Una docuserie riaccende, se mai si sono spenti, i riflettori su un caso giudiziario troppe volte distorto dallo spettacolo televisivo. Che cosa sappiamo di com’è andata davvero
La pubblicità è l’anima del commercio dice un adagio e lo spot che inquadra il volto di Massimo Bossetti che dice «Era tanto che aspettavo questo momento» deve fare esattamente quello: “vendere” un prodotto. La docuserie (nome che indica un documentario in più puntate, in cui sono montati interviste e documenti, a rendere il punto di vista degli autori, più o meno soggettivo, che si deduce dall’andamento della narrazione, differisce dalla docufiction per la mancanza di inserti recitati per la ricostruzione dei fatti) dedicata su Netflix on demand al caso Yara a firma di Gianluca Neri. Si capisce già dal trailer che lo scopo del prodotto è portare lo spettatore a empatizzare con l’uomo condannato nel 2018 con sentenza definitiva, per l’omicidio pluriaggravato dalla crudeltà e dalla minorata difesa, di Yara Gambirasio.
Il SILENZIO DELLA FAMIGLIA
Yara era una ragazzina di 13 anni, con una vita normalissima, divisa tra sport, scuola e una famiglia tranquilla, composta da una mamma, un papà, un fratello e una sorella. Che cosa provino i familiari di Yara, già alle prese con un lutto con il quale obiettivamente è difficile fare pace in condizioni normali, mentre questo spot arriva in casa di tutti attraverso la Tv generalista a ora di pranzo, si può solo intuire “e silentio”, direbbero i latini, dalla loro condotta sempre discreta, sempre attentissima a non partecipare mai in alcun modo al processo mediatico che fin dall’inizio delle indagini ha distorto il caso in un caleidoscopio di sfaccettature che poca parentela hanno avuto con indagine e processo reali. Anche questa volta si sono limitati a lasciar dichiarare all’avvocato che li rappresenta di non aver in alcun modo partecipato alla sceneggiatura «ben contenti di non averlo fatto».
IL CONTRARIO DI UN’INDAGINE A TESI
Al centro della serie, come anche di tante propaggini del processo televisivo, il tentativo di tenere vivo il dubbio per le carte processuali irragionevole che indagini e processo siano stati a “tesi”, desiderosi di trovare un colpevole purché fosse. Un’insinuazione che la consapevolezza di come sono andate le indagini e la lettura delle tre sentenze (Corte d’Assise di Bergamo; corte d’Assise d’appello di Brescia, Corte di Cassazione tutte per chi volesse rese pubbliche dalla rivista Giurisprudenza penale) smentisce palesemente: se chi indagava si fosse accontentato del primo sospettabile capitato sottomano, avrebbe incastrato Mohamed Fikri nei cui confronti, invece «indagini approfondite cd esaurienti», scrive la Corte d’Appello, «hanno portato all’archiviazione dell’accusa formulata». Nella realtà il lavoro si è svolto esattamente al contrario: i rilievi sul corpo della ragazzina uccisa, ritrovato tre mesi dopo in un campo incolto, hanno evidenziato, sugli slip della ragazza, in corrispondenza esatta con una delle molte ferite ritrovate sul suo corpo, una traccia chiara di Dna nucleare, quello che nelle indagini forensi del mondo serve a identificare una persona, che rimandava a uno sconosciuto, denominato provvisoriamente Ignoto1.
LE ANALISI E I RISULTATI
A proposito dei risultati delle analisi, nella sentenza di appello, poi confermata in Cassazione, si legge: «Oltre ad essere stati utilizzati kit diversi, pozzetti diversi, personale diverso, diluizioni diverse, sequenziatore diverso, è stato utilizzato per le analisi addirittura un diverso laboratorio. In definitiva, su 104 tracciati, in ben 71 è stata riscontrata la presenza del Dna e, quindi, del profilo genetico di un individuo di sesso maschile (…) gli altri 33 tracciati sono risultati illeggibili o non interpretabili». Di lì è partita una complicatissima indagine a ritroso, che ha portato a confrontare quel Dna sconosciuto con un amplissimo campione della popolazione maschile della zona, fino a individuare tra gli utenti di una discoteca che si trovava non lontano dalla località in cui è stato ritrovato il corpo della ragazzina, un profilo, diverso da Ignoto 1, che rimandava però alla linea maschile della stessa famiglia, tutta controllata senza arrivare a dare un nome a Ignoto1: per arrivare a lui è stato necessario formulare e poi confermare (cosa che poi è avvenuta) l’ipotesi che Ingnoto 1 fosse un figlio illegittimo e compiere la riesumazione del corpo di colui che è risultato padre naturale di Ignoto1 «con una percentuale del 99,99999987%». (Cassazione).
