La questione di fondo
Oggi – è una banalità dirlo – non possiamo vivere senza le nostre protesi tecnologiche. Abbiamo sviluppato una dipendenza da smartphone, computer e altri dispositivi elettronici, spesso corredati da programmi di “intelligenza artificiale”, che interessa soprattutto le generazioni più giovani e su cui da tempo è in corso un’animata riflessione. Si confrontano posizioni il più delle volte nettamente contrapposte, frutto di una polarizzazione strutturale determinata proprio dalle piattaforme a cui accediamo grazie a quei dispositivi. Vi è chi vorrebbe proibire l’uso dei dispositivi mobili, visto che non riesce a regolarne la fruizione, e vi è chi crede ancora nella forza dell’educazione e spera, per questa via, di governare nella giusta misura le opportunità a cui essi danno accesso (cfr. De Martin 2023).
Confesso che faccio parte da tempo di quest’ultima categoria. Già nel 2018 avevo promosso presso il Ministero dell’Istruzione, nell’ambito del Piano nazionale per la Scuola Digitale, un manifesto in dieci punti per l’uso dei dispositivi mobili a scuola. In esso si davano indicazioni per un uso eticamente corretto di tali dispositivi, permettendo allo studente di utilizzarli sotto la guida dell’insegnante nell’ambito del proprio percorso di apprendimento. Un analogo impegno lo avevo dedicato, nell’ambito delle varie commissioni ministeriali succedutesi negli anni successivi, per stilare le Linee guida dei programmi di Educazione civica, al fine di promuovere una concreta educazione alla cittadinanza digitale. Confesso altresì, tuttavia, che ritengo in buona misura perduta la battaglia a suo tempo combattuta a questo scopo, non solo da me, ma da tanti altri insegnanti motivati. Continuo tuttavia a essere convinto che un approccio proibizionista non sia efficace. Le nostre ragazze e i nostri ragazzi, una volta usciti da scuola, lo smartphone lo riaccendono. E senza educazione al digitale le conseguenze del suo utilizzo sono certamente peggiori.
Uno dei motivi per cui la battaglia è stata perduta è un aspetto che non sempre abbiamo chiaro. C’è una specifica attrattività che caratterizza l’uso dei dispositivi di cui parlo. Essa è dovuta al fatto che tali dispositivi non solo permettono di comunicare, non solo ci offrono applicazioni per ogni esigenza, ma ci aprono mondi. Sono – potremmo dire – keymasters rispetto ad ambienti ulteriori che si affiancano e si sovrappongono all’ambiente fisico in cui ci collochiamo con il nostro corpo. Si sovrappongono al punto tale che è ormai entrata nel linguaggio comune l’espressione onlife, a indicare la fusione di offline e online (Floridi, 2015).
Ebbene, se questo è il dato di fatto, questo è anche il problema che nel nostro caso, e soprattutto nel caso delle giovani generazioni, è necessario affrontare. Mi spiego meglio. Se una delle caratteristiche della nostra esperienza quotidiana è il fatto che ci troviamo a vivere in molteplici ambienti, anche contemporaneamente, e che questi ambienti sono non solamente fisici, ma anche digitali o virtuali, allora dobbiamo imparare a governare il rapporto fra questi diversi ambienti. In altre parole, proprio il fatto che la nozione di “ambiente” si estende oggi alle dimensioni digitali o virtuali è ciò che consente a ciascuno di noi di fruire, anche tendenzialmente tutte assieme, delle possibilità offerte all’interno di tali dimensioni. Ma questa novità non basta descriverla e, magari assuefarvisi. Va piuttosto gestita. E va gestita – questa è la mia tesi – da un punto di vista etico. È ciò che voglio fare parlando di “ecologia degli ambienti digitali”.
Luoghi, spazi, ambienti
Ma per prima cosa dobbiamo fare un po’ di chiarezza nel nostro lessico. Ho parlato di “ambiente”. Perché oggi si usa così tanto questa nozione? Perché, oltre all’ambiente della “natura”, di ciò che nasce e cresce secondo logiche spontanee sue proprie, si fa riferimento, usando la stessa parola “ambiente”, anche ai contesti digitali? La risposta è semplice: perché in tutti questi casi si tratta di dimensioni che l’essere umano può abitare. O, ancora: perché in tali dimensioni l’essere umano può sentirsi come a casa propria e può, a sua volta, costruirvi ulteriori nicchie, ulteriori “case” (Valera, Castilla, 2019).
