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Il segreto

«La vita fuori fa schifo. Tutti di corsa, tutto di corsa, in una continua gara; un sacco pieno di domande e nessuna risposta, pretendono tanto da te ma tu non puoi pretendere niente da nessuno»: così mi scrive una studentessa universitaria con cui avevo scambiato qualche riga ai tempi del liceo, quando era scivolata nell’anoressia che ora torna a minacciarla: «Ho ricominciato a perdere il peso recuperato, mi sono isolata dagli amici, mi chiudo in casa a studiare e non voglio più vedere nessuno. Tutti i medici che mi seguono ritengono che la malattia si stia nuovamente facendo largo.
Mi rifiuto di crederci. Che cosa sto facendo? Sto solo assecondando il mondo, che ti vuole perfetto, magro, taglia 32, laureato con 110 e lode, figo, con una lavoro stabile e a tempo indeterminato, una famiglia e dei figli, a loro volta perfetti. La vita fuori, il mondo fuori, fa davvero così schifo? Qual è il segreto per vivere?».

La risposta possiamo cercarla insieme proprio a partire dal tuo dolore. Mi è sempre più evidente infatti che il vostro corpo urla la ferita che portiamo tutti ma che ora è più infiammata, la ferita dell’origine: non sentirsi abbastanza voluti, non sentirsi figli, quindi non gioire d’esser nati. Come curare questa ferita alla fiducia primaria nella vita, che è quella filiale?

Non ti voglio consolare ma invitare a una ribellione contro quel misto di nichilismo, individualismo e consumismo, che Pasolini aveva identificato mezzo secolo fa come nuovo fascismo: mercificando tutto si elimina il sacro dalla vita, cioè ciò che è intoccabile o indisponibile, riducendo l’uomo a una macchina di produzione e di consumo, isolata e sempre insoddisfatta. La ribellione a questa morte in vita, tu e altri, la state già facendo implicitamente, incarnando una ricerca di controllo assoluto o in assoluta perdita di controllo: anoressia e bulimia sono estremi di quel vuoto che nasce dal fatto che non sappiamo nulla della nostra origine, tranne che per i racconti che altri ce ne fanno. Una voce originaria che risponde alla domanda: sono stato voluto? Una voce di cui ho compreso meglio il senso qualche tempo fa, partecipando a un progetto per l’acquisto di alcune incubatrici speciali che simulano, per i bambini prematuri, la voce della madre, essenziale durante la gravidanza.

Lo ha riassunto poeticamente Terrence Malick nel suo film Tree of Life quando uno dei bambini della famiglia protagonista chiede alla madre: «Raccontaci le storie di prima di quando riusciamo a ricordare». Fame d’origine: voler essere frutto di una storia sensata, voluta, attesa. Non si sente abbastanza chi non è abbastanza voluto, finendo con il dare la colpa di esserci o a se stesso o agli altri. Infatti se per esistere basta essere generati, per vivere è necessario sentirsi voluti.

Noi tutti abbiamo in comune questa fame di origine, come mi è capitato di constatare in alcuni casi di ragazzi adottati che, pur essendo stati molto amati dai genitori adottivi, si mettono alla ricerca, più o meno scomposta, di chi li ha messi al mondo. La biologia non basta a essere figli se non diventa biografia: essere figli e potersi raccontare come tali non è la stessa cosa. Ora però questa ribellione implicita dei corpi, deve diventare esplicita, e quindi politica, essere il germoglio di una civiltà diversa.