COSì SI è ARRIVATI DA IGNOTO 1 A BOSSETTI
Andando nei luoghi in cui il padre naturale aveva lavorato e vissuto, si è passati alla ricerca della madre, attraverso un’altra indagine a tappeto, fino a trovare la metà mancante, quella della linea materna, del profilo di Ignoto 1 con cui la donna, tra l’altro, condivideva un allele (ossia una variazione della sequenza genetica) molto raro di sicura origine materna. Solo a quel punto, grazie alla traccia lasciata sul boccale di un alcol test nel corso di un controllo apparentemente casuale, si è rintracciato il Dna di Massimo Bossetti e, confrontandolo, si è visto che corrispondeva a Ignoto1: «Una compatibilità», si legge nella sentenza di primo grado poi confermata nei successivi gradi di giudizio, «con ordine di grandezza di dieci alla meno ventisette, che significa che per avere un soggetto che possa avere lo stesso Dna di Ignoto 1 o dell’imputato sarebbe necessaria una popolazione mondiale di due miliardi di miliardi di miliardi di soggetti nella popolazione. Per cui da qui deriva l’unicità del profilo di Ignoto 1 confrontato con quello» di Massimo Bossetti. La corrispondenza tra il Dna di Ignoto1 e quello di Bossetti, secondo le sentenze non è mai stata messa in discussione né dalle difese, né dai loro consulenti.
OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO
Tutte le ipotesi di invalidità degli atti compiuti in corso di indagini, che ricorrono anche nella serie sono state poste e confutate in corso di processo, reggendo fino alla Cassazione, tra queste la validità dei rilievi eseguitI quando ancora non c’era un indagato con un nome, per i quali sarebbe stato impossibile convocare i difensori di colui che era ancora un signor nessuno: «È indubbio», scrivono i giudici d’Appello, la cui sentenza ha trovato conferma nella suprema Corte, «che quando sono state eseguite le indagini sul Dna, Bassetti non era indagato o in alcun modo sospettato (tanto è vero che nemmeno l’apparizione in televisione della foto del padre naturale, Guerinoni Giuseppe Benedetto, lo aveva in alcun modo insospettito in quanto egli non era a conoscenza di essere figlio del Guerinoni). Ciò comporta non soltanto l’utilizzabilità, sotto il profilo giuridico, degli accertamenti irripetibili, ma anche, in un certo senso, la maggior attendibilità dei risultati quanto alla loro obiettiva e serena acquisizione. Se è vero, infatti, che il difensore non ha potuto assistere a quegli accertamenti (in quanto, evidentemente, Bossetti, all’epoca di tali analisi non era ancora indagato), è anche vero che tutte quelle verifiche, amplificazioni e tipizzazioni, in quanto espletate quando Bossetti non era ancora sospettato, non sono state di certo eseguite con l’atteggiamento di chi vuole ricercare a tutti i costi elementi “contro” l’imputato».
TUTTI GLI ELEMENTI CONFUTATI NEI PROCESSI
Ogni contaminazione accidentale, secondo le sentenze, è confutata da più fattori: «Non vi è mai stato», scrive la Cassazione, «un trasferimento accidentale del DNA di B.M.G. sui reperti o sui campioni analizzati in quanto non precedentemente presente nel laboratorio dei RIS. L’ipotetico errore non ha trovato alcun logico riscontro, sicché è stato correttamente ritenuto una pura fantasiosa asserzione». Stesso aggettivo, “fantasiosa”, è utilizzato per definire tanto l’ipotesi di contaminazione volontaria da parte di terzi, quanto quella «della creazione in laboratorio del DNA dell’imputato», a proposito della quale si scrive: «oltre ad appartenere alla schiera delle idee fantasiose prive di qualsiasi supporto scientifico e aggancio con la realtà, è manifestamente illogica». Altrettanto il mancato utilizzo del Dna mitocondriale, in presenza di una traccia chiara di Dna nucleare, trova coerente spiegazione nelle sentenze di merito, sulla base della prassi utilizzata e riconosciuta a livello internazionale, confermata da diversi consulenti, compresi alcuni della difesa.
SU CHE COSA HA RETTO LA CONDANNA
A tenere in piedi l’accusa, senza tentennamenti nelle aule (a differenza di quello mediatico il processo reale è stato molto lineare, come lo sono del resto le sentenze, ad avere la pazienza di leggersele), non è stata soltanto la presenza di una prova diretta, ossia la traccia sul corpo della ragazzina del Dna di una persona che Yara non conosceva e non frequentava, in un punto – gli slip, in corrispondenza di un taglio e della ferita corrispondente – non compatibile con una contaminazione accidentale o casuale, che già da sola per la sua collocazione costituirebbe secondo quanto ricostruito dalla Cassazione in base alla giurisprudenza, prova non mero indizio. Ma anche e soprattutto la convergenza coerente di questo elemento forte con una serie di altri elementi indipendenti che hanno via via rafforzato e non indebolito l’ipotesi d’accusa.
