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Kafkiano

La vita offre spesso gli indizi per risolvere un po’ del suo mistero. La scorsa settimana ne ho ricevuti alcuni che forse fanno una prova.
1. Ho visto un bambino gattonare da solo. Avanzava, si fermava, si voltava a guardare il padre dietro di lui, e poi riprendeva senza paura. Così, diverse volte, fino ad allontanarsi tanto che molti erano in apprensione, ma non lui né il padre.
2. Ho incontrato i ragazzi di alcune scuole. I loro insegnanti mi avevano mandato in anticipo le domande suscitate dalla lettura di un libro, 50 domande tra cui questa: «Quale consiglio può dare a noi giovani affinché non ci lasciamo bloccare dalla paura di fallire?».
3. Una studentessa alle prese con un tema di preparazione alla maturità, commentando i versi di una poetessa, scriveva: «La poesia non è un’arte elitaria destinata a qualche eletto, ma è prima di tutto un atteggiamento mentale che consta dell’amore per la bellezza del quotidiano”.
4. Oggi è il centenario della morte di Franz Kafka, uno degli autori che ho incontrato proprio nell’anno della maturità e che da allora non ho smesso di frequentare. Ispirato dall’anniversario ho letto Conversazioni con Kafka dello scrittore Gustav Janouch che, da adolescente, poiché il padre lavorava nella stessa compagnia assicurativa di Kafka, lo conobbe ed ebbe come amico e mentore. Che cosa hanno in comune fatti così diversi?

