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La maternità surrogata all’esame delle Nazioni Unite

Relazione tenuta da Giulia Bovassi in occasione della 68^ Sessione della Commissione sullo status delle donne – 20 Mar 2024, Conference Room 12, General Assembly Building, Headquarters of the United Nations (NYC).

“Too high a cost: End surrogacy now Preventing the exploitation and commodification of women and children”, Permanent Observer Mission of the Holy See and ADF International, with Juristes Pour L’Enfance Le Syndicate de la Famille

Buongiorno a tutti,

non so descrivere l’onore, personale e professionale, di quest’invito ad essere voce di temi tanto delicati e urgenti, condiviso con tanti pregevoli relatori, per il quale ringrazio sentitamente ADF international e la Santa Sede.

La finalità della presente riflessione è mostrare le ragioni antropologiche a sostegno dell’abolizione universale della surrogazione. Mater semper certa est. La pratica della maternità surrogata è connotata da un altissimo valore simbolico con ricadute sul senso della generazione, che viene totalmente riscritto. Alla certezza della madre oggi assistiamo alla recisione intenzionale delle relazioni primordiali, finanche ad allegorie della maternità quali la surrogazione con utero di donne cerebralmente decedute e l’ectogenesi (utero artificiale) cui forza motrice è la liberalizzazione definitiva della donna dalla schiavitù biologica della gravidanza e la delega tecnologica del privilegio di custodire l’umanità, interrogano la bioetica, ci interrogano.

Mi domando, vi domando, non solo come bioeticista, soprattutto come donna, come figlia e come madre: dov’è la madre?

LA MADRE

Nella surrogazione assistiamo allo svuotamento assiologico della corporeità (e della sessualità) in uno dei modi più radicali nella storia della donna: l’identità unitotale, per la quale la persona ha ed è il suo corpo, viene scissa in un dualismo estremo, provocandone l’alienazione ed astrazione come ingranaggio di mercato; che materializza e de-sostanzializza la co-appartenenza della persona con la corporeità. Porre al centro del dibattito il problema del corpo è tanto inusuale quanto significativo se si vuole incardinare la surrogazione nella più ampia questione storica della condizione femminile.

Se il corpo, da inalienabile e inviolabile, diviene risorsa biologica1, in ambito riproduttivo, il dono subisce la trasformazione in prodotto commerciale2, quando, all’opposto, la categoria del dono si pone in netta contrapposizione con la prestazione, la proprietà e dinamiche di retribuzione/rimborso. Nella surrogazione viene compiuto un uso economicistico dell’esperienza solidaristica per camuffare l’idea, inaccettabile alla coscienza umana e al buon senso comune, che il figlio non sia generato ma comprato, declassato dalla categoria umana a quella materiale/produttiva. Il principio solidaristico perde validità quando vi è il rischio di una strumentalizzazione del sé. In questo caso, il corpo docile diventa mezzo sul quale esercitare e far avvenire quel “potere di gestione dei corpi”, somatocrazia o biopower – citando Michel Foucault3– che non vede in essi la persona, ma un mezzo di profitto, una risorsa disciplinarizzata. Quello che emerge è un pendio scivoloso che ha portato dall’indisponibilità del corpo umano alla totale prestazione del corpo e quindi disponibilità: l’autodeterminazione acutizzata a tal punto da abbellire linguisticamente nei termini dell’altruismo ciò che nella sostanza è una pratica di allevamento femminile, dove la donna-utero-incubatrice, spogliata di ogni sacralità e mistero, accetta una considerazione riduzionista e utilitarista del suo valore ridotto alla funzionalità uterina, a criteri di prestazione, efficienza, utilità, consumo; ridotto alla riproduzione di massa, anziché alla procreazione.

Sylviane Agacinski usa l’espressione molto forte di “mercati della carne”4 dove la donna non ha alcun potere trainante, di autodeterminazione e controllo, semmai è sottomessa all’industria dei desiderata, considerata una categoria biologica senz’anima; una macchina inerme. Per i sostenitori della surrogata, la gestante chiamata anche vettore (carriers) conserva la sua dignità di persona perché quanto compie avviene in modo impersonale sul suo corpo che è un «“dispositivo di passaggio”»5 interscambiabile.

