Il recente incontro con papa Francesco sulla fraternità umana, il dialogo tra un nonno e nipote nell’ultimo libro “Tra il silenzio e il tuono” (Einaudi), la fede, la morte del figlio Arrigo e la reazione della moglie Daria, l’aldilà.
Il cantautore si racconta tra carriera e vita privata: «Non siamo meteore nell’universo. C’è un disegno dal quale attingiamo la forza di vincere anche il dolore»
Roberto Vecchioni è un artista della parola. Cantata, scritta, meditata. Ha insegnato Latino e Greco dal 1969 al 2004 in vari licei classici lombardi. In carriera, a 80 anni suonati, sta vivendo una nuova giovinezza.
Il 10 maggio è stato da papa Francesco insieme a diversi artisti, Premi Nobel e scienziati per il Meeting mondiale sulla fraternità umana organizzato dalla Fondazione vaticana “Fratelli tutti”.
Il 17 luglio Il brano Sogna, ragazzo, sogna, che ha interpretato duettando con il giovane rapper genovese Alfa all’ultimo Festival di Sanremo, ha ottenuto il Disco d’oro.
Ha scritto una quindicina di libri tra raccolte di racconti, antologie di versi, saggi e romanzi. L’ultimo, Tra il silenzio e il tuono (Einaudi), è un epistolario particolare dove un ragazzo scrive diverse lettere a un nonno il quale, però, non risponde mai.
Vecchioni, perché questo silenzio?
«È l’originalità del libro. Uno che risponde è normalissimo e tutti gli epistolari sono un dialogo. Io mi sono sdoppiato perché questo è un mio sentimento da sempre. Da un lato, sento la forza dell’andare, dell’avventura, del rischio, del lottare, del divenire, per dirla con Eraclito; dall’altro, la forza dell’essere platonico, cioè di stare fermo, di pensare, di non muovermi fisicamente ma dentro la mia memoria e la mia testa. Questo sdoppiamento crea dei guai. Sul palco, per esempio, sono molto espressivo, estroverso, dico tutto. Nella vita normale cambio completamente, divento abitudinario, non ho quel guizzo che ha l’artista sul palco». Due vite che s’intrecciano e duellano. «Non a caso le lettere sono di due tipi. C’è il racconto della vita fisica così come avviene, scritta alla Verga, senza salta pindarici. E poi c’è l’altra vita: quella della riflessione, scritta con la coscienza di me stesso che naturalmente non risponde perché sa le cose che gli sono accadute. A volte m’inerpico per strade stranissime, altre invece scrivo cose farsesche, parlo di Schubert e del Codice della strada».
Lei che nonno è?
«Innamoratissimo di tutte e quattro le mie nipoti: Nina, Cloe, Amelia e Adelaide. Quando sono con loro mi sento molto più giovane, sveglio e attivo. Sento che c’è una trasmissione di qualcosa che è poi quello su cui si basa l’esistenza umana. Io non sono capace di insegnargli come si cucina o si va in bicicletta, però trasmetto loro come si fa a sognare, a capire quello che è avvenuto e, soprattutto, come si fa a tentare di distinguere il bene dal male. Spero che anche loro, quando sarà, le possano trasmettere ai loro figli perché senza questo passaggio di testimone il mondo finisce».
Come li vede i ragazzi di oggi: fragili o solo incompresi?
«Entrambe le cose. Si va dai trapper confusi e arrabbiati con il mondo a quelli che sanno adoperare le parole per denunciare la mancanza che sentono e il bisogno di un mondo diverso. Ci sono coloro che raccontano storie d’amore che a volte non mi prendono tanto perché io sono un uomo del Novecento, all’antica e per me, come diceva Euripide, non si ama veramente se non si ama per sempre e io l’amore lo sento così. Vedo ragazzi che si toccano, si annusano però a volte si perdono il sentimento. Hanno coscienza del corpo ma non del momento spirituale dell’amore. Altri hanno un’incertezza generazionale perché fondamentalmente non riescono a capire tutte le stupidaggini che fanno i loro padri e nonni».
