Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del volume di Elisabetta Buscarini, “Al mio posto, confidenze semiserie sul mestiere di MoglieMammaMedico”, Edizioni Ares
Lo confesso: ho fatto il liceo classico. Si può quindi comprendermi se dico che studiare fisica per me è sempre stata un’impresa da tremila calorie all’ora. Però un paio di argomenti me li ricordo molto bene, non per altro, ma perché mi colpiva la loro portata esistenziale: quelli di entropia e di lavoro. I sistemi evolvono spontaneamente verso le configurazioni a entropia maggiore, che sono quelli con un grado minore di ordine; vale a dire, tutto spontaneamente tende al massimo disordine. In effetti, senza neanche fare esperimenti da aula di fisica, bastava alzare gli occhi dal libro e guardarmi intorno nella mia stanza di adolescente, e la conferma dell’entropia appariva evidente.
Il secondo concetto che mi è subito molto chiaro è quello di lavoro: lavoro uguale a forza applicata per lo spostamento ottenuto. Semplicissimo, no? Se invece di lasciare abiti arruffati e calzini smarriti dovunque siano caduti nella pratica nota a qualunque adolescente (e non solo) di spogliarsi-con-u – na-bomba-a-mano, li raccolgo, li piego e li accompagno al loro posto, che sia un cassetto, un armadio o il cesto dei panni sporchi, compio un lavoro perché applico una forza e ottengo uno spostamento.
E via dicendo: è lavoro pulire, accudire, cucinare, aggiustare, ogni azione che applica il mio impegno per ottenere un cambiamento positivo, utile, e che magari dà gioia a qualcuno. E quindi, sintesi fantastica: il lavoro combatte l’entropia. Diciamo quindi che fin da adolescente mi è chiaro che non si sta con le mani in mano, e che non lavorare produce effetti negativi, prima di tutto su noi stessi. La saggezza popolare lo dice: l’ozio è padre dei vizi, l’entropia esiste anche in noi.
Nella regola, san Benedetto ripete chiaramente l’importanza del lavoro per il bene della persona, essendo il suo contrario, cioè l’ozio, nemico dell’anima; perciò, i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio. Con questi concetti chiave scolpiti in testa entro nella vita adulta. E da questi concetti chiave mi viene una certa qual allergia alle considerazioni che spesso sento fare sul mio lavoro di medico: «fare il medico è una missione»; «fare il medico è una chiamata per il bene di tutti»; «ciò che ha mosso te non può valere per tutti».
All’adulto urge fare chiarezza sul lavoro, dato che il lavoro è condizione alla sua sopravvivenza integrale, corpo e anima. E a quella di coloro che gli/le sono affidati e che, per età o condizione, non sono in grado di lavorare. C’è una serie di equivoci quando si parla di lavoro: è bene dissiparli dentro di sé perché impediscono di vedere con chiarezza e gratitudine ciò che facciamo nelle giornate, sempre inseguendo un «altrove sarebbe meglio», «l’erba del vicino è più verde» e abbagli similari.
Primo errore comunissimo: la convinzione che ci siano lavori più importanti di altri. Nel prologo della regola San Benedetto dice «il Signore cerca il suo operaio tra la folla»; perché San Benedetto scrive operaio e non servo o uomo o discepolo? Perché vuole intendere che l’uomo partecipa all’opera della creazione e della salvezza e questo dà al lavoro una dignità grandissima; vuol dire che il nostro lavoro, che sia tremendamente in vista oppure non visto da nessuno, qualunque lavoro rientra nell’opera redentrice di Dio. Ciò che fa la differenza è per chi lavoro e come lavoro.
Il lavoro è esercizio e impegno della nostra responsabilità, cioè della nostra capacità di rispondere, prima di tutto a noi stessi, cioè a come siamo, alle nostre caratteristiche, ai nostri talenti, al compito a cui siamo stati chiamati dalla catena di circostanze della nostra vita. Poi, responsabilità verso altri, verso chi ci è affidato, verso il mondo intero.
E quando dico questo non penso (solo) a un primo ministro o a un premio Nobel: mi è chiarissimo che se devo pulire una strada perché di mestiere faccio quello, sto regalando una strada pulita al mondo intero, e il mio lavoro contribuisce molto di più alla gioia e al benessere del mondo di quello dell’uomo politico che ai vertici di uno Stato magari fa mediocremente il suo lavoro. Quante volte mi è capitato di guardare di sottecchi il lavoro di un cameriere in un bar piuttosto che di uno spazzino, pardon, operatore ecologico (ma è molto più poetico spazzino), e di sorprendere nell’accuratezza dei gesti una bellezza che magari non vedo in chi fa lavori considerati molto più “nobili”.