UNA PROVA FORTE E TANTI INDIZI CONVERGENTI
Quando la traccia genetica ha rimandato a un uomo di sesso maschile con gli occhi chiari, mentre altre tracce sul corpo rimandavano a cantieri edili, questa ha portato non a un pescatore di Nairobi, o un professore universitario di Londra, ma a un muratore di un paese nel raggio di 3 Km. E intanto, altri elementi, hanno confermato che un furgone delle caratteristiche di quello dell’imputato si trovava nella zona della palestra quando la ragazza è scomparsa e che il cellulare di Bossetti agganciava una cella telefonica compatibile con gli orari e il luogo della scomparsa. Non solo, quella traccia rimandava a una persona che attraverso le intercettazioni ha finito per rivelare di non avere un alibi e di cui si è scoperto che conduceva ricerche online con interessi pedopornografici che potevano ricondurre a ragazzine come quella scomparsa. La sentenza della Cassazione, nel confutare, punto per punto gli elementi del ricorso della difesa, ha fatto a questo proposito molti riferimenti al dovere di «valutazione unitaria e globale dei dati raccolti», in relazione alla coerenza delle motivazioni delle sentenze di merito, che ha confermato respingendo il ricorso per vizio di illogicità nelle motivazioni.
BRENA E BREMBILLA, NESSUN ELEMENTO A LORO CARICO
Tra le cose che fanno discutere della serie non c’è soltanto una tesi che molti definiscono “innocentista” e quindi contrastante rispetto alla verità giudiziariamente accertata, e i difensori “attendibile”, ma c’è il riferimento a due persone, Silvia Brena, un’insegnante di ginnastica della palestra di Yara, e il custode Valter Brembilla, riguardo ai quali la serie adombrando generici sospetti dice «mai indagati». Le sentenze invece chiariscono che le loro posizioni sono state vagliate e che nessun elemento è emerso a loro carico: «La collocazione», si legge nella sentenza di Appello, che concorda con quella del primo grado, «della traccia e l’assidua frequentazione della Brena con Yara ( si vedevano regolarmente due o tre volte alla settimana, oltre alla gare domenicali; anche nel pomeriggio del fatto potevano essersi incontrate) privano di significatività il ritrovamento del Dna dell’istruttrice sulla manica del piumino (la traccia, su specifica domanda del difensore, è stata definita, quanto alla sua qualità e quantità, normale dal col. Lago). Inoltre, dopo l’accertamento genetico (sulla cui validità i difensori non hanno avanzato alcuna riserva, diversamente da quanto effettuato per Bossetti), Silvia Brena e i suoi familiari sono stati ripetutamente sentiti, intercettati e sottoposti a tampone salivare, senza che emergesse niente in grado cli fare anche semplicemente sospettare il loro coinvolgimento nell’omicidio». Anche il custode «Valter Brembilla è stato ripetutamente interrogato, perquisito e sottoposto a tampone salivare e sul pulmino cli proprietà del centro sportivo a lui in uso sono stati fatti i necessari rilievi, anche in questo caso senza che emergesse nulla a suo carico (…). Come si è già detto, ogni ulteriore approfondimento deve ritenersi non necessario ai fini della decisione». In un momento in cui si dà tanta importanza alla tutela di terzi nella cronaca giudiziaria una simile disinvoltura nell’adombrare sospetti a carico di persone risultate estranee, in contesti di intrattenimento dati in pasto a un pubblico generalista e digiuno degli atti processuali, qualche problema etico lo pone.
PROCESSO E SPETTACOLO DUE MONDI DIVERSI
Al pubblico va ricordato che mentre gli atti ricostruiscono i fatti e verificano le procedure secondo le regole e richiedono uno standard elevato per dare anni di prigione, in questo caso un ergastolo, nel processo mediatico vale tutto. Per dire, dagli atti del processo reale sono stati prudentemente esclusi elementi giocati, invece, in vario modo sui media: da una parte il giustamente criticato video montato a uso dei media dai Carabinieri è stato tenuto lontano dalle aule di giustizia nelle quali solo gli spezzoni originali e non il montaggio sono stati esaminati, mentre dall’altra parte alla madre di Bossetti, ancora in vita al tempo del processo di primo grado, è stato prudentemente e giustamente suggerito di avvalersi del diritto a non testimoniare in aula riconosciuto ai parenti stretti, ma non altrettanto di evitare di andare a fare dichiarazioni “spericolate” in Tv, che hanno forse suggestionato il pubblico ma che le hanno portato anche una querela da parte dei familiari di un medico, non più in vita, chiamato in causa per un’accusa destituita palesemente di fondamento, perché incompatibile con circostanze storiche ed evidenze scientifiche. Due dettagli e nulla più, che però marcano la distanza tra l’aleatorietà del processo mediatico e la solidità di quello vero.
Fonte: Elisa Chiari | FamigliaCristina.it