Sottoposta a logiche economiciste, la gravidanza, dovremmo chiederci -riprendendo Agacinski- appartiene all’ordine dell’avere, del fare o dell’essere?6 Non c’è emancipazione, bensì “de-solidarizzazione” della donna con il suo corpo, che in modo eclatante smette di appartenerle quasi fosse un’incubatrice passiva. All’opposto, come fa notare Janne Matlary, la maternità “è un termine ‘essenzialista’ in quanto una persona è, o non è, una madre”7. La madre, citando Gabriella Gambino, è “generatrice di vita e di identità”. È custode dell’essere figli e l’essere figli è il linguaggio fecondo, “generattivo”: comprendere la sua fisiologica propensione atavica all’essere impedisce razionalmente e moralmente ogni tentativo sostitutivo dell’esperienza materna inseparabile dalla gestazione. La «generattività»8 è la declinazione sociale del grembo («gremio»9), del portare-alla-nascita: «Attraverso il grembo (…) la funzionalità materna suggerisce il punto di contatto tra immanente e trascendente»10. Frammentare questo legame umano originario, che ha nel grembo il suo luogo d’inizio, cosa restituisce alla donna?

GIUSTIZIA SOCIALE

La gravidanza, l’essere generatrice di vita, non è un servizio, ma un evento e processo in divenire connaturato alla vita sia biografica sia biologica della madre. Nei nove mesi di gestazione la madre nasce con il figlio perché mediante l’esistenza del figlio compie quel passaggio delicato, ma decisivo da figlia a madre. Una delle questioni bioetiche più importanti in merito è di giustizia sociale, ovvero la condizione di ingiustizia messa in atto dal mercato della surrogazione soprattutto quando le gestanti provengono da paesi in situazioni di grave povertà: lo scenario di sfruttamento qui trova l’aggravante delle condizioni di vulnerabilità socio-economica, famigliare, culturale in cui versano le gestanti che acconsento alla surrogazione, esposte al ricatto dello stato di necessità. In questo caso specifico la pratica del consenso informato di rilevanza bioetica è compromessa sia nell’autenticità del consenso sia nelle condizioni del consenso. In definitiva, contrariamente a molte tesi di sostegno avanzate con argomentazioni circa parità uomo/donna, autodeterminazione femminile, tramonto della società patriarcale, quanto nei fatti accade è che alcune donne più vulnerabili vengono usate da committenti molto facoltosi (accentuando prevaricazioni economiche) indifferenti alla loro dignità di esseri umani alimentando una filiera procreatica senza riguardo per i rischi alla salute psico-emotiva e alla vita, ai quali le gestanti vengono esposte, più o meno consapevolmente. Se così non fosse la compravendita del desiderio genitoriale di un figlio programmato e allevato affinché sia di ottima fattura fino alla consegna, scoprirebbe il suo limite nell’inviolabilità delle due vite al centro dello scambio commerciale: quella della madre e del bambino figlio. Consenso e autodeterminazione sono formulazioni della libertà, non un suo assoluto. Come tali, affinché siano moralmente buone, devono procedere da un bene autentico e orientarsi al bene da perseguire. Non basta il consenso a fare di un’azione un atto moralmente buono e non è sufficiente a legittimarlo. Il giustificazionismo basato sul consenso costruisce trappole di compassione e solidarietà ingannevoli poiché non c’è altruismo in uno scambio commerciale né donazione quando si tratta di corpi e di esseri umani, quando cioè si tratta di qualcuno e non di qualcosa.

Se di libertà si vuol parlare, allora occorre chiarire che al “vettore” viene imposto un controllo massivo sullo stile di vita, un regime di interessi e soprattutto un’indifferenza emotiva verso il nascituro per scongiurare il rischio di attaccamento dopo un vissuto quotidiano con lui di nove mesi, che dal punto di vista scientifico già costituiscono in modo inalterabile e naturale la primordiale (cross-talk), intensa relazione del nascituro e del figlio con la madre; non una parentesi passiva, ma una co-esistenza biochimica, ormonale, fisica, emotiva, psichica, che determinerà apprendimento e capacità relazionale post-natale del bambino. Esserne indifferenti, pretenderne indifferenza, è una forma di violenza totale. È violenza sterilizzare questo rapporto. Una cultura per la donna di fronte alla spinta dettata dalla necessità, sofferta, che porta a diventare “vettori”, dovrebbe lottare per garantire loro un’alternativa eticamente buona.

IL FIGLIO INVISBILE

Chi è il figlio nell’età della tecnica?

