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Una strategia per l’umano

Come riportare i valori umani al centro del dibattito? Due eventi recenti

Nei giorni scorsi due eventi hanno riempito l’attenzione di coloro che hanno a cuore la crisi umana che attanaglia l’Occidente da almeno mezzo secolo, da quando esplose negli Anni 60 del secolo scorso. Un Occidente in crisi e, tuttavia (è bene e doveroso ricordarlo sempre), oggetto di una aggressione politica e militare da parte di un asse di Paesi uniti fra loro dal rifiuto delle libertà e dall’odio contro la civiltà occidentale, sia per come si è ridotta da decenni di secolarismo, sia per alcuni suoi valori qualificanti, che rimangono nonostante la crisi antropologica.

I due eventi sono stati il Festival dell’umano, organizzato dal network Ditelo sui tetti, e la Manifestazione nazionale per la vita, entrambi svoltisi a Roma rispettivamente il 18/19 giugno e il 22 dello stesso mese.

Entrambi gli eventi sono stati una risposta alla crisi antropologica che colpisce il mondo occidentale, ma in modo diverso.

Il primo evento, il Festival dell’umano, parte dal fatto che il mondo occidentale già cristiano continua a vivere sotto il dominio di un pensiero unico, aggressivo e relativista, che mortifica e umilia l’umano in tanti modi, soprattutto accanendosi contro i più deboli: il concepito, l’anziano ammalato, le famiglie numerose (deboli perché non sostenute dalle istituzioni) e i “poveri poveri”, quelli, cioè, che non riescono “stare dentro” il sistema sociale delle nostre società avanzate.

Questa situazione però non è irreversibile, può essere cambiata partendo dalla cultura, cioè dai criteri di giudizio con cui le persone analizzano la realtà in cui vivono. Il punto di partenza del Festival, infatti, è stata una frase di Papa Francesco, ormai diventata virale: non viviamo in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca. E dunque non basta più opporsi alle singole proposte di legge che vogliono continuare a umiliare l’umano (per esempio introducendo l’eutanasia o allargando il diritto d’aborto), ma si devono anzitutto riportare nel dibattito pubblico quei principi fondamentali che sono stati estromessi, ridicolizzati, emarginati. Se fate scorrere i diversi panel che hanno costituto l’ossatura del Festival, li troverete tutti: l’inverno demografico; il concepito come “uno di noi”; la famiglia come cellula base della società, che deve essere aiutata dallo Stato non perché povera, ma perché famiglia; il principio di sussidiarietà, per cui il corpo viene prima del vestito, la società precede lo Stato; la persona non come individuo, ma come “animale politico”, che si realizza attraverso le relazioni che costruisce con gli altri, dando vita a tanti necessari corpi intermedi fra l’individuo e lo Stato; la scuola come opportunità educativa, e non come imposizione di una ideologia di Stato, da cui la necessità di restituire alle famiglie la libertà di scelta educativa.

Il primo Festival dell’umano è stato indubbiamente un successo, sia per la qualità degli interventi, sia per la partecipazione di un pubblico altamente qualificato, ma soprattutto perché ha riproposto la riflessione su temi fondamentali della dottrina sociale, coinvolgendo esponenti importanti delle classi dirigenti della Chiesa (il Segretario di Stato card. Parolin e il Presidente dei vescovi italiani, card. Zuppi), esponjenti del Governo (Tajani, Giorgetti, Valditara, Bellucci, Mantovano, Roccella), intellettuali, artisti e uomini significativi della società civile, del mondo produttivo, dell’associazionismo ecc.

Se è vero che la cultura dominante oggi tende a emarginare dal dibattito pubblico i principi inerenti a vita, famiglia e libertà, allora il modo per evitare che questo continui è proprio quello di “costringere” a parlarne, offrendo delle occasioni importanti per farlo.

Anche la Manifestazione nazionale per la vita ha avuto un buon concorso di partecipanti, superiore a quelli dello scorso anno, grazie anche al messaggio loro rivolto dal Santo Padre, che ha elogiato la «testimonianza pubblica a difesa della vita umana dal concepimento alla morte naturale», invitando ad andare avanti con coraggio e senza compromessi perché la posta in gioco è la dignità della vita. Parole importanti, soprattutto l’invito alla testimonianza pubblica, volta appunto a portare i temi antropologici, quello della vita in particolare, al centro del dibattito del Paese, cosa che nei decenni successivi alla legalizzazione dell’aborto nel 1978 e dopo il referendum del 1981 è andata progressivamente diminuendo. Infatti, i movimenti pro-life e pro-family si trovano davanti alla necessità di decidere come operare sul fronte antropologico nei prossimi anni per cercare di tenere desta l’attenzione dell’opinione pubblica senza cadere in eccessi verbali, tipici di minoranze senza futuro, ma anche senza limitarsi a una testimonianza “debole” e rassegnata, come quella avvenuta per tanti anni in occasione della Giornata della vita indetta dalla Cei per la ricorrenza dell’approvazione della Legge 194. Per fare soltanto un esempio, la difesa della vita non comincia con la revisione della legge 194, ma da un’attività capillare di tipo culturale, che convinca soprattutto i giovani che la vita è sacra sempre e che l’aborto non è un diritto ma un delitto. Non cominciare un discorso pubblico con la reiterata denuncia della legge non significa smettere di riconoscere che una legge iniqua rimane tale, nonostante il trascorrere degli anni.

Come spiegare tutto questo senza cadere immediatamente in caciara? E’ parte del problema. La giornalista Giusi Fasano sostiene che l’attuale sarebbe un tempo favorevole ai movimenti che vogliono rimettere in discussione i diritti delle donne e la Legge 194 (Corriere della Sera, 24 giugno). Lei è molto preoccupata, ma io non sono così convinto della fondatezza dei suoi timori, perché non basta che l’attuale governo sia più lontano dalle follie ideologiche contro vita e famiglia dei precedenti per innestare un iter favorevole. E non basta neppure che l’opinione pubblica europea abbia dimostrato alle recenti elezioni di essere più conservatrice relativamente ai valori e la sinistra progressista abbia capito che le battaglie contro famiglia e vita non portano voti. Tutto questo è positivo, ma non basta, se non c’è un cambiamento nel modo di pensare e di vivere della società. Questo a me sembra essere il punto di partenza: il resto verrà. E per fare questo ci vogliono unità e coordinamento fra i diversi movimenti pro-life e pro-family, cose che attualmente non ci sono.

Fonte: Marco Invernizzi | AlleanzaCattolica.org

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