Il primo spunto di interesse in un percorso didattico che intenda mettere a fuoco la “domanda su Dio”, è porre in luce che tale nozione, seppure tematizzata in modo rigoroso dalla filosofia, nasce con il senso religioso e dunque confluisce nelle grandi religioni storiche. La domanda su Dio appartiene alla vita umana in quanto tale, e non sorprende che la si ritrovi in diversi contesti, antropologici, culturali, esistenziali. Non deve neanche sorprendere che essa riaffiori nelle riflessioni filosofiche degli uomini di scienza e di coloro che, in generale, osservano e studiano la natura interrogandosi sulla causa all’origine di tutte le cose.
Nelle culture arcaiche il divino viene spesso concepito come una categoria, più che come una entità unica. È un esempio di questo politeismo il mondo greco, dove le divinità esprimono i diversi aspetti della natura (physis): Zeus la folgore, Poseidone l’oceano… Cosicché in definitiva è proprio la physis a essere divina. Essa è la Gran Madre di cui i singoli esseri – dèi, uomini, animali – sono le espressioni. Una visione a cui oggi, radicalizzando alcune prospettive ecologiste, alcuni sembrano voler tornare.
La filosofia eredita il politeismo della religione: per Platone (427-347 a.C.) il divino coincide fondamentalmente con il mondo delle Idee, anche se l’esigenza di una unità ultima affiora quando il filosofo nota che la loro molteplicità è il variegato riflesso di una di esse, quella del Bene-Bellezza. Le Idee non sono soggetti, sono pensabili ma non pensano e non agiscono. Lo è, invece, il Demiurgo, una divinità che plasma il mondo, ma deve guardare alle Idee, come a modelli, per la sua opera.
Questa difficile coesistenza tra una visione politeista e l’oscura intuizione dell’unicità di Dio si ritrova anche in Aristotele (384-322 a.C), che ritiene inevitabile moltiplicare i “Motori immobili” secondo il numero dei cieli che essi muovono (47 o 55), ma tende a valorizzare il Motore immobile del “primo cielo” come divinità suprema. Dio, qui, è concepito in rapporto al funzionamento del cosmo, senza una radicale trascendenza. Ancora la teologia, pur nella sua versione filosofica, risente dell’originario legame con la cosmologia.
Anche l’alternativa tra oggettività e soggettività divine in Aristotele è solo parzialmente superata: Dio è Atto puro e al tempo stesso Pensiero. Tuttavia, è incapace di pensare altro che se stesso e la sola relazione di causalità che ha con il mondo è quella, passiva, di fine del suo movimento.
In entrambe queste filosofie, in cui il pensiero antico ha toccato il suo vertice speculativo, è del tutto assente l’idea di creazione. La materia costituisce un residuo oscuro che la divinità plasma, ma non produce dal nulla.
L’ultimo sforzo del pensiero greco – ormai al tramonto dopo l’avvento del cristianesimo – per elaborare una propria concezione di Dio, è quello di Plotino (204-270). Portando all’estremo la tendenza di Platone a porre il Bene divino come l’unità delle Idee, egli identifica Dio con l’Uno, impensabile e ineffabile, che sta al di là di esse. Nell’atto in cui pensa se stesso l’Uno non è più tale, perché si sdoppia in un Intelletto (Aristotele) e nelle Idee oggetto di questo Intelletto (Platone). Dall’Intelletto promana l’Anima del mondo, che da quello recepisce le Idee come matrici delle proprie diverse forze vitali. Dall’Anima del mondo, infine, deriva il mondo, ultima propaggine dell’unità divina che, in queste sue diverse concretizzazioni, si è via via depotenziata, fino a scadere nella pura molteplicità della materia, identificata con il non-essere e con il male.
Siamo agli antipodi del naturalismo che modellava Dio in funzione del mondo e lo incapsulava in un sistema razionale compiuto. Dio qui è il “totalmente Altro” e la sola teologia che sia lecito elaborare è quella negativa, che può soltanto dire ciò che l’Assoluto non è. Tutte le forme di misticismo che l’Occidente conoscerà avranno questa visione come esplicito o implicito punto di riferimento.
Al tempo stesso, però, la concezione di Dio di Plotino costituirà il punto di partenza di tutte le filosofie che – da quella di Giordano Bruno a quella di Spinoza, a quelle di Schelling e di Hegel – tenteranno di superare l’alternativa fra immanenza e trascendenza, concependo il mondo non come una entità a sé stante rispetto al divino, ma come l’esito estremo del “farsi altro da sé” dell’Uno, diversissimo da Esso e pure a Esso necessario, come i raggi lo sono al sole.
Da qui un’oscillazione che renderà possibile interpretare le filosofie di matrice neoplatonica volta a volta come panteismi, in cui il mondo si riduce a Dio, oppure come forme di ateismo naturalistico, in cui Dio si identifica con il mondo, a seconda che si sottolinei il ruolo di un polo o quello dell’altro. In entrambi i casi, in realtà, resterà poco spazio alla scienza che, in una visione dove il Tutto inghiotte le parti, verrà interamente subordinata alla filosofia.
La filosofia cristiana parte dall’affermazione con cui si apre la Bibbia: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). Essa da un lato spinge la filosofia a superare definitivamente il politeismo e le incertezze sulla soggettività divina del pensiero greco, dall’altro pone nettamente la differenza tra la divinità e il mondo.
L’affermazione della trascendenza divina conferisce al mondo la sua identità “profana”. La natura da un lato viene demitizzata e può essere semplicemente studiata nella sua fisicità, dall’altro – poiché ora anche la materia è una creatura voluta e amata dal suo Creatore – ha un proprio valore.
