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Digichiacchiere. Mitologie e filosofie dell’universo digitale

«La semplice verità – ha scritto Tom Wolfe – è che Internet fa una sola cosa. Accelera il reperimento e la diffusione delle informazioni, eliminando parzialmente faccende come andare alla cassetta della posta o alla libreria per adulti, o dover prendere il telefono per contattare il proprio agente di cambio o alcuni amici con cui chiacchierare. Internet fa questa cosa, e solo questa. Tutto il resto sono digichiacchiere». Wolfe fa queste osservazioni ne La bestia umana (2000), una raccolta di saggi in cui racconta, fra l’altro, l’avventura degli imprenditori di Silicon Valley, che crearono il mondo dei computer e di Internet. Lo scrittore statunitense mostra che l’universo digitale fu anticipato da alcuni miti di origine religiosa e, più precisamente, cattolica. Infatti, qualche decennio prima dell’invenzione di Internet, Pierre Teilhard de Chardin, paleontologo darwinista e prete gesuita in odore di eresia, scrisse un trattato «con cui sperava di unificare tutta la scienza e tutta la religione, tutta la materia e tutto lo spirito, annunciando il piano di Dio di trasformare tutto il mondo, dalle rocce inerti all’umanità, in un unico sublime Spirito Santo». La «convergenza» di materia e spirito, ipotizzata da Teilhard, cominciava con l’evoluzione biologica e trovava il suo compimento con la tecnologia, grazie alla quale la specie Homo sapiens veniva unita da un’unica «stupenda macchina pensante», una coscienza unificata che avrebbe ricoperto la terra come «una pelle pensante» o, per usare il termine preferito da Teilhard, come una «noosfera».

All’inizio degli anni Cinquanta, Teilhard profetizzò che la noosfera si sarebbe realizzata mediante la combinazione di radio, televisione, telefono e computer. «Si può pensare quello che si vuole – osserva Wolfe – sulla teologia di Teilhard, ma nessuno può negare la sua straordinaria preveggenza. Quando morì, nel 1955, la televisione era agli albori e non esisteva un computer che si potesse comprare già pronto. […] Poiché il microchip e il microprocessore non erano ancora stati inventati, nessuno poteva speculare sulla possibilità di un personal computer in ogni casa, tanto meno sulla combinazione del personal computer con il telefono per creare un mezzo di comunicazione completamente nuovo. Solo Teilhard prevedeva ciò che oggi chiamiamo Internet.» Le visioni di Teilhard sulla noosfera sarebbero rimaste sepolte nelle biblioteche se non avessero entusiasmato un altro ardente studioso cattolico, il canadese Marshall McLuhan, che trasmise il messaggio di Teilhard «a tutto il mondo intellettuale e diede all’Universo Digitale il suo primo e più memorabile nome: “il villaggio globale”».

Le visioni di Teilhard e McLuhan hanno ispirato lo sviluppo del Web, ma hanno anche alimentato le digichiacchiere dei corifei del cyberspazio. Questi ignorano che il loro leitmotiv sulla contrazione del mondo operata dal Web non è altro che la riedizione di un ritornello vecchio di due secoli. Infatti, l’idea che la tecnologia contrae il mondo risale al 1830, quando la prima corsa della locomotiva ferroviaria convinse la gente che il mondo si stava rimpicciolendo e che le popolazioni un tempo distanti si stavano avvicinando, anche spiritualmente. In seguito, il ritornello fece da colonna sonora a molte altre invenzioni, come il telefono, il cavo transoceanico, il telegrafo, la radio, l’automobile, l’aereo, la televisione e il fax. Wolfe si fa beffe dell’ingenua speranza che questi sviluppi tecnologici siano destinati a favorire il progresso morale dell’umanità. «Se queste invenzioni […] hanno migliorato la mente umana, o ridotto lo zelo della bestia umana nell’allearsi con i suoi fratelli di sangue contro altre bestie umane, ciò è sfuggito alla mia attenzione. […] Che effetti hanno avuto sulla mente umana gli straordinari progressi della tecnologia delle comunicazioni? […] Credi, se vuoi, che i computer e Internet in classe cambieranno tutto questo, ma ti assicuro che sono solo digichiacchiere.»