Non era così anche in passato?
«Sì, l’età ha sempre determinato la potenza delle speranze. Fino a 25 anni vedi il mondo che ti sta intorno come brutto e orribile e ne immagini uno molto meglio. Dai 30 ti adatti alla realtà, che è un passaggio obbligato, e quindi su molte cose scendi a compromessi. Poi ci sono i ragazzi più spirituali, che hanno capito il mondo e compreso che la vita è un momento transitorio che deve essere amato e utilizzato bene perché non siamo una meteora nell’universo ma c’è un disegno che va oltre e quindi hanno la forza di superare anche il dolore, la rabbia, di prolungare la speranza fino a 60 anni».Sanremo (Ansa)
Che significa la parola fraternità attorno alla quale lei e altri artisti siete stati convocati da papa Francesco?
«È il fondamento per cui sono stati creati gli uomini. Oggi il senso della fraternità è inversamente proporzionale al senso del sopravvivere. Il problema è che se devo scegliere tra me e l’altro, scelgo me. Purtroppo la vita di oggi ci obbliga ad avere involontari nemici. Il conflitto ci porta a rinunciare a certe analisi e costruzioni più larghe, a capire il bello, l’arte, l’armonia della musica o della poesia. Tutte cose che si devono capire poco alla volta e dedicandoci del tempo e se questo manca perdi il fondamento della tua esistenza che è il caricarti di emozioni che ti salvano la vita».
L’ha sorpresa l’invito del Papa?
«Moltissimo. Non so come gli sia venuto in mente di chiamare me (ride, ndr). È una delle cose più belle che mi sia mai capitata nella vita non solo per l’opportunità di dire qualcosa sulla fratellanza ma anche perché parlare davanti al Pontefice è come farlo davanti a tutta l’umanità messa insieme».
A novembre aveva partecipato nella Basilica di San Pietro a un incontro con il cardinale Ravasi.
«Un mio caro amico al quale, nel libro, ho anche scritto una lettera. Tutte le volte che vado in Vaticano è un’emozione particolare perché sembra un altro paese, anzi sembra un paese fuori del Paese, un mondo che sta sulle nuvole, ma sa benissimo le cose che accadono sotto le nuvole».
C’è un momento esatto in cui ha iniziato a credere in Dio?
«È stato un lungo cammino. Da giovane, pur avendo frequentato scuole cattoliche, sentivo la fede come una sorta di oppressione della mia libertà. Poi è cambiato tutto, mi sono confrontato con gli altri, credenti e no, intellettuali, artisti, pensatori, e ho capito che non ci si può accontentare di quello che si vede, si tocca e si sente, ho capito che non veniamo creati per buttare una vita svegliandoci la mattina, andare a lavorare e tornare a casa la sera per dormire. È un assurdo esistenziale. Quindi per forza deve esserci qualcos’altro, o Qualcuno, per cui facciamo tutto questo».
Cosa?
«Chi ha molta più fede di me è convinto che ognuno di noi abbia una piccola missione da compiere per conto di Dio».
La sua qual è?
«Poter dare alla gente speranza, pace e anche emozioni. E aiutarla a riflettere».
Nel libro scrive anche una lettera A Staino dicendogli: “Quando sarai davanti a Dio, cantagli Luci a San Siro come sai fare tu e vedrai che capirà”. Perché proprio questa canzone?
«Perché è la prima canzone dell’anima che ho scritto e perché è l’unica che lui sapeva cantare, mettendoci tutta la forza. Luci a San Siro è la canzone della miseria dell’uomo, di chi si lascia prendere dai compromessi e perde l’amore, cioè la cosa più brutte che possa capitare. Non è una canzone facile, tutti la prendono solo come il ricordo di un amore perduto ma è soprattutto il racconto di chi va avanti nella vita e perde sempre più sé stesso. Un incubo».
In un’intervista ha detto che gli errori che facciamo sono sempre sugli affetti, mai sulle cose. Che significa?
