A settant’anni dalla sua morte Alcide De Gasperi viene, giustamente, celebrato, ma anche un po’ tirato per la giacchetta. Il che è comprensibile: nessuno come lui, nella storia dell’Italia unitaria, è stato uomo politico nel contempo di successo e schivo, potente e distaccato dal potere, lungimirante e disinteressato. Dopo aver attraversato la prima metà del secolo combattendo da giornalista e da politico contro il pangermanesimo pre- nazista, il socialismo ed il fascismo, Degasperi attraversò un lungo deserto, lavorando nella biblioteca vaticana, protetto da Pio XI. Lì, tra le scartoffie e una grande solitudine, il combattente di un tempo temperò il suo carattere, divenendo in tutto e per tutto un uomo di grandissimi ideali, sostenuti dalla fede, e di grande realismo.
Fu lui a guidare la nascita dell’Italia repubblicana, e fu sempre lui, con l’appoggio del papa Pio XII e di personalità come Luigi Gedda e Giovannino Guareschi, a salvare l’Italia, il 18 aprile 1948, dalle sinistre riunite, da quelli che lui chiamava i «fascisti rossi». Fu sempre Degasperi a portare avanti, con Adenauer e Schumann, l’Unione europea, promossa nei suoi discorsi, almeno dal 1940, da Pio XII e dai vari oppositori europei a nazionalismi e comunismo. La sua Europa, però, non voleva essere un super stato, né annullare le diverse storie dei singoli paesi. Nei suoi discorsi Degasperi metteva in luce la necessità di un’Europa che coltivasse le sue radici cristiane, che garantisse unità nella varietà, che non degenerasse in una realtà lontana e opprimente.
Avverso al falso internazionalismo comunista, che in realtà voleva portare i popoli sotto il potere di Mosca, contrapponeva al nazionalismo un vigoroso patriottismo. La parola patria tornava spesso nei suoi discorsi, perché egli sognava un’Europa cristiana in cui poter continuare a sentirsi «trentino, italiano ed europeo». Proprio la sua battaglia per l’Autonomia del Trentino ci riporta alle sue radici popolari e sturziane, che avevano fatto dell’avversione del centralismo un punto essenziale della sua visione politica. Degasperi sognava anche un’Europa che avesse un esercito comune: voleva l’ombrello della Nato, in un’epica in cui la Russia comunista annetteva uno dopo l’altro vari Paesi europei e minacciava la pace, ma nello stesso tempo, soprattutto in privato, temeva certi eccessi americani.
L’esercito europeo, nei suoi disegni, doveva garantire sia una maggiore unità europea, sia una certa “indipendenza” militare tanto da Mosca quanto da Washington. Erede di questa sua politica estera sarà il suo giovane collaboratore, Giulio Andreotti, che per decenni perseguì nel contempo l’adesione all’ alleanza atlantica quanto la difesa degli interessi europei (per questo, prese le distanze sulla politica americana in Israele, Libia e contro l’allargamento della Nato verso est dopo la caduta del Muro). Schivo e lontanissimo da qualsiasi culto della personalità, Degasperi fu acclamato dal popolo, dopo la sua morte, con commoventi manifestazioni di piazza.
Ma presto la sua politica fu abbandonata: i degasperiani come Scelba, Gonnella, Piccioni ecc. vennero emarginati gradualmente dai giovani democristiani, legati a Dossetti, Fanfani e Moro, con cui Degasperi aveva sempre cercato un rapporto sincero, ma da cui era stato di fatto avversato. La morte di Degasperi prima, l’emarginazione dei suoi principali collaboratori poi, e la morte di Pio XII nel 1958 segnarono l’inizio di una Dc per molti aspetti molto diversa da quella degasperiana. Solo allora nacque, nel 1962, il centrosinistra: l’alleanza della Dc con i socialisti di Nenni, con cui Degasperi non volle mai alcuna collaborazione politica, contribuì a mutare il Dna del partito, rendendo gradualmente più lasso il legame tra fede e politica che aveva caratterizzato Degasperi.
Fonte: Francesco Agnoli | IlTimone.org