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Enrico Ruggeri: «Sono un Geppetto che grida il dolore»

Il cantautore, romanziere e critico, tra gli ospiti del Meeting di Rimini, racconta su “Tracce” di luglio-agosto oltre 40 anni di carriera. Contro la dittatura culturale e sempre alla ricerca di un senso per la vita.

«Non esiste un terreno comune della gioia come esiste del dolore. Niente ti assicura che la felicità di un altro somigli alla tua. Ma sulla natura collettiva della sofferenza non possono esserci dubbi».
È scritto a pagina 380 del romanzo Il passeggero di Cormac McCarthy pubblicato da Einaudi. Qualche riga più avanti c’è il titolo dell’edizione 2024 del Meeting di Rimini: «Se non siamo alla ricerca dell’essenza, ’sere, allora cosa cerchiamo?». Quel dolore collettivo e la ricerca di senso riguardano la musica: dal brano di poco impegno all’opera eseguita a grande orchestra, la musica evoca la croce più pesante mai costruita e la speranza di vincerla. L’autrice americana Darcey Steinke così la definì: «La musica è un movimento, un divenire, una fetta di eternità conficcata nel tempo normale per dilatare ed esplodere la nostra fissità». La Steinke chiarisce in Stranger Than Kindness come la teologia di san Tommaso d’Aquino e la prospettiva religiosa di William Faulkner, le cadute e l’impoverimento dell’anima, siano state introdotte nelle canzoni di Nick Cave. Un intreccio tra musica, religione e cultura letteraria che in Italia trova il punto di sintesi in Enrico Ruggeri. Romanziere e critico letterario, protagonista del cantautorato italiano, Ruggeri sarà ospite al prossimo Meeting per raccontare la sua ascesi cristiana e gli agganci tra le canzoni e la letteratura classica e contemporanea. Ha pubblicato di recente l’autobiografia 40 vite (senza fermarmi mai) in cui ripercorre la sua lunga carriera artistica. Con i Decibel, il suo primo gruppo, portò il punk in Italia prima degli altri ispirandosi agli Sparks, una band seminale che orientò Ruggeri e artisti del calibro dei Depeche Mode, Franz Ferdinand e Devo. Capace di stili musicali originali e cangianti, con un linguaggio caustico simile a John Fante, essenziale come Georges Simenon, Ruggeri ha ribaltato concetti di etica e di colpa, indagato sul Mistero, anatomizzato l’orfanezza e la finitudine. Al telefono si mostra disponibile, timido, con quella modestia rintracciabile solo nei grandi artisti.

Nella biografia, oltre ai successi, scrive di amicizie finite, della fatica del musicista e di flop discografici. Una comunicazione piuttosto ardimentosa. Non teme l’impopolarità?
Se scrivi un libro, non puoi incensarti e basta. Ho raccontato quello che è successo e mi piaceva ricordare che una volta si facevano i dischi in un’altra maniera. Sono stato quaranta volte in sala d’incisione. Facciamo due mesi di media, vuol dire ottanta mesi della mia vita passati in studio di registrazione in comunione con persone, vivendoci assieme, cercando di arrivare al risultato migliore possibile. Uno scriveva la canzone e ci si lavorava in sette musicisti. Oggi sette autori scrivono la canzone e vanno in studio l’artista e il produttore, basta un computer e viene fuori il pezzo. È un libro scritto per i miei estimatori, che troveranno cose piacevoli da leggere, e per una generazione che non sa con quanto amore è stata prodotta la mia musica.

C’è il giudizio finale dell’esame di Stato nella copertina interna dell’album La rivoluzione. Lei ha frequentato il Liceo Berchet, la scuola in cui don Luigi Giussani insegnò e dove iniziò il movimento di CL.
Al liceo diversi studenti erano di Comunione e Liberazione. Conosco poco don Giussani, ma lo sentivo vivo nei racconti dei miei compagni di scuola che lo seguivano. In quel liceo fui giudicato incapace di esprimermi, studente dalla personalità modesta e dal lessico povero. Non ero uno studente allineato, il Berchet di Milano era una scuola particolare. Faccio degli esempi: in filosofia si studiava fino a Kant. Venivano saltati Nietzsche, Schopenhauer e si passava in terza liceo a Karl Marx, in Lettere arrivavi dopo Manzoni, passando da Pascoli. Studiavi il Verga che parlava del proletariato per ignorare poi il futurismo. Ti facevano odiare D’Annunzio e studiare le lettere di Antonio Gramsci. Ero sofferente verso questo tipo di dittatura culturale e forse questo status non giovò al mio giudizio.

Ombra e luce dice di quanto sia consolatorio, nel disagio, guardare il cielo. In che modo un artista presta attenzione all’infinito in sé stesso e negli altri?
È una cosa che aumenta con gli anni. Normalmente cominci scrivendo da adolescente le tue tensioni, le rabbie e poi piano piano vai avanti a scrivere di argomenti che ti appassionano. Ho trattato di pena di morte, guerra, droga, omosessualità. La cosa più difficile e bella da affrontare è la morte. Nell’album Alma ho scritto Forma 21 dedicata a Lou Reed. Racconta quell’attimo di stupore che sorprende il morente e lo introduce nell’eternità.

