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Vasilij Grossman: “Il popolo è immortale”. L’Armata rossa contro la Wehrmacht

Realtà e finzione romanzesca
Armata rossa e Wehrmacht ne «Il popolo è immortale» di Vasilij Grossman

Tra il luglio e l’agosto del 1942 il romanzo Il popolo è immortale di Vasilij Grossman viene pubblicato in diciotto puntate sulla «Stella rossa», il giornale dell’esercito russo al quale Grossman collabora come corrispondente di guerra fin dall’agosto del 1941, due mesi dopo l’inizio dell’operazione Barbarossa. Ad aiutarlo nella correzione delle bozze al fronte è il generale David Ortenberg. È quest’ultimo ad averlo fortemente voluto al giornale che dirige, dal momento che nessuno, ritiene Ortenberg, è capace di penetrare l’animo umano quanto lui. Allo scoppio del conflitto, Grossman si è arruolato come volontario, nonostante le sue condizioni di salute, dal punto di vista fisico e psichico, siano precarie: la vista è malferma, lo stato d’animo afflitto.

Per quasi quattro anni segue, dall’interno, le altalenanti vicende dell’Armata rossa: è testimone di gravi umiliazioni, sconfitte, ritirate, accerchiamenti, massacri e bombardamenti, poi della strenua resistenza e della controffensiva dei sovietici, capaci di rovesciare le sorti della guerra. Grossman è al seguito dell’esercito russo quando — dopo la battaglia di Stalingrado — entra in Polonia e in Germania, arrivando fino a Berlino. Riporta ciò a cui assiste nei suoi taccuini e nei suoi articoli, non nascondendo debolezze e limiti delle truppe, anche a costo di sfidare l’occhiuta vigilanza della censura staliniana.

Nella primavera del 1942, Grossman ritiene di aver raccolto materiale a sufficienza per un romanzo, per scrivere il quale chiede il permesso di potersi ritirare per due mesi a Čistopol’, la città dove si trova la sua seconda moglie, Ol’ga Michajlovna Gruber. L’intento dell’opera, come si legge nelle note di guerra compilate da Grossman, è «descrivere in modo esauriente l’esercito e i combattenti, i nostri generali, ufficiali, soldati, i contadini delle fattorie collettive, gli operai, le nostre città e i nostri villaggi impegnati nella Grande difesa. Il motivo-guida è il carattere ferreo del popolo sovietico, forgiatosi alla fiamma delle città incendiate e dei villaggi distrutti dai tedeschi. Ad attenderlo non può essere che la vittoria». Ne verrà fuori Il popolo è immortale, primo resoconto sovietico della guerra in corso, che ora appare per Adelphi nella traduzione di Claudia Zonghetti, con la cura di Robert Chandler e Julija Volochova (Milano, 2024, pagine 285, euro 20).

Il libro ricostruisce la storia di un gruppo di soldati dell’Armata rossa alle prese con la Wehrmacht, concentrandosi su un ampio repertorio di personaggi, per la descrizione dei quali Grossman trae spesso spunto dalla realtà. Questi rimandi tra realtà e finzione romanzesca sono sottolineati da Chandler e Volochova nella postfazione e risultano evidenti anche dalla lettura degli articoli di Grossman e della selezione di brani tratti dai suoi taccuini, che arricchiscono il volume adelphiano. Una di queste figure è senza dubbio Sergej Aleksandrovič Bogarëv, quasi un alter ego dell’autore. Fino all’invasione nazista, Bogarëv ha condotto un’esistenza pacifica, completamente dedita allo studio dei fondamenti teorici del collettivismo nell’industria e nell’agricoltura russe e all’insegnamento del marxismo all’università di Mosca. Con lo scoppio della guerra viene richiamato al fronte e catapultato in un contesto distantissimo da quello dal quale proviene, divenendo commissario politico di un’unità di fucilieri. Bogarëv è animato da un profondo odio contro i nazisti. A stupirlo sono soprattutto la loro scarsa conoscenza dei principi del nazionalsocialismo, la loro vigliaccheria e la loro meschinità. Al tempo stesso, è colpito da come i comandi militari tedeschi siano meticolosi e sistematici nell’organizzazione: un atteggiamento che gli ricorda quello delle «formiche» e degli «animali gregari». Per lui i tedeschi rassomigliano non a esseri umani, ma ad automi: privi di inventiva e creatività, non sanno che imitare. Tutto in loro — dalla teoria sociale alla dottrina militare, fino all’antisemitismo — non è che la riproposizione di idee altrui, prese ora di qua ora di là e fatte proprie.