Il Web non ha attratto solo gli amanti delle digichiacchiere, ma anche gli studiosi di scienze umane e i filosofi, che hanno dato vita a diverse nuove discipline, dalla filosofia dell’informazione all’etica digitale. Nell’articolo d’apertura di questo numero di “Lisander”, Adriano Fabris si occupa degli ambienti digitali – cioè degli ambienti tecnologici ai quali accediamo mediante lo smartphone, il computer e le altre tecnologie della comunicazione –, auspicando lo sviluppo di un’ecologia degli ambienti digitali. Questa nuova disciplina non dovrebbe occuparsi solo della descrizione scientifica di come gli esseri umani abitano gli ambienti digitali, ma anche, e soprattutto, dei problemi normativi relativi a come dovrebbero abitarli. Fabris distingue tra etica nell’ambiente digitale ed etica dell’ambiente digitale. La prima dovrebbe fornire regole di buon comportamento per coloro che abitano un determinato ambiente digitale, la seconda dovrebbe formulare adeguati criteri per la creazione di ambienti digitali.

Qualcuno ha detto che l’inferno è molto simile a un’assemblea condominiale di durata infinita. A me pare che assomigli anche a una chat condominiale oppure a una chat delle mamme degli alunni di una classe delle medie. Infatti, gli ambienti digitali non sono eticamente diversi dai corrispondenti ambienti fisici. Le consuete regole etiche che valgono nei secondi valgono, presumibilmente, anche nei primi. Si può quindi ritenere che l’etica nell’ambiente digitale non sia altro che un frammento dell’etica quotidiana.

Al contrario, l’etica degli ambienti digitali, solo sfiorata da Fabris, pone problemi nuovi e interessanti. Poiché nella formulazione di direttive e leggi volte a disciplinare la creazione e l’uso di ambienti digitali sono coinvolti svariati organismi politici, ci sembra appropriato parlare di politica – e non semplicemente di etica –, degli ambienti digitali. Il focus dei documenti sulla politica degli ambienti digitali pubblicati da organizzazioni nazionali e internazionali è costituito, in genere, dai diritti degli utenti. Per esempio, nelle linee guida emanate dal Consiglio d’Europa «per rispettare, proteggere e realizzare i diritti dei minorenni nell’ambiente digitale» si afferma: «Tutti i ragazzi dovrebbero avere la possibilità di accedere all’ambiente digitale. L’accesso dovrebbe essere a basso costo (se possibile, gratuito negli spazi pubblici). […] Le autorità pubbliche dovrebbero assicurarsi che tu abbia facilmente accesso a informazioni corrette e di qualità. Le scuole dovrebbero avere la tecnologia digitale di cui hai bisogno.» L’enfasi è sui diritti dei minori e quindi, sia pure indirettamente, anche su quelli dei loro genitori.

Vediamo qui dispiegarsi il tipico linguaggio di quel «liberalismo dei diritti» criticato dal filosofo politico Anthony de Jasay, in Scelta, contratto, consenso (2008). Secondo De Jasay, le teorie del liberalismo dei diritti, oggi molto in voga, non possono essere propriamente considerate teorie liberali, poiché non indicano alcuna «relazione sostanziale con l’obiettivo di assicurare e promuovere la libertà». La fragilità teorica e la pericolosità pratica del liberalismo dei diritti dipendono dall’ignorare, o non tenere nel debito conto, i costi e gli obblighi connessi all’attuazione di qualsiasi diritto. «Ogni diritto significativo, cioè ogni diritto che comporti conseguenze pratiche potenzialmente utili, implica relazioni tra due persone […]: il titolare del diritto e qualcun altro. Il beneficio che il diritto assicura al suo detentore ha, come immagine speculare, l’obbligo di almeno un’altra persona di compiere le azioni che conferiscono quel beneficio. Creare diritti significa creare obblighi che devono essere assolti».

Temo che la filosofia politica del Web, sviluppata quasi sempre nel solco del liberalismo dei diritti, rischi di condurci nel paese delle favole, alimentando nuove e perniciose forme di digichiacchiere.

Fonte Roberto Festa | Lisander.com

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