Che cosa ci impedisce di sentirci figli? Quali sono le esperienze quotidiane necessarie a una filiazione non soggetta a prestazioni o meriti? Quali le forme di un’appartenenza che fa sentire voluti in modo il più possibile stabile? A scuola vedo maturare i ragazzi che si sentono voluti da genitori e insegnanti, e con «voluti» non intendo protetti fino a essere repressi, ma presi sul serio (riconosciuti e provati) nella loro originalità: non si dà originalità senza scoperta e cura dell’origine. Per questo c’è una frase di Cristo che, credenti o no, mi sembra gettare una luce sul quotidiano: «Chi vede il Figlio vede il Padre», dove la parola padre va intesa come la più familiare ai suoi ascoltatori per indicare ciò che custodisce e sostiene in vita. Quindi per lui l’essere figlio è l’immagine del divino, che non è quindi la perfezione, l’immortalità, l’onnipotenza, ma l’essere generato e sostenuto nella vita, cioè l’esperienza, qui e ora, di un amore che mi vuole esistente, anche nei momenti di crisi. Questo ci ricorda, credenti o meno, che tutti siamo figli, ma ne facciamo esperienza a profondità diverse.

Un corpo che si sente voluto, sin dal grembo, sviluppa un sistema immunitario forte ed energie per crescere. Una psiche che si sa voluta è più protetta dalla paura, dalla depressione, dal credere di doversi meritare di stare al mondo, dal sospetto di essere inutile o utile solo a certe condizioni. Uno spirito che si scopre voluto è disposto ad amare senza condizioni, perché si sente amato senza condizioni. Quando le tre dimensioni dell’umano — corpo, psiche e spirito — si «filializzano» allora l’umano fiorisce, altrimenti elemosiniamo l’origine, la ri-generazione, il punto di nascenza, l’esser voluti.

Dove c’è un vuoto filiale prevale la (re-)pressione del doversi/volersi dare origine da soli, auto-generarsi per essere amati, che, nella versione odierna, è il dovere di essere perfetti, rispondendo ad aspettative e standard di successo. Essere perfetti però è disumano proprio perché è il contrario dell’essere figli, cioè regalati a noi stessi, esperienza originaria, originante e originale, da cui dipende il nostro sguardo sul mondo. E questo non riguarda solo l’infanzia e l’adolescenza, ma tutta la vita, come narra il passo dell’Odissea che amo di più.

A metà del poema Ulisse si reca nell’Ade, tra i morti, dove incontra la madre che, in sua assenza, era venuta meno: al centro simbolico del viaggio della vita, cioè sempre, ogni uomo deve confrontarsi con la ferita dell’origine. Ma proprio la madre dopo avergli mostrato la sorte dei morti, lo ri-genera, invitandolo a tornare presto alla luce per raccontare alla sposa tutto quello che gli è successo: lo affida a un nuovo nascere, una nuova origine, un nuovo essere voluto. Infatti solo quando alla fine del poema racconterà la sua Odissea a Penelope, Ulisse potrà dirsi «tornato». La vita è infatti sempre relativa (in relazione: la si deve a qualcun altro) e non assoluta (letteralmente: sciolta, senza legame), anzi è proprio la presenza dell’origine che spinge a custodire e creare (solo chi è erede può poi sviluppare l’eredità) e a intrecciare legami che non siano esclusivamente dettati dall’utile o dal merito.

Di questi legami originari e originanti hai bisogno. Ribellati all’isolamento, esci, tocca una rosa per un minuto, accarezza un gatto per cinque, abbraccia qualcuno per dieci… basta un po’ di pelle del mondo per sentire che al fondo della vita c’è un’origine buona e che non c’è niente, anche la cosa più minuta, che non sia sacra, come le lucciole di cui Pasolini, in un articolo del febbraio del 1975 comparso su questo giornale, lamentava la repentina scomparsa a causa dell’inquinamento, tanto che oggi se ci capita anche solo di vederne una gridiamo al miracolo. Io non dimenticherò mai un prato costellato di lucciole visto d’estate, uno di quei momenti in cui mi sono sentito figlio sognato, voluto, amato. Nella tua condizione lasciarsi amare è difficile, ma tu prova a correre il rischio. Da sola non puoi farlo, chiedi aiuto, abbassa le difese, ascolta la voce della vita, e ne sentirai il segreto: diventare figli.

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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