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Fine vita, Paglia: “Basta ideologie, no all’accanimento terapeutico e al suicidio assistito”

«Armonizzare posizioni differenti e andare oltre i presupposti ideologici per intervenire legislativamente sul fine vita», afferma l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita.

Quando è eticamente legittimo sospendere o non impiegare la nutrizione e l’idratazione artificiali?

«Non c’è niente di etico “a priori”. Solo la difesa della vita è un “a priori”. Si deve guardare a un principio importante: noi non curiamo solo un organo o una funzione malata. Abbiamo a che fare con tutta la persona. Dobbiamo chiederci quale sia il bene migliore della persona, soprattutto quando il decorso della malattia non può venire fermato. Già nel 2007 la stessa Congregazione per la Dottrina della Fede, dopo aver affermato una presupposizione positiva per il loro utilizzo, ha riconosciuto che possano lecitamente essere interrotte (o non iniziate) quando comportano “un’eccesiva gravosità o un rilevante disagio fisico”. Sono due criteri che fanno parte della definizione dei trattamenti non proporzionati, cioè quelli che sono da sospendere. È una valutazione che richiede sempre, per quanto possibile, il coinvolgimento della persona malata».

Le cure palliative come alternativa all’eutanasia?

«Sono uno straordinario strumento non solo per combattere il dolore, soprattutto per accompagnare il malato che si avvia verso la morte. Gli studi fatti laddove l’eutanasia è legale, nei Paesi Bassi, dimostrano che le persone non vogliono morire, hanno in realtà paura di soffrire: e quando si interviene con le cure palliative, la richiesta di finire la propria vita si riduce drasticamente. In Italia dal 2010 abbiamo un’ottima legge, purtroppo è poco conosciuta e ancor meno applicata e neppure in modo uniforme sul territorio. Occorre diffonderla».

Come incide il documento vaticano sul fine vita?

«Il Piccolo Lessico conta 88 pagine e 22 voci, da “accompagnare” a “trattamenti di sostegno vitale”. Ci siamo sforzati di usare un linguaggio semplice e rigoroso sul piano scientifico. L’abbiamo inviato a tutti i vescovi italiani e l’ho portato a papa Francesco. Serve un’informazione corretta sulle questioni mediche e sui loro risvolti etici. La scienza fa progressi, viviamo più a lungo, ma è la qualità della vita l’aspetto centrale da curare e accudire. La discussione pubblica deve essere fondata e informata».

E una legge sui trattamenti in stato vegetativo?

«Sono temi complessi e raggiungere un consenso universale è davvero arduo, se non quasi impossibile. Il legislatore deve rendersi conto delle differenti posizioni e sensibilità e trovare un’armonia possibile. Faccio fatica a vedere interventi legislativi validi che si basano su presupposti ideologici, soprattutto su temi così esistenzialmente importanti.

In che modo?

«Ciò non significa abbandonare i principi. Restano saldi i no all’eutanasia, al suicidio assistito e all’accanimento terapeutico. “Sì” a non lasciare solo nessuno e ad accompagnarlo senza mai abbandonarlo. Nella cultura odierna l’autodeterminazione sembra inscalfibile. “La vita è mia”, si dice. Il Lessico racconta un’altra prospettiva, riflettere sulle relazioni, che danno significato alla vita. All’inizio e alla fine. “Certo – dico io – che la vita è mia; ma non è solo mia”. Nessuno autonasce. Fin dall’inizio siamo legati gli uni agli altri, come del resto il Covid ha ribadito. Non si nasce da soli ma dalla e nella relazione di chi dà la vita al bambino o alla bambina. Così pure, non si muore da soli. Non vogliamo che le persone siano abbandonate e pensino che sia meglio morire che vivere. Individuiamo uno spazio perché il legislatore possa fare le scelte migliori ma non da solo. In dialogo con le diverse sensibilità, culture, religioni».

Da quale prospettiva?

«La vicinanza, la prossimità, il tenersi per mano: è questo l’atteggiamento da avere verso le persone nella fase terminale della loro vita. Noi credenti, soprattutto, sappiamo che questa vita è un passaggio – come dice la teologia: è una realtà penultima. La nostra vita continua, dopo la morte, risorta, piena, più che umana. La morte non è la fine, è un passaggio. Certo, doloroso, ma un passaggio. Per chi crede è una grande porta aperta sull’infinito. Per chi non crede, è un grande mistero quello della vita che termina. Ma nessuno deve venire lasciato solo in questo passaggio. Non credo a soluzioni ideologiche o preconfezionate. Va rispettato il dolore e la sofferenza utilizzando gli strumenti che abbiamo per rendere il passaggio un atto umano».

Cioè no all’eutanasia e all’accanimento terapeutico?

«L’obiettivo del Lessico si inquadra nel più ampio impegno della Pontificia Accademia per la Vita e mio personale, di sensibilizzare tutti perché nessuno sia lasciato solo. Ma diciamo anche che nessun accanimento fa bene, neanche quello che consiste in un arroccamento su posizioni impermeabili alle istanze degli altri e allo sviluppo dei tempi. Nella ricerca di mediazioni giuridiche il contributo dei credenti si realizza all’interno delle differenti culture: non sopra – come se essi possedessero una verità data a priori – né sotto – come se fossero portatori di un’opinione senza impegno di testimonianza della giustizia. La Chiesa è contraria alla disumanizzazione dell’umano, quando troppo facilmente si vuole uccidere una persona debole, fragile, malata. Le Cure palliative rappresentano una valida alternativa. Umana».

Fonte: GIACOMO GALEAZZI int. VINCENZO PAGLIA | La Stampa.it

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