Il bel documentario Let it be di Michael Lindsay-Hogg, riedito di recente dal regista Peter Jackson, racconta l’ultimo concerto dei Beatles, eseguito a mezzogiorno del 30 gennaio 1969 sul tetto della Apple Records a Londra. Le riprese seguono il processo creativo del gruppo che si separerà dopo poco. In mezzo a contrasti evidenti accade poi, un miracolo, quella cosa che chiamiamo «grazia», una bellezza che non è somma di addendi ma la loro sintesi in vita nuova, perché la bellezza non è qualcosa di controllabile ma ciò a cui si può solo dare possibilità di accadere. E la musica, tra le arti, è forse quella che più lo mostra. Il concerto supera le volontà ormai distanti dei quattro Beatles, il canto vince il disincanto, e infatti pur di ascoltarli la gente s’arrampica sui tetti, s’assiepa per strada, tanto che la polizia deve intervenire per ripristinare l’ordine (la grazia crea l’ordine della libertà, l’opposto di quello del controllo). Note e parole, dopo 55 anni, ci portano ancora nello spazio-tempo della gioia. Let it be: lascia che sia, un invito ad accettare che tutto passa, persino i Beatles, ma soprattutto a stupirsi di ciò che invece resta per sempre. Scoprire l’eterno nel mortale, proprio perché è mortale. La vita felice è infatti un equilibrio tra lasciar essere e fare. Come trovarlo?
Ossessionati dal controllo, soffochiamo la vita, che è invece una sinergia di fare e lasciar essere, prima in noi stessi e poi nel mondo, come accade in un concerto. L’accordo di voci e suoni è presente in natura in modo sorprendente, come ha mostrato qualche anno fa Davide Monacchi nel premiato documentario Dusk chorus, tratto dal progetto «Frammenti di estinzione» atto a esplorare acusticamente le più antiche foreste equatoriali, registrando i suoni delle aree a più alta biodiversità.
Chi ascolta (l’ho fatto in una sfera buia con audio immersivo durante la settimana del design a Milano) diventa parte della foresta, grazie alla tecnologia del suono 3D che ha catturato i versi di insetti, uccelli, anfibi, mammiferi (e persino degli alberi). Monacchi ha poi tradotto i suoni in uno spettrogramma acustico dell’ecosistema, dove si possono vedere le bande sonore in cui i diversi animali si collocano. Il dato commovente è un’armonia in cui i versi non si sovrappongono, ma creano accordi: o occupano frequenze differenti o si alternano se usano la stessa, secondo uno spartito invisibile. Purtroppo però quando l’inquinamento acustico umano occupa alcune frequenze, gli animali che le usano sono costretti ad abbandonare l’ecosistema, e alcuni si estinguono: dal concerto si passa allo sconcerto, dall’accordo al disaccordo, dal canto al disincanto. In natura quindi ogni «voce» occupa il suo posto e si armonizza con le altre.
Questa sinfonia, a cui saremmo più educati se frequentassimo i suoni naturali (è significativo della nostra nostalgia di pace che tra le playlist più seguite sulle piattaforme ci siano proprio quelle che riproducono questi suoni), è ciò a cui aspiriamo, ma spesso noi stessi la distruggiamo. Infatti se potessimo fare lo spettrogramma del nostro contesto acustico, scopriremmo quanto siamo esclusi o scappiamo dalla nostra banda sonora, o magari occupiamo quella altrui.
La comunicazione di oggi, urlata e saturata da chi ha i mezzi per far più rumore, tende a coprire le voci, soprattutto quella dei giovani, perché la frequenza su cui esercitarla è occupata da chi non dovrebbe star lì. Scivoliamo così nella univocità (che significa «una sola voce») e monotonia («una sola tonalità») del controllo.