Lou Reed ebbe vicino la moglie Laurie Anderson fino all’ultimo istante. In brani come Vorrei e L’ultima donna lei teme di dover affrontare la fine senza avere nessuno accanto.
La morte è un tabù, invece la considero un motore che muove tutto. Mettiamo i cimiteri in periferia come se non volessimo ricordare la morte, eppure a mio avviso è un forte propulsore. Facciamo cose per lasciare un segno del nostro passaggio, soprattutto noi artisti. Se fossimo immortali, saremmo molto più sciatti nel vivere, perché potremmo posticipare tutto all’infinito, ma il tempo è limitato. Non sai qual è lo spartiacque quando morirai, la linea che ti separa dalla vita ti spinge a lasciare una traccia. Nella canzone L’ultima donna canto della persona più importante nella vita di un uomo. È l’ultima, quella che ti starà accanto nel momento del passaggio.

I suoi riferimenti classici sono l’Eneide di Virgilio e l’Odissea di Omero, mentre la passione per la letteratura ottocentesca viene esplicitata in un disco “concettuale” dedicato a Frankenstein.
Mary Shelley lo scrisse a 19 anni, pubblicando qualcosa che va al di là di quello che voleva fare. Lo leggi a 15 anni e ti commuovi per la storia, lo leggi a 50 e 60 anni e ci trovi un mare infinito di cose. Intanto c’è l’ambizione, il dottor Frankenstein era avido. Nel disco c’è una preghiera pagana al “Dio” dell’immagine per rendere l’uomo eterno. C’è lo scontro tra scienza ed etica, ci sono tutte le nostre paure, oggi ancor più attuali che nel 1816 quando il racconto fu scritto. Abbiamo paura d’invecchiare, di deteriorarci. Facciamo qualsiasi cosa pur di non scomparire.

Canzoni come Il mare d’inverno e Il portiere di notte sono odi alla lingua italiana. George Orwell in 1984 scrive di parole distrutte a decine e decine, a centinaia, tutti i giorni. La musica pop e la trap stanno riducendo la lingua all’osso, è così?
Oggi le canzoni vengono scritte da persone che non leggono e quindi hanno un lessico misero, stringato e i risultati sono questi: i cantanti non sono in grado di scavare a fondo, non hanno gli strumenti per farlo. Un problema senza soluzione. Internet ha fatto sì che un ragazzo sia costretto a piacere al primo colpo, mentre io vengo da una generazione in cui ti facevano i contratti per cinque album. Voleva dire che avevi davanti del tempo per crescere e crearti un tuo pubblico con pazienza, pur facendo delle cose che non potevano piacere immediatamente. Basta guardare agli artisti che durano da 40 anni. Cantanti che ci piacciano, vivi o morti, da Gaber a De André, a Guccini, a Vasco Rossi, non hanno subito sfondato. Potevano permettersi di andare avanti per la propria strada fino a che il pubblico non li avrebbe capiti. Nelle condizioni attuali, i ragazzi, già poveri spiritualmente e che bramano la rivalsa sociale, non potranno mai scrivere una canzone che duri nel tempo.

Da Polvere al brano La medesima canzone fino alla dolorosa La preghiera del matto tratteggia il legame con il padre morto di depressione. Cita Geppetto di Collodi cantando la separazione dal suo bambino e non smette di sentirsi figlio di un genitore assente.
La storia con papà è l’evento che più ha segnato la mia vita, l’ho anche scritto nel libro. Non ho avuto figure maschili nella mia infanzia. Circondato dall’amore di mia madre, senza fratelli né cugini, le zie riversavano su di me la loro mancata maternità. Questo mi ha segnato anche professionalmente, ostinandomi a mantenere rapporti ormai poco produttivi. Per me l’amicizia era più importante della professione di musicista. A me piacciono le metafore e la storia di Pinocchio e di Geppetto è meravigliosa. Quest’uomo non ha una compagna, è da solo, ma sente il desiderio di paternità che è abbastanza fuori moda. Geppetto non ha nessuna prospettiva e costruisce il burattino per dare affetto. E Geppetto rimase di nuovo solo era un grido di dolore. Mi ero appena separato, avevo un figlio di quelli che devi vedere solo nei weekend, ogni due settimane, cose terribili. Tutto il mio dispiacere è finito in quella canzone.

Il brano anarchico Paparock e l’ironica La mia religione documentano il suo scetticismo, mentre brani come Padre Nostro e L’anticristo accorciano le distanze da Dio. La ricerca di senso continua?
L’esperienza religiosa cresce in relazione al mondo che ci circonda. Lo spirito punk in Paparock nasce in un periodo di rottura verso tutto ciò che c’era prima. Poi c’è la debolezza tutta terrena di riscriversi la propria religione. Oggi molti cattolici credono in Dio, ma non vanno a Messa né si confessano. Facile dire “io credo ma non pratico” e costruirsi la propria religione per egoismo e pigrizia. La mia religione è un po’ questo. La canzone Padre nostro è un atto di fede, è dire: “Credo in te”. Il brano L’anticristo è molto sperimentale. L’ho scritta pensando a un gruppo di potenti che prospettano delle soluzioni all’uomo, mostrandogli delle false luci. Viviamo in un mondo ingannevole strutturato sull’infelicità. Hai un vuoto interiore e provi a riempirlo spendendo soldi compulsivamente. Nel 1987 vinsi il mio primo festival di Sanremo con Si può dare di più insieme a Gianni Morandi e Umberto Tozzi. La casa discografica, in cassa integrazione, riaprì le attività. Decisi di fare un tour che sarebbe andato in pari, togliendomi la soddisfazione di cantare e suonare con un’orchestra filarmonica una quarantina di sere.

Ha rinunciato a cospicui guadagni per suonare con un’orchestra?
Non sarei stato felice così come lo sono adesso facendo cultura.

Fonte: Massimo Granieri | Clonline.org

* Sacerdote e insegnante, critico musicale de L’Osservatore Romano

 

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