I quattro indizi provano che la vita è un’esplorazione, spesso paurosa e faticosa, che può avvenire solo nella misura in cui apparteniamo a qualcuno. Che si tratti di un genitore, di un mentore, di un amore, di un autore conosciuto direttamente o attraverso i suoi scritti, per venire al mondo abbiamo bisogno, come nelle traversate difficili in montagna, di una corda, cioè di appartenenza, che non è certo vincolo e possesso, ma legame che rende stabili e permette di avanzare. In fondo la maturità (non l’esame) è diventare capaci, attraverso la cultura, di scoprire che niente e nessuno ci è estraneo, che la vita cresce per legami, dalle molecole alle grandi civiltà. Questo soggettivamente accade solo se diventiamo consapevoli di quando e quanto «apparteniamo»: che cosa mi rende vivo, cioè che cosa mi lega profondamente e stabilmente alla vita, tanto da essere libero poi di avanzare? Essere vivi e non solo viventi è infatti essere in comunione. La cultura del farsi da soli genera individualisti in guerra con il mondo, e invece la vita fiorisce quando partecipiamo (ne siamo parte e facciamo la nostra parte) alla sua trama come uno dei suoi nodi. Kafka aveva la ferita dell’inappartenenza, come scrive nei suoi Diari: «La mia educazione ha fatto più guasti di quanto riesca a comprendere… Questa imperfezione non è innata e perciò è tanto più doloroso sopportarla. Anch’io infatti come qualunque altro ho in me fin dalla nascita il centro di gravità che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l’ho ancora questo buon centro di gravità, ma in certo qual modo non ho il corpo adatto. E un centro di gravità che non lavori diventa piombo ed è fitto nel corpo come una pallottola» (1910). Da questa ferita ogni sua riga sgorga come sangue: «Non c’è nessuno che abbia comprensione di me nel mio complesso. Oh, possedere qualcuno che abbia questa comprensione, vorrebbe dire essere sostenuto in ogni parte, avere Dio» (1915). Per questo era attentissimo alle relazioni, come racconta Janouch ricordando la propria adolescenza e riassumendo il ruolo di ogni mentore: «Franz Kafka fu la prima persona a prendere sul serio la mia vita interiore, a parlare con me come con un adulto, rafforzando la mia coscienza di me stesso. Il suo interesse nei miei confronti era un regalo». Grazie a questo interesse il diciassettenne Gustav maturò consapevolezza di se stesso e la sua vocazione artistica. Sorprende il ritratto, non privo di idealizzazione, che Janouch confeziona all’autore di storie come La metamorfosi, Il processo, Nella colonia penale, Il castello… eppure la luce, implicita nella minacciosa ombra di questi racconti che hanno richiesto l’invenzione dell’aggettivo «kafkiano», mostra una ricerca di legami, orizzontali e verticali, che è altrettanto «kafkiana». In merito Janouch riporta le parole dell’addetta alle pulizie dell’Assicurazione presso cui lavorava Kafka: «È completamente diverso dagli altri. Lo si capisce da come ti offre le cose. Gli altri te le danno di nascosto, quasi ti feriscono. Non danno qualcosa, ma umiliano. Il dottor Kafka invece ha un modo di donarti le cose che fa veramente piacere. Non mi tratta come una vecchia donna di servizio». Janouch conferma: «Possedeva l’arte del donare. Non mi diceva mai: “Prenda, glielo regalo” ma sempre soltanto: “Non occorre che me lo restituisca”». Un giorno Gustav tra le lacrime confidò allo scrittore la separazione violenta dei genitori: «Ascoltò con calma il mio racconto rotto dall’agitazione, poi si alzò e disse: “Andiamo a fare il giro dell’antica capitale. I passeggiatori che si rispettano solitamente iniziano bevendo un bicchiere di vino o di cognac. Noi però non ci accontentiamo di un’ebbrezza così modesta e abbiamo bisogno di droghe più elaborate. Quindi andiamo da Andrée”». Questi era un libraio: «Il dottor Kafka mi comprò il David Copperfield di Dickens, Prima e dopo di Gauguin e Poesia e vita di Rimbaud». I due passeggiarono a lungo parlando di quei libri e, quando il ragazzo si fu rasserenato, Kafka disse: «“La crisi che è scoppiata a casa sua non fa soffrire solo lei, ma logora e ferisce ancor più i suoi genitori. Divenendo estranei l’uno all’altro, perdono gran parte del bene più prezioso posseduto da noi uomini, gran parte della vita e del suo senso. Così i suoi genitori, come la stragrande maggioranza degli uomini del nostro tempo, sono in realtà mutilati nello spirito… Perciò non deve respingerli, anzi, li deve guidare e sorreggere come si fa con i ciechi e con gli invalidi”. “Come faccio?” chiesi disperato. “Con il suo amore”. “Anche se mi danno addosso?”. “Proprio allora. Con la sua calma, il suo riguardo, la sua pazienza – in poche parole, con il suo amore – deve cercare di risvegliare nei suoi genitori ciò che in loro sta per morire”. Mi accarezzò lievemente e di sfuggita la guancia. Arrivederci, Gusti”. Si voltò e scomparve dietro la porta di casa. Restai lì come paralizzato. Mi aveva chiamato Gusti, come facevano i miei genitori». Questa è cultura (dal latino prendersi cura): curare la sofferenza, la fragilità, la ricerca, le domande. Essere chiamati per nome fa sentire l’appartenenza che rende capaci, come scriveva la mia studentessa, di amare la bellezza nel e del quotidiano, in incontri che, coltivati, diventano legami, e quindi esplorazioni, come quella del bambino che gattona. Un incontro mancato con la bellezza è un legame mancato con la vita, e senza legami a poco a poco la vita diventa una minaccia, come il ragazzo che chiede come «non essere paralizzati dalla paura». Kafka lo spiega così a Janouch che aveva definito pieno d’amore un suo racconto: «“L’amore non è nel racconto, bensì nell’oggetto della narrazione, nella gioventù”, fece notare Kafka serio. “Sono i giovani a essere pieni di sole e di amore. La gioventù è felice, perché possiede la facoltà di vedere la bellezza. Quando si perde questa facoltà, comincia la vecchiaia, la decadenza, l’infelicità”. “La vecchiaia esclude dunque ogni possibilità di essere felici?”. “No. È la felicità che esclude la vecchiaia: chi mantiene la facoltà di vedere la bellezza non invecchia”». Kafkiano.

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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