Questo infatti caratterizza oggi, soprattutto, il modo in cui pensiamo il nostro stare al mondo e fruiamo delle sue possibilità. Questo differenzia la concezione oggi predominante dalle forme in cui, nel passato, concepivamo il nostro vivere in determinati contesti. Per evidenziare tale specificità posso introdurre tre enunciati, che sviluppano tre concetti diversi. Posso dire: nei luoghi ci troviamo orientati; in uno spazio siamo determinati e individuati; gli ambienti noi li abitiamo.
Si tratta di tre nozioni – quelle, rispettivamente, di “luogo”, “spazio” e “ambiente” – che indicano cose diverse. Esprimono, per essere più precisi, aspetti differenti del nostro stare al mondo. Il termine “luogo” dice il nostro situarci in uno spazio fisso, orientato, capace di delimitare, in cui c’è un “alto” e un “basso”, un “Oriente” e un “Occidente” da cui trarre – appunto – un “orientamento”. È il modo in cui concepisce la collocazione degli enti Aristotele nei suoi trattati di fisica, intendendo il luogo (topos) come «limite immobile primo del contenente» (Phys, 212a, 15: Aristotele 1967, p. 90). La nozione di “spazio” indica invece una dimensione indifferenziata e infinitamente suddivisibile di punti che possono essere determinati geometricamente nella loro posizione e nel loro rapporto, e i cui processi possono essere calcolati con strumenti matematici. Descartes è uno degli autori che ha sviluppato filosoficamente tale concezione (La geometria, in Descartes, 2009). Quella di “ambiente” è infine la parola che manifesta il nostro essere in un certo contesto e il modo in cui propriamente vi stiamo, tenendo conto di tutte le relazioni che ci consentono di vivere in esso e delle interazioni che in tale contesto possono essere realizzate. L’attuale attenzione per le problematiche ecologiche non potrebbe essere compresa senza il riferimento a quest’ultima costellazione concettuale e alla sensibilità che essa comporta (Naess, 2015).
Le case che abitiamo
Oggi è la parola “ambiente” quella che risulta centrale. Anzi: è quella che indica lo snodo teorico con cui ci dobbiamo confrontare. Perché ciò accade? Perché è il termine “ambiente” quello che, fra tutti, viene privilegiato per definire la situazione in cui viviamo? Lo è in quanto il modo in cui pensiamo il nostro essere al mondo è soprattutto quello dell’abitarlo. Lo abitiamo come si abita una casa (oikos). Questo è il punto da approfondire. Noi non siamo solo in un luogo naturale, né ci orientiamo in esso a partire da quei segnali che la natura ci offre. Noi non ci muoviamo semplicemente in uno spazio omogeneo, in cui non c’è differenza tra noi e gli altri esseri che vi possiamo trovare. L’ambiente che abitiamo è invece qualcosa di antropizzato. È qualcosa che abbiamo costruito. È appunto una “casa” in cui, grazie all’uso di strumenti tecnici e allo sviluppo di dispositivi tecnologici, abbiamo trasformato sempre di più ciò che è “naturale” in qualcosa di artificiale, e ci siamo posti al centro di qualunque tentativo di orientarci in tali contesti.
Tutto questo ci fa anche comprendere perché la nozione di “ambiente” è stata estesa dalla dimensione naturale a quella artificiale. La natura, per l’essere umano, può venir considerata una casa solo se è sottoposta a coltivazione, a trasformazione, a costruzione: solo, cioè, se si trasforma in cultura. L’ambiente abitato è sempre un ambiente artificiale. Ora tuttavia è questa artificialità ad aver subito uno sviluppo e un ampliamento specifici. L’artificiale non è più solamente il risultato di un intervento tecnico, ma è soprattutto l’esito di uno sviluppo tecnologico. Sono le tecnologie che offrono agli esseri umani sempre più ambienti da abitare. Lo possono fare perché sono caratterizzate da un grado di autonomia e d’indipendenza crescenti rispetto all’agire umano, anche potenziato mediante l’uso di strumenti tecnici (Fabris, 2018, cap. I).
L’ambiente delle ICT
Facciamo dunque riferimento a una specifica categoria di ambienti tecnologici: quella delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Sono quelli, specificamente, a cui dà accesso il nostro smartphone. Già solo un tale riferimento ci fa capire che, oggi, la comunicazione è qualcosa che non solamente si fa, ma che si vive. Non è semplicemente un’attività che viene compiuta o subita dagli esseri umani, e in una certa misura anche da entità artificiali, ma contribuisce a costituire il mondo in cui ci muoviamo e con il quale interagiamo. Voglio dire che, oggi, “comunicare” non significa più, solamente, trasmettere dati da un emittente a un destinatario (secondo la concezione elaborata da Shannon, Weaver 1949). Oggi gli stessi dispositivi che trasmettono questi dati – ad esempio, il computer, lo smartphone, ovvero i vari apparati messi in rete fra loro – contribuiscono a creare specifici mondi e danno accesso a ulteriori ambiti, al di là di quello in cui comunemente viviamo. Lo fanno proprio trasmettendo dati.
