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L’Italia che ha illuminato il mondo sparirà?

Pensieri di una sera d’estate, passando dalle rovine di luna (lunigiana), ricordando versi di dante e leopardi, guardando le apuane da cui viene il marmo del mose’ e della pieta’ di michelangelo

Di recente sono stato a Pontremoli a presentare il mio libro sulla Toscana, nella bella piazza di quella cittadina della Val di Magra.

Per arrivarci sono passato vicino a Luni che dà il nome alla Lunigiana, la terra che è fra il mare e quelle Alpi Apuane in cui Michelangelo trovava il marmo per capolavori come il Mosè e la Pietà vaticana (coltivò addirittura il sogno di scolpire una di quelle montagne perché il colosso si vedesse dal mare). Mille suggestioni vengono in mente percorrendo la nostra terra.

Pietro Calamandrei scrisse: Voi lo sapete: in Italia e specialmente in Toscana, ogni borgo, ogni svolto di strada, ogni collina, ha un volto come quello di una persona viva: non vi è curva di poggi o campanile di pieve che non si affacci nel nostro cuore col nome di un poeta o di un pittore, col ricordo di un evento storico che conta per noi quanto le gioie o i lutti della nostra famiglia. Non si tratta di letteratura, si tratta di vita”.

In Italia i millenni si accalcano e mormorano storie affascinanti. Luni – col suggestivo nome di Luna – fu un’antica città romana fondata nel II secolo a.C. alla foce del Magra. Secondo una leggenda i Vichinghi, nel IX secolo d.C., volendo andare a saccheggiare Roma, che sapevano ricchissima, arrivati a Luna, che videro così bella, la scambiarono per Roma saccheggiandola per errore.

Tante storie (anche molto romantiche) sono legate a Luna di cui oggi restano solo le rovine dell’anfiteatro. Deve averle viste anche Dante che era passato da qui nel 1306, dopo essere stato esiliato, per avere l’ospitalità dei Malaspina.

Nel XVI canto del Paradiso infatti scrive:

Sempre la confusion de le persone/ principio fu del mal de la cittade (…)/ Se tu riguardi Luni e Orbisaglia/ come sono ite e come se ne vanno/ di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/ udir come le schiatte si disfanno,/ non ti parrà nuova cosa né forte,/ poscia che le cittadi termine hanno./ Le vostre cose tutte hanno lor morte,/ sì come voi(vv. 67-68 e 73-80).

In sintesi: la mescolanza delle genti ha sempre prodotto il male delle città. Guarda come sono cadute in rovina le città di Luni e Orbisaglia e come vanno dietro a loro Chiusi e Senigaglia. Come sono finite le antiche città del passato, così è per le stirpi. Tutte le cose umane si dissolvono, come gli uomini che sono tutti mortali.

C’è già, in questi versi, il Leopardi della Sera del dì di festa:

E fieramente mi si stringe il core,/ A pensar come tutto al mondo passa,/ E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito/ Il dì festivo, ed al festivo il giorno/ Volgar succede, e se ne porta il tempo/ Ogni umano accidente. Or dov’è il suono/ Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido/De’ nostri avi famosi, e il grande impero/ Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio/ Che n’andò per la terra e l’oceano?”

E’ saggio avere la consapevolezza della propria mortalità e della fine delle cose umane, ma anche aver cura della propria vita e della propria patria. Come gli uomini anche le civiltà possono morire in modo non naturale perché sconfitte o distrutte.

Dante e Leopardi (con Petrarca) ci hanno esortato, nelle loro opere, ad amare la nostra bellissima Italia sempre in pericolo, aggredita, invasa, umiliata.

È inaccettabile il disamore per se stessi, per i propri padri e per la civiltà di cui si è figli. Soprattutto se si tratta di una civiltà che ha illuminato il mondo e che – pur con i suoi errori – ha donato all’umanità quanto c’è di più bello, di più vero e di più buono.

Nel suo Viaggio in Italia, Guido Ceronetti ha delle pagine struggenti in cui “pensando alla bellezza italiana sparita o sparente” ammette di “ruggire di dolore… C’è qualcosa d’immorale nel non voler soffrire per la perdita della bellezza, per la patria rotolante verso chi sa quale sordido inferno di dissoluzione, non più capace di essere lume nel mondo”.

Ceronetti scriveva nei primi anni Ottanta del secolo scorso, quando la civiltà incarnata dalla bellezza italiana era minacciata solo dall’incuria degli uomini, dal disamore per la propria storia e dal tempo che stritola e polverizza tutto.

Oggi l’Europa è terremotata da fenomeni (non affrontati dalla UE) come il crollo demografico, la decadenza economica e politica o le migrazioni di massa che molti esaltano come un bel futuro, ma eludendo gli enormi problemi che ci spalancano davanti.

Samuel Huntington nello Scontro delle civiltà scrive: “La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura”.

Perché gli esseri umani non sono merci, sono portatori di culture, di storia, di valori e costumi propri, e trapiantare popoli fra altri popoli non è come esportare auto o spostare capitali, è traumatico e conflittuale.

C’è poi il fenomeno woke, un’ideologia dell’auto-cancellazione ormai dominante nelle élite occidentali, un tempo marxiste. È un nichilismocon declinazioni estremiste o moderate, quelle che oggi portano qualche giornale a titolare: “l’identità italiana non esiste”.

Invece esiste da secoli: è il dono per l’umanità che siamo chiamati a custodire. Amo ricordare sempre un’altra pagina di Ceronetti: “Finché esisteranno frantumi di bellezza, qualcosa si potrà ancora capire del mondo. Via via che spariscono, la mente perde capacità di afferrare e di dominare. Questo grande rottame naufrago col vecchio nome di Italia è ancora, per la sua bellezza residua, un non pallido aiuto alla pensabilità del mondo”.

Fonte: AntonioSocci.com

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