Dell’unità affidata a Bogarëv fa parte Semën Ignat’ev, un soldato del tutto diverso, per temperamento, da lui: alto, forte e allegro, Ignat’ev ama suonare la chitarra, cantare, fare scherzi mordaci ai compagni, bere, ma non fino a ubriacarsi. È un «vero russo», come lo definiscono i suoi commilitoni. Tra i due, Bogarëv e Ignat’ev, si creerà un sodalizio sincero, una fratellanza capace di superare le loro pur notevoli differenze e che nella conclusione del romanzo trova un’illustrazione concreta. Non a caso, Il popolo è immortale si chiude il 22 giugno 1942, esattamente due anni dopo l’invasione nazista dell’Unione sovietica.

L’attenzione di Grossman si appunta anche sulle tragedie che colpiscono la popolazione civile. Tra tutte quella che colpisce maggiormente è la storia di Marija Timofeevna Čeredničenko, madre di un commissario politico, assassinata dai nazisti al loro arrivo nel kolchoz di Marčichina Buda. La donna ha deciso di continuare a vivere nel suo villaggio, benché il figlio abbia tentato più volte di convincerla a trasferirsi con lui a Kiev, prima ancora dell’inizio della guerra. I tedeschi la uccidono senza pietà e senza provare il benché minimo senso di vergogna: ai loro occhi, è soltanto una «vecchia inutile che occupava uno spazio necessario, vitale per i tedeschi». Una storia che evidentemente ricalca da vicino ciò che è accaduto alla madre di Grossman, Ekaterina Savel’eva, uccisa per mano dei nazisti nella città ucraina di Berdičev, dove a metà settembre del 1941 la Wehrmacht stermina trentamila ebrei, gettando i loro corpi in fosse comuni. Preludio di quanto avverrà di lì a poco nella zona di Babij Jar. Grossman sarà per tutta la vita tormentato dall’idea di non essersi adoperato abbastanza per persuadere la madre a lasciare Berdičev e a spostarsi con lui e la sua famiglia a Mosca.

Quello di Grossman nel Popolo è immortale è indubbiamente un elogio — talvolta retorico, occorre ammetterlo — della resistenza sovietica, dell’umanità dei soldati dell’Armata rossa, del rigore e della semplicità della popolazione, della rettitudine delle donne. Ma è anche una descrizione delle incertezze, delle preoccupazioni, dei contrasti, degli errori, della bassezza degli istinti umani in guerra. Ed è una dura requisitoria contro le responsabilità dei tedeschi, un tema che sarà al centro della riflessione filosofica e letteraria dopo la seconda guerra mondiale. C’è un passo, in particolare, tra le poche considerazioni di Grossman presenti nel romanzo, che è in tal senso eloquente: «“Come farò a scrollarmi di dosso la vergogna di avere avuto un bisnonno pilota nazista” esclamerà tra cent’anni un giovane tedesco. E tra cent’anni gli storici guarderanno spauriti gli ordini scritti con calma, metodo, logica e precisione teutonica che dal quartier generale del Comando supremo dell’esercito tedesco raggiungevano i comandanti di squadre e squadriglie aeree. Chi era a vergarli? Bestie, pazzi, o forse nemmeno esseri umani, ma dita di ferro, dita di aritmometri e calcolatori. Non esiste castigo, no davvero, che possa espiare anche solo la millesima parte della colpa di chi ha scritto quegli ordini, o la decima di chi quegli ordini li ha messi in atto e li ha eseguiti. No, compagni: un tale castigo non esiste, né ora né mai».

Fonte: Giovanni Cerro | L’Osservatore Romano

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