Ciò che la trasmissione di un messaggio veicola, insomma, è l’apertura, il mantenimento, lo sviluppo, di un contesto di relazioni. È ciò che viene espresso dal termine “infosfera”, oggi anch’esso di moda. L’infosfera è il complesso delle entità informazionali in cui siamo immersi e delle loro reciproche interazioni. È più precisamente quell’ambiente, strutturato da dati e informazioni, nel quale viviamo e con il quale interagiamo costantemente, sia offline che online, in analogia con ciò che è la biosfera come ambito in cui operano gli esseri viventi (Floridi, 2016). Di più. L’infosfera – l’ambiente comunicativo in cui ci muoviamo – non è fatto solo di dati e d’informazioni, delle loro connessioni e della loro costante, crescente e iperveloce capacità di trasmetterle. È caratterizzato, proprio in quanto ambiente, da una caratteristica ulteriore. È costituito da strutture di significato in grado di coinvolgerci, e non solo d’informazioni o di procedure per trasmetterle. E tali strutture vengono istituite e implementate da tutti i soggetti impegnati in un’attività comunicativa: naturali e artificiali che siano, esseri umani o macchine. Solo in relazione a tale significatività, a ben vedere, possiamo parlare propriamente di “ambiente”, cioè di una “casa” che possiamo propriamente abitare. La casa è fatta di oggetti significativi e, in quanto tale, ha essa stessa significato. E solo perciò, inoltre, un ambiente comunicativo può attirarci, invece di un altro. E possiamo così passare da un contesto informazionale a uno differente.
Etica dell’ambiente, etica nell’ambiente, etica fra gli ambienti
Potrei sviluppare questo discorso analizzando ambienti specifici. Potrei approfondire la riflessione fin qui svolta introducendo la nozione di “virtuale” e, in relazione a ciò, quello specifico ambiente, ancora poco tempo fa propagandato come facilmente fruibile, che ha il nome di “metaverso”. Ma non m’interessa qui discutere l’effettiva realizzabilità di questo progetto, almeno nei termini che vengono proposti, anche per fini propagandistici, alla mentalità comune (Ball 2022). M’interessa, come ultimo passaggio, approfondire alcune implicazioni etiche che emergono da quanto detto. Esse riguardano il modo in cui l’abitare in questi nuovi ambienti può essere governato. Concernono, più precisamente, le forme in cui è possibile agire bene, e sentirsi bene a casa, in ciascuno di essi e passando dall’uno all’altro di essi.
La questione di fondo è quella anzitutto di distinguere i diversi ambienti che abitiamo, di metterli in relazione fra loro, di passare dall’uno all’altro in maniera consapevole e competente, di vivere in essi in modo buono. La questione poi concerne più precisamente, da un lato, la necessità di confrontarci in maniera adeguata con tali ambienti, in tutta la loro varietà, e, dall’altro, di muoverci eticamente all’interno di ciascuno di essi. Questo duplice atteggiamento è proprio in verità di ogni nostro modo di vivere un ambiente, naturale o culturale che sia. Si può parlare, anzitutto e in generale, di un’etica dell’ambiente (considerato nella maniera più ampia) e di un’etica nell’ambiente. La prima studia, per dir così, dall’esterno, i criteri e i principî che sovraintendono a quelle azioni che rendono possibile una determinata struttura o organizzazione, la quale può essere a sua volta naturale oppure culturale. La seconda offre indicazioni riguardo a come comportarci quando ci muoviamo all’interno di una determinata struttura, e accogliamo o mettiamo in questione le regole che di essa sono proprie.
Nella specifica situazione che stiamo oggi vivendo, quella che è determinata dalla presenza di ambienti artificiali, e in particolare che si sviluppa in rapporto con gli ambienti creati dalle tecnologie, tale distinzione assume però un carattere ancora più specifico. Da un lato, infatti, un’etica delle tecnologie ha il compito di studiare i criteri e i principî che sono propri dei mondi artificiali che abbiamo di fronte, considerando in particolare i problemi che possono insorgere a questo proposito non solo su di un piano etico, ma anche su di un piano giuridico (il piano, cioè, che caratterizza l’approccio deontologico). Dall’altro, poi, un’etica nelle tecnologie, cioè concernente i nostri comportamenti all’interno degli ambienti tecnologici, deve individuare i modi migliori per interagire con le attività messe in opera dalle stesse tecnologie, e per vivere adeguatamente nei mondi che esse aprono.