Oltre a costituire il mondo nella sua laica autonomia, il Dio della Bibbia conferisce un nuovo significato all’essere umano, creato a sua immagine e somiglianza e incaricato di portare a compimento l’opera della creazione. Grazie a questa valorizzazione del soggetto, coniugata con la nuova visione dell’universo, non solo la filosofia occidentale svilupperà il primato della persona come essere unico e irripetibile, ma la scienza e la tecnica – peraltro già presenti nel mondo greco (si pensi ad Archimede, a Euclide…) – troveranno la loro piena giustificazione e un impulso sconosciuto ad altri contesti culturali.
Un altro testo biblico decisivo per la speculazione filosofica è stato quello dell’Esodo in cui Dio rivela a Mosè il proprio nome: «Io sono colui che sono!» (Es 3,14). Agostino di Ippona (354-430), influenzato dal primato platonico delle essenze, lo interpreterà nel senso che Dio è eterno e immutabile, senza passato né futuro. Per Tommaso d’Aquino (1225-1274), invece, esso significa che in Dio soltanto l’essenza coincide con l’atto d’essere, mentre le creature non “sono” il proprio essere, ma lo “hanno” per partecipazione. L’Aquinate conferirà così nuovo spessore alla tradizionale argomentazione in favore dell’esistenza di Dio. Nella filosofia aristotelica essa si basava sull’impossibilità che, nel divenire, la potenza spieghi il proprio passaggio all’atto, senza l’intervento di un atto esterno al processo. Ora, in linea con la dottrina della creazione e con la concezione di Dio come “Ipsum esse subsistens”, il punto cruciale è che, non identificandosi con il proprio essere (come evidenzia il loro nascere e il loro morire), le realtà del mondo non possono che “ricevere” l’essere, momento per momento, da un Essere che invece è tale per essenza.
Dalla nuova visione filosofica di Dio e dei suoi rapporti con il mondo doveva però scaturire, nell’età moderna, una serie di sviluppi il cui esito ultimo sarebbe stato una profonda modificazione dell’idea di Dio e, in alcuni casi, l’eclisse della divinità. Già il passaggio dall’umanesimo teocentrico medievale a quello tendenzialmente antropocentrico del Rinascimento costituiva un segnale di questo processo.
Poi, con Descartes (1596-1650), Dio diventa il garante della corrispondenza tra le idee matematiche dell’uomo e la natura, dando così un fondamento filosofico alla nuova scienza galileiana. Su questa scia l’Assoluto, in Gottfried Leibniz (1646-1716), ha la funzione di programmare l’armonia prestabilita fra tutte le monadi, consentendo tra loro una sintonia che esse, prive di “porte e finestre”, non potrebbero realizzare senza di Lui.
Nel deismo illuministico la divinità è concepita soltanto come l’Architetto dell’universo, perdendo ogni relazione vitale con esso. Invece che una relazione costitutiva indispensabile per mantenere il mondo nell’essere, la creazione diventa un atto iniziale, necessario per giustificare l’esistenza delle cose, ma che appartiene a un remotissimo passato e lascia Dio ai margini della reale esistenza dell’uomo.
Un’ulteriore tappa di questa progressiva evaporazione della realtà di Dio, vista sempre più in funzione delle esigenze umane, è la filosofia di Immanuel Kant (1724-1804), il quale ormai considera impossibile arrivare all’esistenza di Dio con la ragione (ragion pura) e pertanto riduce la divinità a un postulato della ragion pratica. Questa volta Egli sarà il garante del collegamento tra la sfera della vita morale, di per sé dominata esclusivamente dal rigore dell’imperativo categorico, e quella dell’umana esigenza di felicità.
Non sorprende che un Dio ormai prevalentemente “strumentale” all’umano venga alla fine considerato superfluo, come nel positivismo – dove la scienza finisce per assorbire o asservire la filosofia, emarginando la religione –, oppure, con Ludwig Feuerbach (1804-1872), sia identificato con una proiezione delle potenzialità e delle esigenze dell’uomo stesso, destinata a essere definitivamente superata quando egli finalmente non avrà più bisogno, per conoscersi, di questo specchio illusorio. Finché Karl Marx (1818-1883) non proporrà, andando oltre lo stesso Feuerbach, di considerare l’idea di Dio nient’altro che un prodotto storico dei rapporti di sfruttamento, finalizzata a renderli sopportabili, come una droga, di cui liberarsi per realizzare una società degna dell’uomo.
Al termine di questa parabola si colloca il grido di Friedrich Nietzsche (1844-1900): «Dio è morto!» – anche se egli avrà la lucida consapevolezza che con Dio muore anche l’uomo, e che il futuro sarà possibile solo andando oltre di esso verso un über-mensch (non “super-uomo”, ma “oltre-uomo”). Sono gli scenari, francamente problematici, a cui la manipolazione dell’umano, a livello genetico, psicologico, culturale, ci sta facendo assistere. Ma, come notava, Aldous Huxley, questa apparente assenza di Dio non è proprio il segno della sua misteriosa presenza?
Nell’epoca contemporanea si assiste a un certo scetticismo, quando non vera e propria indifferenza, riguardo la domanda su Dio. Si registra però una rinascita di interesse per le “domande ultime” che emergono nello studio della natura. A parlare di Dio, a ragione o a torto, è oggi la divulgazione scientifica. Lo studio del cosmo, della vita e della sua evoluzione, tiene in vita gli interrogativi sull’origine, sul senso e sul tutto. E dunque anche l’interrogativo su Dio.