«Essere giovani oggi è tremendo, perché sei senza punti di riferimento. Non conosco nessun ragazzo della mia età che vada a votare e che vada in chiesa». Così il cantautore Niccolò Moriconi, in arte Ultimo (suo di diritto questo banco), nella recente intervista su questo giornale.
Per i giovani di cui parla il 28enne romano che riempie gli stadi, le grandi narrazioni, un tempo capaci di unire e mettere in moto, non hanno più energia. Politica e religione non danno più senso e non fanno più comunità, sono relitti a cui si aggrappa chi ci è cresciuto dentro. «Siamo stufi — dice Ultimo — di questa spaccatura tra destra e sinistra. Immagini che effetto avrebbe un politico che dicesse: non scelgo né la destra né la sinistra. Scelgo l’alto».
Disimpegno giovanile? Non credo: per rimanere in musica, già Gaber nel 1994 chiudeva con un «basta!» la canzone Destra-Sinistra, ridotte da tempo a etichette, ma sperava nostalgicamente: «L’ideologia/ Malgrado tutto credo ancora che ci sia/ È la passione, l’ossessione della tua diversità/ Che al momento dove è andata non si sa». E le chiese? «Un conto è credere in un dio, in un’entità, nelle energie; io credo nelle energie, che Jung chiamava sincronicità: come incontrare la persona giusta al momento giusto. Un altro conto è credere nella Chiesa».
Che cosa è «l’alto» indicato da Ultimo? E quali «energie» sono più affidabili della Chiesa?
Alto, dal latino alo, nutrire, è chi è cresciuto, stessa radice di alimento, ciò che nutre, e di alunno, chi deve esser nutrito per raggiungere la sua altezza. La cultura dominante, di cui la politica è manifestazione, non fa più crescere. Le manca, dieta inadeguata, sostanza: il senso della vita. Una cultura alta non fa morire di fame chi è in cerca di senso. Invece politica, religione, libri, serie, musica, tv, podcast, social… sono spesso solo aperitivi, solleticano la fame, ma lasciano a stomaco vuoto. Un pensiero «spritz e noccioline» non soddisfa il perché e per chi val la pena vivere, cioè come si affronta e si vince la morte. Mancano narrazioni «alte», visioni di mondo ricche di sostanza, capaci di dare energia all’ordinario facendolo diventare straordinario.
Vasco, nel 2004, lo cantava già stancamente in Un senso: «Voglio trovare un senso a questa vita/ anche se questa vita un senso non ce l’ha.// Sai che cosa penso?/ Che se non ha un senso/ Domani arriverà/ Domani arriverà lo stesso»; e Ultimo, riecheggiandone i versi, di questa speranza senza sostanza certifica la fine: «I giovani sono anestetizzati. Fermi. Aspettano un domani che non arriva e non arriverà… Noi proviamo a dare un senso alle cose. Ma la realtà non è sensata. La realtà è tremenda. È schifosa. Guerra, paura, sottomissione, chiusura: stai attento a quello, non fare quell’altro. Per questo ci costruiamo un altrove».
Il cantautore stufo di catene evoca un luogo. Se prima era una direzione, l’alto, ora è un rifugio privato: «bere un buon vino con i miei amici, guardare una serie con la mia fidanzata, le canzoni. Non è scappare dal mondo. È guardarlo con gli occhi dell’altrove. Da ragazzo l’altrove era il parchetto di San Basilio». Non è spento il desiderio di appartenere e di comunità, ma è per lo più un rimpianto: i metri quadri in cui un bambino trovava tutto.
Oggi l’altrove sembra non essere più «pubblico» come un parco, ma «privato», un orticello, in cui almeno ci sono legami buoni. Pensiamo alle imminenti elezioni europee. Coinvolgono i giovani, che Europei lo sono solo per qualche euro in tasca? Che narrazione e quindi che energia ha l’Europa per la loro vita? Che senso ha un sistema in cui nella quasi totalità dei partiti viene poi eletto chi non hai scelto? Perché quindi votare l’inappartenenza? E le chiese? Esaurite, meglio rivolgersi ad altre energie depositarie del sacro senza cui l’uomo non può vivere. Nelle chiese spesso trovi il Dio della terza età, barbuto e barboso, moralistico, individualistico e sentimentale, non un Amore forte che mi viene incontro e parla a me, che mi tira fuori dall’io isolato e mi dà energia per amare, cioè per godere la vita con gli altri.
Del primo Nietzsche aveva certificato la morte (cioè che non fosse più fonte di senso) già nel 1885 in Così parlò Zarathustra, definendo l’arrivo dell’ultimo (il cantautore qui non c’entra) uomo, di massa: «Ecco! Io vi mostro l’ultimo uomo. La terra sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, che tutto rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di terra; campa più a lungo di tutti. “Noi abbiamo inventato la felicita” — dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio. Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che l’intrattenimento non sia troppo impegnativo. Nessun pastore e un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente diversamente va da sé in manicomio. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute. “Noi abbiamo inventato la felicità” — dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio». Il filosofo aveva intuito l’esaurirsi dell’energia creativa in un mondo in cui la felicità diventa una quieta e piacevole disperazione, e il denaro per le vogliuzze una fede.
Questa è la vita tremenda da cui Ultimo cerca l’uscita (in alto) o la fuga (altrove). E in questo desiderio di liberazione o evasione si identificano moltitudini d’orecchie e di cuori: «Sono vero. Onesto. Trasparente al cento per cento. Non scrivo canzoni per farne un successo, ma per tirare fuori quello che ho dentro. Quando canto, io ci credo. E la gente capisce quando una cosa è vera. Le persone si aggrappano a me, alle mie parole». I concerti sono eventi comunitari, per due ore si appartiene a qualcosa di meno asfissiante del proprio io, prigioniero di rabbia e malinconia, disprezzo e anestesia, perché la cultura dominante non nutre ma affama. Ci resta della musica leggerissima, adatta ai passi del ballo delle incertezze contro la noia total, per rimanere nel credo sanremese. Per Nietzsche gli ultimi uomini sono coloro che hanno rinunciato all’amore, al desiderio, alla speranza. Dov’è l’amore che mi vuole esistente e non viene meno? Dov’è l’infinito all’altezza del mio desiderio? E l’altrove che può unirci e in cui sperare?
Domande che mezzo secolo fa l’adolescente Camilla Unwin pose a J.R.R.Tolkien così: «Qual è lo scopo della vita?». Il 20 maggio 1969, l’autore più letto del XX secolo e visto del XXI, le rispose con una lettera in cui le diceva che «non viviamo, non possiamo vivere, in isolamento, abbiamo un legame con tutte le altre cose, sempre più stretto fino a quello unico con la nostra specie» e aggiungeva che da questi legami, che la settimana scorsa chiamavo di «co-nascenza», derivava lo scopo della vita: sviluppare i propri talenti senza sprecarli o abusarne; non ferire il prossimo e non interferire nel suo sviluppo, anzi essere disposti al sacrificio di sé per amore; accrescere la conoscenza di un universo inesauribile e soprattutto di Dio, fonte di tutti i legami, bellezze e misteri.
Le nuove generazioni, ieri come oggi, hanno fame di questa sostanza che fa crescere e partecipare al banchetto della vita. Sta a noi prepararla e offrirla, sta a loro cercarla, e scegliere tra la rimpicciolita felicità di massa degli ultimi uomini, «le sostanze», o una vita più bella, grande e gioiosa, «di sostanza», degli uomini nuovi. Qui e ora, al banco Ultimo.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it