Lo diciamo durante la Messa, all’atto penitenziale: è stata colpa mia, mia grandissima colpa. Si tratta di una presa d’atto importante che se da un lato denuncia come tante volte un fallimento sia frutto di un comportamento sbagliato del singolo, dall’altro evidenzia che quell’errore, quel peccato ha una dimensione sociale. Gli sbagli che commettiamo finiscono per penalizzare l’intera comunità di cui facciamo parte. Ciononostante, ammettere le proprie responsabilità è terribilmente difficile, siamo per natura spinti a giustificarci, trovando le scuse più curiose per evitare di dover abbassare la testa. Proprio l’atteggiamento che Il Signore non vuole che venga assunto. Perché se vogliamo crescere nel legame con Lui dobbiamo aprirgli il cuore con sincerità per poi mettere nelle sue mani il nostro desiderio di cambiamento. In questa articolata preghiera (di cui esiste anche una forma più ampia) il filosofo e storico francese Lucien Jerphagnon (1921-2011) testimonia l’importanza e insieme la difficoltà di liberare il cuore dall’orgoglio fino a dire, magari stringendo i denti: sono io ad avere sbagliato, il torto è mio.
«Mio Dio, com’è duro aver torto!
E accettarlo così;
senza cercare scuse,
senza cercare di fuggire
questo peso dell’atto compiuto,
senza cercare di addossarlo ad altri,
o alla società, o al caso,
o alla cattiva sorte.
Senza cercare dieci ragioni valide,
dieci spiegazioni prolisse
per provare agli altri,
e soprattutto a se stessi,
che sono le cose che hanno torto,
e che il mondo è fatto male.
Com’è duro accettare di aver torto!
Senza adirarmi perché nella mia autodifesa
m’intrappolo sempre più,
portando argomenti che non reggono.
Senza voler ad ogni costo
essere infallibile, impeccabile;
e che ancora?
Signore, liberami
dalla paura dinanzi alla colpa
di cui debbo portare le conseguenze».