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Ambienti digitali ed esperienza umana

Tra i tanti punti rilevanti toccati da Adriano Fabris nel suo saggio, mi sembra che uno sia particolarmente meritevole di essere sottolineato e ripreso. È una considerazione che attraversa l’intero articolo, la nota dominante sulla quale si appoggia l’intera melodia: l’etica, in quanto forma di vita, deve essere in-formata da una concezione della vita. In questo senso, Fabris si sofferma su nozioni che vanno ben oltre le prospettive di una “etica applicata” alle tecnologie dell’informazione: spazio, luogo, ambiente, casa, ecologia, richiamano tutte alla necessità di riconfigurare e dotare di senso le forme del nostro abitare. Si tratta di concetti “spessi” (per usare una terminologia analitica) e “carichi di ontologia”. In questo senso, l’esercizio etico è necessariamente un lavoro ermeneutico, capace di interpretare la nostra modalità dello “stare-nel-mondo” con le altre forme di vita.

È proprio qui che l’abitare – nozione dalle tinte heideggeriane, come appare evidente a chi conosca il pensiero di Fabris – diventa il concetto centrale per ripensare un’ecologia degli ambienti digitali, ossia le relazioni tra gli esseri che condividono gli spazi dell’infosfera. È opportuno qui sottolineare come quelle relazioni (che anche in questo caso sono il centro del pensiero di Fabris e che, d’altra parte, sono il contenuto centrale della scienza ecologica), seppure virtuali, siano reali, anche se si manifestano sotto un aspetto diverso dalle relazioni “tradizionali”. Per esprimersi in altri termini: il mondo virtuale non è meno reale di quello reale… e, difatti, non vi è contraddizione tra virtuale e reale. Quando Fabris parla di “passare” da un mondo all’altro, di relazionare o distinguere gli ambienti, sta per l’appunto presupponendo, a parere di chi scrive, differenti gradi di realtà o differenti mondi (e modi) dell’esperienza.

Entra così in gioco un’altra nozione centrale, a mio modo di vedere, tanto dell’ecologia quanto della tecnologia, ossia l’esperienza. La civiltà tecnologica – per riprendere una bella espressione di Hans Jonas – è anche l’epoca della trasformazione radicale dell’esperienza. Tale trasformazione ha a che fare sia con gli ambienti in cui ci troviamo – trasfigurati, di fatto, dalle tecnologie – sia con le forme delle azioni che siamo capaci di compiere. Concerne, inoltre, i mezzi che usiamo per raggiungere determinati fini, le conseguenze che possiamo (o meno) controllare, il dominio stesso di quei mezzi e dell’ampiezza del nostro raggio d’azione. La causa di tutto ciò, come già detto, è che la tecnologia ormai non si configura più solo come un mezzo, bensì come un ambiente . Di fatto, i nuovi dispositivi tecnologici non sono solo strumenti inerti che ci aiutano a raggiungere dei fini e acquisiscono un senso proprio a misura di tali fini, ma ambienti che interagiscono con noi . Si comprende più facilmente tale differenza se si pensa ad alcuni strumenti tecnici “antichi” (come, ad esempio, il martello) e, al contempo, ai dispositivi tecnologici attuali (come, per esempio, un robot): se il martello viene “usato” da noi, al contrario, con un robot “interagiamo”. Esiste, ossia, una differenza radicale nelle due tipologie di azione e negli stessi “oggetti” che ci permettono d’implementare tali attività: da una parte, difatti, abbiamo a che fare con un oggetto inerte che mettiamo in movimento noi stessi, usandolo come se fosse un prolungamento del nostro corpo; dall’altra, ci relazioniamo con un dispositivo che si muove in un modo “autonomo”, capace di implementare processi dinamici e complessi indipendenti dall’uso umano .

Tale costatazione, che potrebbe sembrare innocente a livello etico, in realtà modifica drasticamente lo scenario morale e gli ambiti (e limiti) della responsabilità umana: dal momento che si tratta di un’interazione o “collaborazione” con dispositivi, i limiti della responsabilità umana non sono coestensivi alla azione stessa. Per comprendere meglio questa dinamica, prendiamo come esempio un caso concretissimo: un veicolo a guida autonoma che investa per errore un pedone. Di chi è la responsabilità morale in questo caso? Del programmatore, del fabbricante, del proprietario del veicolo, del passeggero (che non sta guidando, evidentemente), dello stesso veicolo? La difficoltà a rispondere a un quesito di tal fatta dipende interamente dalla complessità dell’azione compiuta, per cui ciò che consideriamo usualmente un oggetto o strumento (il veicolo) sembra diventare il soggetto o protagonista dell’azione stessa. Non si tratta più, dunque, di un essere umano che agisce con uno strumento, ma dello strumento che – a partire da alcuni codici e algoritmi – “compie” un’azione, oscurando fattualmente la presenza dell’essere umano stesso. Fino a qui, dunque, il nostro excursus in merito ai dispositivi tecnologici, che potrebbe arricchire l’ipotesi di lavoro presentata da Fabris.

Se dunque, come accennato, le tecnologie non sono mezzi ma ambienti, occorre capire come l’essere umano debba o possa inserirsi in quegli ambienti, ossia come li possa e debba abitare. Emerge così la questione etica. A questa altezza del nostro discorso ci riallacciamo al lavoro di Fabris, che con estrema precisione definisce l’etica delle tecnologie come, allo stesso tempo, etica nelle tecnologie. Questa sottile integrazione ci ricorda che, nell’epoca attuale, l’etica è impensabile al di fuori delle tecnologie (e, sperabilmente, viceversa), ossia da quegli ambienti nei quali ci troviamo ad interagire quotidianamente e necessariamente. È proprio in questo snodo fondamentale tra tecnologia ed ecologia che si gioca – come Fabris sembra suggerire – la partita attuale dell’etica. Senza questa visione di fondo, la riflessione sul digitale perde la sua densità e profondità filosofica.

Fonte: Luca Valera | Lisander.com
BibliografiaFabris, A. (2012). Etica delle nuove tecnologie, La Scuola, Brescia.

Fabris, A. (2016). RelAzione. Una filosofia performativa, Morcelliana, Brescia.

Ihde, D. (1990). Technology and the Lifeworld: From Garden to Earth, Indiana Univesity Press, Bloomington.

Valera, L. (2022). Espejos. Filosofía y nuevas tecnologías, Herder, Barcellona.

Verbeek, P.P. (2005). What things do. Philosophical reflections on technology, agency, and design, The Pennsylvania State University Press, University Park.

Verbeek, P.P. (2011). Moralizing technology: Understanding and designing the morality of things, University of Chicago Press, Chicago.

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