvezza e in particolare nella resurrezione di Gesù Cristo dai morti. La differenza fra l’utopia e la speranza della fede è quella stessa che c’è fra l’uomo solo davanti al suo domani e l’uomo che ha creduto nell’avvento di Dio e aspetta il Suo ritorno, andandogli incontro con inequivocabili segni d’attesa. Davanti agli scenari del tempo e del cuore, segnati per tante ragioni dalla paura e dall’insicurezza, la speranza utopica rischia di essere evasione consolatoria, fuga dalle responsabilità del presente. La speranza della fede, invece, pur non sottraendosi a questo rischio calcola con l’“impossibile possibilità” di Dio, e proprio per questo con quella maggiore audacia dell’amore che rende possibili gli altrimenti impossibili gesti della carità, vissuta come esodo da sé senza ritorno al servizio del bene di tutti.
Una filosofia senza preconcetti e una rigorosa teologia della speranza concorderanno, allora, nel considerare la speranza inseparabilmente compito e dono: frutto di un impegno serio, perseverante e illuminato da una meta affidabile, la speranza che cambierà il mondo e la vita sarà umile e fiduciosa nella promessa dell’Altro che è venuto, che viene e che verrà. Questa speranza non è qualcosa che si possa possedere, ma Qualcuno che ci è vicino, ci possiede e così non ci lascia soli per costruire con noi il domani di verità, di giustizia e di pace per tutti. La fede lo riconosce in Colui che amandoci ci ha donato la fiducia nella Sua promessa: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). La speranza che viene da Lui, che è Lui, è quella di cui il nostro tempo ha più che mai bisogno per vivere e per costruire il domani: perciò per il cristiano è decisivo «conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,10s). Solo al Crocifisso Risorto, e non certamente a un sistema ideologico unicamente mondano, può essere rivolta l’invocazione della fede, certa di non essere delusa: “Ave, Crux, unica spes!”. Una filosofia post-ideologica sa di poter trovare nella teologia della speranza una riserva di pensiero escatologico serio e affidabile, con cui confrontarsi e fondare le ragioni della speranza per tutti18…

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Fonte: Bruno Forte | FrancescoMacrì.com

1 Cf. M. Cacciari, Filosofia e teologia, in La filosofia, dir. da P. Rossi, II, UTET, Torino 1995, 365-421. Cf. per quanto segue il mio studio Filosofia e teologia: le ragioni del dialogo, in Asprenas 41(1994) 179-188.

2 Cf. su quanto segue i miei saggi In ascolto dell’Altro. Filosofia e rivelazione, Morcelliana, Brescia 19982 e Filosofia e teologia, Morcelliana, Brescia 2024.

3 Di A. Emo cf. Il dio negativo, Marsilio, Venezia 1989; Le voci delle muse, Marsilio, Venezia 1992; Supremazia e maledizione. Diario filosofico 1973, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998. Cf. L. Sanò, Un Daimon solitario. Il pensiero di Andrea Emo, La Città del Sole, Napoli 2001.

4 A. Emo, Le voci delle muse, o.c., 75.

5 D. Bonhoeffer, Cristiani e pagani, in Id., Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, a cura di E. Bethge, ed. it. a cura di A. Gallas, Cinisello Balsamo 1988, 427; originale tedesco: D. Bonhoeffer, Christen und Heiden, in Id., Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft, hrsg. von E. Bethge, Gütersloh 198312, 182.

6 A. Fabris, La fede scomparsa. Cristianesimo e problema del credere, Morcelliana, Brescia 2023, 20. 7 L. Pareyson, Esistenza e persona, Genova 19854, 11s.

8 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, o.c., II, a cura di E. Oberti e G. Borruso, 2 voll., Bologna 1974, II, 250 (Vorlesungen über die Philosophie der Religion, hrsg. v. G. Lasson [1925], 2 Bände, Hamburg 1974, II/ 2, 35).

9 Cf. In ascolto dell’Altro, o.c., 18-31.
10 Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bausola, Zanichelli, Bologna 1972, 2 volumi: qui II, 114 e 120. Tutta la Lezione

XXIV è dedicata al concetto di rivelazione: 113ss.

11 Ib., 121. Il passo di Platone è nel Teeteto, 155d

12 Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980, 76s (Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, La Haye 1974, 51).

13 Quando tu mi hai ferita?, in E. Bono, I galli notturni, Garzanti, Milano 1952, 77.
14 Llama de amor viva, in Canciones del alma en la íntima comunicación, de unión de amor de Dios, in Giovanni della

Croce, Tutte le opere, a cura di P.L. Boracco, Testo spagnolo a fronte, Bompiani, Milano 2010, 826s.

15 E. Bloch, Il principio speranza, 3 voll., Garzanti, Milano 1994.
16 Id., Soggetto – Oggetto. Commento a Hegel, Il Mulino, Bologna 1975, 5. 17 Ib., 23.

18 Cf. in tal senso il contributo ampiamente recepito di J. Moltmann, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1964. 20179. In rapporto ad esso cf. Dibattito sulla «Teologia della speranza» di Jürgen Moltmann, a cura di W.-D. Marsch, Queriniana, Brescia 1973.

(Lectio magistralis, Università d’Annunzio, Chieti-Pescara, 14 maggio 2024)

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