C’è un secondo fraintendimento con cui viene spesso guardato il mio lavoro. «Nel tuo lavoro è più evidente una vocazione», cosa che renderebbe il mio compito lavorativo più facile. A chi mi dice questo, chiarisco subito che la mia vocazione, la chiamata a cui ho dovuto rispondere per definire me stessa, la mia vita, è essere moglie. Il mio sì a questa precisa vocazione mi ha poi portato ai passi successivi e prima di tutto a essere madre. Cosa che avrebbe anche potuto non avvenire, avrei potuto essere chiamata ad altro. E a quell’altro avrei dovuto rispondere: che fosse l’apertura a sostenere compiti diversi come donna e come coppia, o una malattia.
Ciò a cui sono stata chiamata, la mia vocazione, dice ciò che sono; ciò che ho scelto come lavoro dice ciò che faccio. Sono moglie, grazie al cielo sono anche madre, faccio il medico. Senza dubbio il mio specifico lavoro, con le specifiche situazioni che ho attraversato svolgendolo, è diventato negli anni un grande arricchimento per me e quindi per la mia famiglia. I tratti della mia vocazione vengono scolpiti, riempiti di colore, anche dal lavoro che faccio. E viceversa: la stabilità vocazionale illumina e sostiene il mio lavoro. Il terzo equivoco è l’equivoco degli equivoci, lo sport mentale preferito delle donne delle ultime tre generazioni, boomers, X e millennials.
Del dubbio amletico “lavorare dentro o fuori casa?” sono cadute vittime, poco o tanto, le donne degli ultimi quarant’anni. Dubbio alimentato certamente dal sentire collettivo per cui il lavoro è solo quello fuori casa (vedansi le numerose casalinghe che alla mia domanda per l’anamnesi: «Che lavoro fa?», mi rispondono: «Nessuno»). Allora per aiutarmi a spiegare ciò che mi è sempre stato chiaro, ma che nel corso degli anni lo è divenuto sempre più, chiamo una testimonianza molto importante. Nel mio diario del 1992 racconto questo dialogo con una paziente che mi aveva colpito al cuore, dato che in quegli anni (giovane sposa, madre di due bimbi piccoli, lavoro pesante) mi sentivo la donna più oberata dell’universo: Ines ha ottantacinque anni, occhi celesti, piccoli in fondo alle occhiaie, un mare di rughe. Respira male, ma la voce è allegra, brillante. Ha avuto 12 figli, 2 sono morti piccini. “A chi lasciava i bimbi quando andava a lavorare?”. “A nessuno, i più grandi curavano i più piccoli”. “A che ora si alzava al mattino?”, “Alle 4, altrimenti alle 3, quando dovevo lavare i panni: accendevo il focone nell’aia, lavavo tutto. Quando gli altri si alzavano, i panni erano già stesi sul filo”. “A che ora andava a dormire la sera?”, “Quando potevo, quando avevo finito: spesso non andavo neanche a letto, c’erano tante cose da fare…”. “E non si lamentava con il marito di così tanta fatica?”. “No. Per me era normale il lavoro. Normale”.
Quindi, a meno che si non fosse baronesse, da che mondo è mondo si lavora per vivere, per sostentare la famiglia, e le donne hanno dato sempre un contributo enorme. Qual è la differenza tra noi donne del 2000 e quelle che, come Ines, hanno vissuto prima di noi? Ines lavorava sedici, diciotto ore al giorno, tutti i giorni che Dio metteva in terra; il suo lavoro non era pagato, anche se naturalmente aveva un valore economico; nessuno notava il suo lavoro. Aveva il tempo di “seguire i suoi figli”? Assolutamente no, o almeno non secondo la concezione attuale di “seguire i figli” che prevede una mamma tassista che fa la spola tra lezioni di pianoforte, di scherma, ripetizioni di inglese, sedute dallo psicologo (per i figli, e all’occorrenza, anche per sé), passando da un’attesa all’altra di bambini onnipotenti cui infilzare in bocca un quadrato di focaccia farcita, non fosse mai che abbiano bisogno di un’aggiuntina di calorie.
Ines invece seguiva i suoi figli nella maniera più importante che c’è: con il suo esserci e semplicemente dedicando a loro, davanti a Dio, ogni istante, tutte le sue enormi fatiche. Quindi quando oggi parliamo di lavoro fuori casa piuttosto che di lavoro in casa parliamo di cose che difficilmente assomigliano all’enorme carico che portavano le donne di cento, ottanta o anche sessant’anni fa.
[…] Non ci sono lavori di serie A, nemmeno il mio che pure amo tanto. Invece, il lavoro, qualunque lavoro, è sempre un privilegio.
Fonte: Elisabetta Buscarini | IlTimone.org