Oltre all’approfondimento di questi aspetti, tuttavia, l’etica oggi ha anche un altro compito. Questo compito emerge da tutto ciò che finora ho detto. Se gli ambienti, naturali, culturali e tecnologici, online e offline, sono molteplici, sia che siano fra loro collegati in maniera sinergica oppure reciprocamente in conflitto, bisogna non solo valutare ciascuno di essi e trovare il modo migliore di viverli, ma anche acquisire la capacità di orientarsi in questo quadro complesso. Bisogna cioè mettere in gerarchia gli spazi che è possibile abitare, ordinarli e scegliere, nel caso, quello più adatto per l’attività che stiamo compiendo. Emerge qui la prospettiva di un’etica fra gli ambienti: fra gli ambienti artificiali, per un verso, e fra quello naturale e quelli culturali, per altro verso. Considerata insomma da tale prospettiva l’etica può aiutare l’essere umano a diventare – potremmo dire – un selezionatore e un organizzatore di mondi.
In conclusione, il compito che abbiamo di fronte, se vogliamo interagire consapevolmente con questa situazione e non semplicemente subirla, è un compito articolato. Bisogna rendersi conto anzitutto del cambio di scenario, radicale, che stiamo vivendo, proprio relativamente ai modi in cui pensiamo il nostro essere al mondo. Oggi viviamo infatti in ambienti, non più solamente in luoghi o spazi. Questi ambienti sono sia naturali – per quanto possano essere “naturali” gli ambienti sempre oggetto di trasformazione culturale da parte dell’essere umano –, sia artificiali. Gli sviluppi tecnologici fanno sì che tali ambienti si sviluppino e si moltiplichino. La comunicazione stessa, in relazione a ciò, si trasforma. Nascono e proliferano gli ambienti digitali o, addirittura, virtuali. Ciò richiede un approfondimento e una trattazione in termini etici. È necessaria anzi un’etica che tenga conto di tutti gli aspetti di novità dello scenario delineato. È un’etica che considera e valuta le trasformazioni tecnologiche. È un’etica che è in grado di orientare, elaborando criteri e principi condivisibili, il nostro vivere all’interno dei vari ambienti a cui le tecnologie danno accesso. È un’etica che ci consente di mettere in gerarchia tali molteplici ambienti.
In questo senso la stessa parola “ecologia” subisce un’importante trasformazione. Lungi dall’indicare solo i modi adeguati del nostro rapporto con gli ambienti “naturali”, lungi dall’essere unicamente la parola d’ordine per un approccio spesso ideologico al mondo in cui viviamo, essa va considerata in una prospettiva più vasta. In tale prospettiva devono essere considerati, fra i modi dell’abitare, sia quelli che incidono sull’equilibrio di natura e cultura, sia quelli che comportano l’innesto e la sovrapposizione di fisico e digitale, di online e offline. Solo se saremo in grado di assumere questo sguardo più ampio e comprensivo potremo affrontare davvero le attuali emergenze, dovute a un eccesso di colonizzazione del mondo da parte degli esseri umani. Solo in tal modo l’ecologia potrà interrogarsi in maniera adeguata sui nostri modi di abitare la casa comune: naturale o artificiale che sia. Solo così potremo comprendere fino in fondo la situazione in cui ci troviamo, ed essere motivati ad assumere, in relazione a ciò, comportamenti buoni.
Bibliografia
Aristotele (1967), Fisica, a cura di G. Reale, Loffredo, Napoli.
Ball, M. (2024), Metaverso. Cosa significa, chi lo controllerà, e perché sta rivoluzionando le nostre vite, trad. it. di G. Mancuso, Garzanti, Milano.
De Martin, J.C. (2023), Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica, Add editore, Torino.
Descartes, R. (2009), Opere 1637-1649, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano.
Fabris, A. (2018), Ethics of ICTs, Springer, Cham.
Floridi, L. (2015), The Online Manifesto, Springer, Cham.
Floridi, L. (2016), The Fourth Revolution. How the Infosphere is reshaping Human Reality, Oxford U.P., Oxford.
Naess, A. (2015), Introduzione all’ecologia, a cura di L. Valera, Edizioni ETS, Pisa.
Shannon C., Weaver W. (1949), The Mathematical Theory of Communication, The University of Illinois Press, Urbana.
Valera L, Castilla J.C. (eds.) (2019), Global Changes. Ethics, politics and Environment in the Contemporary Technological World, Springer, Cham.