Il frutto maturo è «colto» perché possa nutrire. Siamo noi maturi? Quale frutto possiamo dare?
Un tempo l’albero di ciliegie del nostro giardino in campagna cominciava a vestirsi a festa proprio in questo periodo, gradualmente si riempiva di rosso e di bambini. Piegando i rami carichi ci invitava ad arrampicarci per gustare i suoi frutti «maturi». Un’immagine dell’infanzia che mi torna in mente nei giorni dell’imminente esame di maturità, quando mi chiedo, insieme agli studenti, se siamo «maturi», perché la metafora implica un movimento della vita e il movimento un compimento che riguarda tutti, a qualsiasi età. Il frutto maturo è infatti «colto» perché possa nutrire, così come la persona colta dovrebbe nutrire, non umiliare, con il suo sapere. Il frutto si «raccoglie», altra parola che, applicata al campo umano, indica la capacità di concentrarsi per dar frutto, come il ciliegio. Il frutto si dice maturo quando non è acerbo né marcio, ma compiuto. Infatti l’antica radice di maturo, la stessa di mattino, indicava ciò che è buono perché è al tempo giusto. Maturo non è quindi chi raggiunge un’età o passa un esame, ma chi, ciclicamente, porta frutto, come il grano che, seminato in autunno, germinato in inverno, cresciuto in primavera, colto in estate, ci nutre poi per tutto l’anno. Quali costanti ha quindi la «maturità» ad ogni livello ed età della vita? Siamo noi maturi?
La maturità, se penso a quelle ciliegie, ha tre caratteristiche: vocazione, tempo, lavoro. Chi ha anche solo un po’ di esperienza di piante sa quanto sia importante il dialogo tra il tipo di pianta e il tempo (cronologico e atmosferico). Se voglio un basilico rigoglioso, camelie brillanti o limoni succosi, devo saper curare l’unicità della pianta in rapporto al tempo. In Conversazioni con Kafka, Gustav Janouch ricorda i dialoghi intrattenuti in adolescenza con lo scrittore che fu suo amico e mentore. Il padre di Gustav aveva scoperto che la bolletta della luce era assai lievitata perché il figlio diciassettenne passava le notti con la luce accesa in camera. Curioso di sapere che cosa facesse, aveva trovato due quaderni, uno intitolato Libro delle esperienze, il diario del ragazzo, l’altro Libro della bellezza, le sue poesie. Non aveva osato leggere il primo, ma aveva sottoposto il secondo a un collega della compagnia di Assicurazioni, un certo Franz Kafka che di letteratura ne capiva. Voleva sondare la vocazione del figlio e offrirgli magari una guida. E così fu. I quaderni, l’occhio paterno, l’aiuto del mentore mostrano come la vocazione sia un seme e la cultura (coltura e cultura sono la stessa parola) abbia il fine di aiutare a rispondere alla domanda: quale frutto posso dare io? Per riuscirci i ragazzi hanno bisogno sin dai primi anni di scuola di un Libro delle esperienze, in cui ricordare ciò che li lega alla vita e li fa quindi sentire voluti e vivi (noi come le piante abbiamo «il nostro campo», «il nostro terreno» d’elezione), e di un Libro della bellezza, cioè la realizzazione di idee, progetti, sogni, creazioni (i frutti della vocazione). Questi due quaderni, uniti al lavoro personale e dei maestri, fanno un destino: si attinge al proprio «punto di nascenza», come chiamo l’inesauribile fonte di energia (crescere e creare hanno la stessa origine) che sta a fondamento di ogni cosa viva, un’energia che i ragazzi a volte non riescono a contattare, come un seme che, non messo «in condizione», «a dimora», «a terra», non si apre. Passando alla questione del tempo, oggi l’accelerazione tecnologica ha destrutturato, più di ogni altra, questa dimensione dell’essere viventi. La tecnologia espelle il tempo dalle cose vive, che vogliamo «a tempo zero», ma se il tempo è zero anche l’essere si azzera (forse accelerando a velocità doppia una canzone me la godo di più?). I nostri genitori si sono corteggiati con lettere scritte a mano, prima di uscire da soli c’era una maturazione della