Per vivere serve invece un’ecosistema umano corale che permetta a ciascuno di scoprire e usare la propria voce, che è il modo in cui abbiamo scelto di indicare, metaforicamente, proprio l’unicità personale: trovare la propria voce (da cui vocazione) è infatti sinonimo di vita autentica. Ma vocazione significa anche convocazione: coralità, lo strumento è orchestra, il singolo comunità. Siamo fatti perché le voci si accordino nella loro diversità in una sinfonia che non è data dalla loro somma ma da un superamento collaborativo, come narra in modo affascinante Tolkien nel racconto che dà origine al suo mondo, il Silmarillion. Protagonisti dell’origine dell’universo sono degli spiriti che abitano prima del tempo insieme a Eru Ilúvatar, il dio supremo. Eru per l’appunto li con-voca e propone un grande tema musicale, chiedendo di svilupparlo per dare vita a tutte le cose. La bellezza si espande e incarna coralmente finché uno di questi spiriti decide di mettersi in proprio tradendo l’armonia del tema e dell’orchestra: il male è uno sconcerto, un fare che impedisce il lascia che sia. Let it be. Anche a scuola proviamo a fare lo stesso aiutando i ragazzi a trovare la propria voce, e nei giorni di maturità mi è particolarmente evidente.
Ma abbiamo noi ancora un tema musicale da sviluppare? Esiste ancora uno spartito?
Alla fine dell’anno i maturandi mi hanno regalato un’edizione dell’Odissea, la stessa che abbiamo usato per la lettura integrale del poema ad alta voce durante il primo dei cinque anni di superiori, quello vissuto a distanza. Quell’esperienza di lettura in cui ciascuna voce incarnava un personaggio da un punto diverso e disperso della città, ci è rimasta nella memoria come un concerto, quando invece l’armonia era distrutta dal distanziamento. Nella prima pagina del libro di un racconto di tremila anni fa hanno apposto le loro firme, quelle che cominciano a usare per le loro nuove responsabilità. All’interno c’erano poi le loro voci. Ognuno aveva infatti sottolineato il passo più amato affiancando il proprio nome alle parole di Omero. Così alla mia collezione di Odissee ho aggiunto la più bella, fatta di nomi e voci (versi). Quando la apro ascolto una musica “di classe”: volti e vocazioni, cioè la scuola, un luogo in cui, se non fossimo oberati da burocrazia, prestazioni e impegni che poco hanno a che fare con l’educazione, siamo chiamati a cercare proprio l’equilibrio tra il fare e il lasciar essere, per evitare sia il controllo sia l’indifferenza. E non è forse questo il lavoro della vita?
Questo libro, divenuto per loro una sorta di tema musicale da sviluppare, sarà per me un Inno alla gioia, in cui ogni voce, unica, come ogni vocazione, per altezza, timbro, intensità e durata, si è legata ad altre in una convocazione che supera le singolarità e il tempo. E l’amore non è forse far essere «la voce a te dovuta», come il titolo del libro di un poeta innamorato? Quando tornando a casa tardi per il pranzo dopo gli orali di maturità trovo un post-it con su scritto «ti amo» e «potresti mangiare questo», non ascolto il canto quotidiano della vita? Un’armonia di fare e lasciar essere come il giardiniere cura le sue piante?
In musica tutto questo accade grazie al silenzio. Con la pausa scolastica tace anche l’Ultimo banco. Il mio augurio è che possiate (ri-)trovare la vostra voce, unica e necessaria al concerto della vita. Lo sconcerto, il disaccordo e il disincanto in cui a volte precipitiamo non sono la realtà, ma un tradimento della voce a noi dovuta e di quelle a cui, per ecosistema, siamo legati. La vita aspira e tende infatti al coro delle foreste vergini e al concerto sui tetti di una rumorosa città.
Spero che anche questa rubrica abbia almeno fischiettato per voi un motivo gioioso, che vi ringrazio di aver ascoltato anche nei lunedì più faticosi.
Ci ritroveremo a settembre per un nuovo canto.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it