Oltre ai diritti del nascituro di conoscere e ricercare le proprie origini, la storia al quale appartiene, alla tutela dell’integrità psico-fisica, di dover essere trattato e riconosciuto come soggetto e non oggetto di diritto, da tutelare contro forme indegne per un essere umano quali produzione, commercializzazione, distruzione, manipolazione, etc. il tema rimanda alla mancanza di un consenso unanime, planetario, sulla natura ontologica del concepito. È molto semplice: se egli non è biologicamente membro della specie umana e non è persona, allora chi è? Che cos’è? Quest’essere altro, questa cosificazione del figlio, è la premessa alla sua mercificazione, per disporne entro dinamiche di ideazione-produzione-abbandono-restituzione, in particolare quest’ultima che desta perplessità dal momento che il “bimbo-ospite” oltre a subire l’abbandono dalla madre portatrice, può essere rifiutato nonché soppresso quando disallineato alle aspettative (magari a causa di malformazioni o disabilità) o non più voluto. Inevitabilmente vittima di un “commercio di bambini”: caustica Kajsa Ekman afferma che “il mercato è fondamentale per l’esistenza del bambino”11, il quale, succube di un’arbitraria reificazione della sua natura, alla domanda “perché esisto” troverà risposta non l’amore fecondo di un padre e di una madre, ma “perché qualcuno ha pagato”12, aggiungo e perché c’è stata una medicalizzazione della sua esistenza ben realizzata sul piano procedurale. Il figlio è problematizzato nella surrogazione: prima come ostacolo, poi come desiderio/bisogno/possesso, infine come progetto geneticamente e tecnicamente idealizzato, della cui responsabilità (di essere come si è) potrà chiedere conto (anche in termini di danno) a terzi. Secondo Michel Gauchet “Siamo di fronte, simultaneamente, alla privatizzazione del processo di perpetuazione della specie e all’appropriazione soggettiva del processo vitale”13. A ciò manca la consapevolezza che il “figlio è l’ultima relazione primaria rimasta: irrevocabile, insostituibile”14, quella dove ciascuno di noi può riconoscersi (non tutti sono padri e madri, ma tutti siamo figli): un principio di uguaglianza sostanziale e, devo dire, mi emoziona ribadirlo proprio in questa prestigiosa sede.

Il figlio “prodotto del concepimento” contravviene al principio persona, secondo cui ogni individuo ha titolarità ontologica di soggetto. Se le origini comuni all’umanità divengono prodotto, come prodotto saremo tentati (noi donne in primis) di trattare noi stessi e il prossimo, escludendo le riserve etiche in merito, convinti che il progresso tecno-scientifico dica non solo cosa è possibile fare, ma cosa è giusto fare, che invece è patrimonio della morale.

TECNICA

Questa breve riflessione nasce da uno sguardo sulla dilazione totalizzante del potere tecnologico sulla nuda vita, e si espande all’antropotecnica, cioè alla domanda sull’uomo. Quanto spero sia emerso chiaramente è la degenerazione dell’homo oeconomicus, che Augusto Del Noce definì “società economica pura” la quale converte in valore economico i principi morali finanche l’uomo stesso, un’ontologia economica che prova vergogna del natum esse, dell’unicità e irripetibilità umana, e rimette il diritto all’egemonia dell’inclinazione soggettiva. Il fenomeno del “dirittismo” considera il diritto uno strumento a-veritativo. Offendendo la dignità della persona, radice dei diritti umani, l’esigenza di affermare il reato universale di surrogazione è l’unica strada perseguibile al fine di arginare la tentazione di pervertire i rapporti umani nel dominio marxiano e biologista del dominante sul dominato15. Il diritto non fonda il bene, ma riconoscendolo, lo difende e persegue. Il problema è un’etica minima, una metafisica minima, un’antropologia minima di accordo globale. Allora ritorno a chiedere a me, a voi: dov’è la madre? Che l’interrogativo possa essere la base per una maturata consapevolezza sul bisogno di una voce unanime globale in grado di preservare la relazione filiale dell’umanità “nata da donna”.

Vi ringrazio per l’attenzione!

Giulia Bovassi,
Bioeticista
Associate Researcher UNESCO Chair in Bioethics and Human Rights (Roma)
Assistant Professor Facultad de Bioética, Universidad Anáhuac (Messico)

Fonte: AllenazaCattolica.org

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