«In passato non pensavo agli altri ma solo a me stesso, atteggiamento comune a molti artisti. Se dovevo scegliere tra l’andare a un concerto o stare vicino a mia moglie che aveva la febbre, sceglievo di andare al concerto e questo avveniva anche per i miei figli e non posso dire che li abbia tirati su io. Mia moglie, che è una donna eccezionale, ha fatto molto più di me. Non avevo il senso di colpa, mi è venuto strada facendo, un poco alla volta. Lo ammetto, soffrivo di egocentrismo, avevo bisogno di essere applaudito per avere un po’ di serenità. Ho trascurato tanti amici per la carriera. Ho quasi sempre vissuto per me stesso, poi tutto questo per fortuna s’è incrinato».
Come avete affrontate la morte di vostro figlio Arrigo (scomparso tragicamente nell’aprile 2023, ndr)?
«Per mia moglie è come la prima sera, quando abbiamo ricevuto la telefonata. È come se il tempo si fosse fermato. Non è cambiata, è deperita fisicamente, le è venuto anche un problema al cuore che sta curando. Vive in una nebbia nel senso che, se potesse, piangerebbe sempre per sfogarsi. Non ha più voglia di parlare, si è chiusa in sé stessa. Ha intorno a lei un affetto immenso dei figli, dei nipoti, degli amici, ma non basta perché questo è un dialogo tra lei e suo figlio nel quale io, anche volendo, non posso entrare. Perché una madre è divisa a metà tre se stessa e il figlio che ha generato».
E lei come ha reagito?
«Io sono “solo”, diciamo così, un uomo disperato ma non ho quella tristezza esistenziale che ha afferrato mia moglie. E a volte, come un bagliore improvviso, intuisco il perché sia accaduto». Che risposta si è dato? «Arrigo non poteva andare avanti più così, è come se il Signore gli avesse detto: “Dai, basta, vieni qui con me, non puoi più vivere in questa maniera”. Nell’ultimo periodo stava malissimo. È stato un ragazzo coraggioso, le ha provate tutte per uscire dalla situazione dolorosa alla quale lo inchiodava la malattia. Ha tentato mille lavori, anche i più umili, si scriveva le cose da fare ma non ci riusciva. Tentava di sorridere, di andare via col pensiero, non so, pensando al calcio o alla poesia, perché era un grande poeta, scriveva versi bellissimi ma alla prova della realtà, della materialità non resisteva e questo l’ha portato a decidere dopo diciassette anni che non poteva più stare col mondo».
Petrarca scriveva che “cantando il duol si disacerba”, il “dolore si fa meno amaro”. Il suo mestiere la aiuta a superare questo dolore?
«Sono un privilegiato perché cantare in pubblico mi aiuta a buttare fuori tutte le scorie, le delusioni, il bene e il male, è come una confessione laica che alla fine mi dà la strana sensazione di essermi liberato da una zavorra e mi fa sentire più libero e leggero. Avere la possibilità di condividere con il pubblico le canzoni scritte e cantate da me significa non solo guardarti in faccia e specchiarti nel dolore e nella gioia che hai avuto ma anche sentire che molte persone attraversano le stesse esperienze. Qui c’è il senso fortissimo della fratellanza perché siamo resi fratelli da questi sentimenti, non perché abbiamo la stessa macchina o prendiamo lo stesso treno. Perché, magari, ci emozioniamo davanti a una testa di Michelangelo o a un quadro di Van Gogh. Ci sarà un motivo se noi davanti a un’opera d’arte restiamo lì ipnotizzati ad ammirarla invece di andarcene via subito. Se il mondo fosse tutta materia anche quell’opera sarebbe solo materia e invece noi intuiamo che lì dentro c’è qualcosa di più alto».
Come immagina l’aldilà?
«Non è un luogo ma un altro modo di sentire il mondo. Probabilmente è un’esistenza ferma in cui tutto è in uno stato di quiete che paradossalmente provoca una frenesia di felicità che non si potrebbe ottenere in nessun’altro modo. Più o meno come una droga potentissima che, però, non fa nessun male».
Fonte: Antonio Sanfrancesco | FamigliaCristiana.it