conoscenza e del desiderio. Oggi le cose spesso non si colgono quando sono mature, ma si afferrano quando ci va. La destrutturazione del tempo è evidente nei primi due cicli di crescita: bambini adultizzati e adolescenti bambinizzati non maturano. Noi non siamo macchine, non ci «aggiorniamo», siamo viventi, e quindi cresciamo come un albero in dialogo con le stagioni, come mostrano gli anelli di un tronco: al midollo del mio essere ci sono ancora sia il bambino sia l’adolescente. Per questo ho sostituito la frase «da quando ero bambino/adolescente» con «da quando sono bambino/adolescente». Non si dà adulto senza bambino/adolescente che abbia dato e dia ancora il suo frutto. I nostri percorsi di crescita forzano i tempi o li destrutturano, in nome di una falsa libertà (fai ciò che vuoi/senti) e di una folle produttività (fai «carriera» invece di fai «destino»). Infatti poi, non essendo maturati, non vogliamo invecchiare, proviamo a fermare il tempo come la tecnologia ci ha educato a fare: adoriamo la giovinezza, ma odiamo i giovani a cui non passiamo la vita (i frutti hanno dentro i semi delle nuove piante). Felice in latino era l’aggettivo per indicare l’albero che dà frutto, e nessun giardiniere può far «felice» una pianta tirandone il fusto o innaffiandola dieci volte al giorno. Il poeta Giorgio Caproni scriveva in un appunto: «Sazio della città – delle sue tentazioni e dei suoi crimini – mi sono ritirato al limitare del bosco. Ad appagarmi la vista poco mi basta: lo scintillio del fiume nel sole del mattino, giù a fondo valle. Un albero». Il ritmo alienante della città lo spinge a «raccogliersi» in uno spazio-tempo «naturale», dove basta un albero. Per che cosa? Su questa nota ritrovata (il suo Libro delle esperienze) il poeta scrive versi (il suo Libro della bellezza) che intitola proprio Su un vecchio appunto: «Com’è leggero/ un albero, tutto ali/ di foglie – tutto voli/ verdi di luci azzurre nel celeste/ dell’aria…// E com’è forte/, un albero, com’è saldo/ e fermo, abbarbicato/al suo macigno…// Viene/ l’autunno, e come/ la Fenice s’accende/ nel rosso del suo rogo.// Viene/ primavera, e splende/ d’altro suo verde…// Ma noi,/ noi, al paragone,/ che cosa e chi siamo, noi,/ senza radici e senza/ speranza – senza/ alito di rigenerazione?». È la nostra condizione iper-moderna. Non abbiamo la foliata leggerezza d’albero che vola grazie a profonde radici, e si rinnova, fenice vegetale, di stagione in stagione. Siamo spesso senza radici e quindi speranza: senza l’alito di rigenerazione come maturare? Come esser felici, cioè dare frutto, senza vocazione e tempo, senza destino? Scriveva provocatoriamente Dostoevskij nell’Idiota: «Shakespeare e Raffaello stanno al di sopra della liberazione dei contadini, del nazionalismo, del socialismo, della giovane generazione, della chimica, di quasi tutto il genere umano, perché sono già il frutto, il vero frutto di tutto il genere umano! Sono una forma di bellezza già raggiunta, senza la quale io, forse, non accetterei neanche di vivere». L’esame di maturità, non solo dei ragazzi, è, dopo aver assaporato i frutti migliori del giardino umano, chiedersi a che punto siamo con i nostri. Anche noi siamo chiamati a essere l’albero del poeta o il ciliegio che, al tempo giusto, chinava i rami per farci felici. Questi alberi passano la maturità. Per questo a tutti i ragazzi che si accingono ad affrontare l’esame vorrei ricordare che in Italia più del 99% degli ammessi lo supera, quindi allentate l’ansia da prestazione e «raccoglietevi» su ciò che conta, cioè rispondere alla domanda: perché sono venuto al mondo? Che frutto posso portare io? Come nutrirò gli altri? Poter rispondere confrontandosi con Shakespeare, Raffaello, Keplero, Einstein è ciò che darà frutto per tutta la vita… oltre al ricorrente incubo notturno di dover sostenere l’esame e non sapere nulla. Buon raccolto!
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it