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Nembrini: «Porgiamo orecchio al raglio dell’asino di Pinocchio»

«Mi auguro che non falliamo anche l’appuntamento con la post-modernità. Viviamo in un tempo che sembra aver dimenticato non solo Dio, ma anche la domanda di Lui. Ma non è così»

Da diverse settimane “Avvenire” sta sviluppando un dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato dagl i interventi di PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto e al quale hanno poi partecipato Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini e Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici ,Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini e Cacciari. QUI la raccolta completa

Ho letto con grande interesse l’articolo di Alfonso Berardinelli pubblicato sul “Foglio” del 27 aprile che denuncia l’assenza della Chiesa dalla scena culturale contemporanea riprendendo l’interessante discussione aperta da “Avvenire” con diversi interventi; le sue e le diverse riflessioni, che in gran parte condivido, mi hanno spinto ad andare al fondo della questione: di che cosa parliamo, quando parliamo di “cultura cattolica”? Io, che ho inaspettatamente e immeritatamente ricevuto un “Premio per cultura cattolica”, per che cosa sono stato premiato, in fondo?

La “coscienza del nesso fra il particolare e l’universale”. Vorrei cominciare il mio tentativo di risposta con una provocazione, che poi cercherò di articolare: tutta la mia “cultura cattolica” è quella che ho ricevuto da mio padre e da mia madre, che avevano fatto a malapena le scuole elementari e che non ho mai visto con un libro in mano. Questo per dire, in primo luogo, che nella mia esperienza, e in quel poco che so di storia della Chiesa, la cultura non è anzitutto una questione da intellettuali, un problema di istruzione e di studio. La cultura cristiana è, come ho imparato dal mio grande maestro, don Luigi Giussani, la “coscienza del nesso fra il particolare e l’universale”. Quante volte gli ho sentito raccontare questo fatto: «Ero sulla strada e mi ero fermato a prendere una ciotola di latte in un cascinale. Mentre stavo parlando, arriva una donna dal campo. Io ero vestito da prete, e da lontano questa donna agitava un’enorme carota e diceva: “Guardi, reverendo, come è grande Dio!”. Io sono rimasto lì, di stucco. E ho detto: questa è una posizione culturale! Questa connessione stabilita tra la banalità di un fatto quotidiano, di un avvenimento assolutamente terra-terra, la carota, e il destino del mondo, questa è una posizione culturale». A sottolineare che una posizione culturale non è fatta per prima cosa di libri e di studio, ma è un atteggiamento della persona, uno sguardo che cerca e riconosce in ogni aspetto della vita il nesso con ciò che alla vita dà senso. E questa posizione culturale, a dispetto delle analisi sociologiche, c’è. Io la vedo, l’ho vista in mille occasioni, in Italia e in tante parti del mondo: persone, gruppi, che nella loro vita, magari modesta e semplice, continuano a vivere con questa coscienza del nesso fra il loro particolare e lo scopo ultimo della vita, e costruiscono luoghi di condivisione e di pace, in cui tutti vengono accolti per il loro valore e guardati per il bene che sono e non per il male che magari hanno fatto. E l’umanità di ciascuno rifiorisce.

Una posizione perdente, che poi è stata spazzata via dalla storia. Poi, certo – seconda osservazione – è assolutamente vero che c’è una debolezza della Chiesa nell’esprimere questa ricchezza, nel far sì che queste esperienze trovino voce nel dibattito pubblico. È una debolezza che viene da lontano, che viene da un certo atteggiamento succube nei confronti della cultura moderna, da una scarsa capacità di comprendere la domanda di senso e di significato che sta dentro a tanti moti della storia moderna che si sono anche opposti alla Chiesa stessa. Anni fa mi trovai in una sperduta città della Siberia a incontrare un gruppo di preti ortodossi, entusiasti perché il governo russo stava restituendo loro le chiese confiscate al tempo della rivoluzione comunista, e dicevano che si poteva ricominciare dal 1917. Allora io mi permisi di dire loro di non fare l’errore che aveva già fatto la Chiesa cattolica nel 1815, allorché, passata la buriana della Rivoluzione francese e di Napoleone, pensò che si potesse fare la Restaurazione, cioè tornare a una certa immagine della cristianità come se niente fosse successo, con il risultato che la Chiesa non seppe leggere l’esigenza vera che l’esperienza rivoluzionaria portava con sé e si arroccò in difesa di una posizione perdente, che poi è stata spazzata via dalla storia. Un errore che, a mio parere, si è ripetuto nel ’68 e dintorni, quando c’erano voci – penso a Dario Fo e al suo Mistero buffo, penso a Pasolini, e poi a Giorgio Gaber… – che gridavano un desiderio di significato, che denunciavano il fallimento della modernità, che con la loro arte davano voce al bisogno del cuore umano di un mondo che non riducesse la vita al guadagno e al successo; ma, siccome lo facevano da posizioni che mettevano anche la Chiesa nel novero dei nemici di questa esigenza, tanti li hanno visti come avversari da cui difendersi e non come interlocutori da incontrare.

Il raglio dell’asino di Pinocchio. Perciò – terzo passaggio – mi auguro che non falliamo anche il terzo appuntamento, l’appuntamento con la post-modernità, con la prima epoca «dopo Cristo, senza Cristo», come scriveva Péguy. È vero, viviamo in un tempo che non solo sembra aver dimenticato Dio, ma sembra anche aver dimenticato la domanda di Lui. Ma non è vero. Il nichilismo di oggi è esso stesso domanda, come ha acutamente colto tra gli altri il professor Costantino Esposito, nei suoi interventi sull’“Osservatore romano” poi raccolti in Il nichilismo del nostro tempo. Le urla sguaiate, gli atteggiamenti ribelli, la musica rap dei nostri ragazzi sono come il raglio dell’asino di Pinocchio: un grido sgraziato che esprime un bisogno a cui nemmeno loro sanno dare un nome. Perciò hanno bisogno di adulti certi, capaci di ricominciare a educare il loro cuore, a dare parole alla loro domanda. Certo, per questo occorre una capacità culturale. Ma la capacità culturale non nasce da un’erudizione libresca e nemmeno da un ritorno al passato: nasce dal ritorno all’origine, che è sempre presente. Come ebbe a dire don Giussani all’indomani del referendum sulla legge sull’aborto, nel 1981, quando il settimanale “Il Sabato” titolò «Si ricomincia da 32» (che era la percentuale dei “sì” alla proposta di abrogazione della legge): «no, questo è il momento di ricominciare da Uno», da Cristo presente, dalla riscoperta della fede come un’esperienza di pienezza e di letizia; che permette anche di leggere tutto ciò che accade, le circostanze della vita personale e pubblica, come segno del Destino.

Una fede «pienamente accolta» e «interamente pensata». Certo che siamo chiamati, come ebbe a dire san Giovanni Paolo II, a «rendere di nuovo cultura la fede», perché «una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta». Ma a me pare che in questo richiamo l’accento non sia sulla cultura, bensì sulla fede: la mancanza di un’autentica cultura cristiana non è un difetto di preparazione intellettuale, è una debolezza della fede. Una fede «pienamente accolta» e «interamente pensata» non può fare a meno di esprimersi in un giudizio appassionato e simpatetico su tutto ciò che incontra, cioè in un’autentica cultura. Riscoprire la fede: questa è la sfida che la debolezza culturale di tanta cristianità lancia a me, alla vita mia, e credo alla vita di tutti noi cristiani.

Fonte: Franco Nembrini | Avvenire.it

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