Il 12 settembre per i più suona la prima campanella dell’anno scolastico 2024, a Bolzano si inizia il 5 altre Regioni posticipano al 16, ma ormai ci siamo. Un rito, una fatica, un’avventura, forse anche un piacere di ritrovarsi che come poche cose unisce l’Italia dai 6 ai 16 anni con il corollario un po’ più attempato, ma certo non piccolo e men che meno secondario, di un milione circa di insegnanti e di un numero imprecisato di genitori. Tra i banchi ci sarà anche Enrico Galiano insegnante scrittore, dal 2023 docente di italiano, storia e geografia alle scuole medie dell’istituto comprensivo di Chions (Pordenone), cui abbiamo chiesto di dare il benvenuto a chi arriva in aula per la prima volta e a chi ci torna, e di raccontarci con quali sensazioni ricomincia, a partire anche da un suo post puntuto sulle cattedre scoperte e dal suo nuovo libro in arrivo, dedicato agli errori.
Professor Galiano, la campanella è vicina, con quale spirito ricomincia?
«Con spirito di resistenza, nel senso che la scuola debba essere l’ultimo baluardo di resistenza a un mondo che va in direzioni che non mi piacciono, ancora oggi discutiamo di Ius scholae, ma per noi a scuola il problema è stato da anni superato: da anni abbiamo capito che lo “straniero” è una risorsa non un problema. Io vorrei che tutti quelli che sono affascinati dal tema “prima gli italiani” venissero a trascorrere una mattinata a scuola con noi. In cinque minuti cambierebbero idea, perché si renderebbero conto del fatto che tra noi l’integrazione è una prassi consolidata e condivisa. Siamo un luogo di resistenza perché sono i ragazzi a dettarci l’agenda, a costringerci a parlare di differenze di genere, di ambiente. Lo spirito è questo».
È vero che la scuola, in un mondo in cui nel dibattito prevale la curva da stadio, è un luogo in cui si cerca di preservare la complessità, forse uno dei pochi rimasti?
«Secondo me sì, perché per sua natura si fonda sulla discussione. Non è più la scuola dell’Ottocento in cui l’insegnante trasmetteva la verità: la lezione frontale è solo una piccolissima parte dell’apprendimento che oggi è più “maieutico” rispetto al passato. Coltivare la complessità è in classe una necessità e un fatto istintivo».
Qualche giorno fa ha fatto una riflessione provocatoria sulle cattedre vacanti, facendo notare che la scuola ricomincia senza una quota di titolari sulle cattedre scoperte, forse perché un precario costa meno. A chi, alunni e genitori, comincia senza stabilità che cosa suggerirebbe?
«Mi verrebbe da consigliare di non affezionarsi troppo agli insegnanti precari, ma la mia è una provocazione perché l’affezionarsi non è qualcosa che si possa comandare. Più seriamente, sono destinatari di un vulnus per cui non hanno colpa, perciò direi loro: fate sentire la vostra voce, protestate. Anche perché i ragazzi soffrono il fatto di avere in classe un insegnante che poi cambia. Io che l’ho provato quando ero precario posso dire che è anche molto provante a livello emotivo l’insegnare in queste condizioni».
È difficile anche per l’insegnante che subentra?
«Parti svantaggiato se a lasciarti la cattedra è un insegnante che è stato capace di farsi apprezzare».
Ogni poco tempo cambia il criterio di reclutamento degli insegnanti, cosa che complica ancora un problema annosissimo, perché crea conflittualità tra posizioni di precari diversi da sanare. Ne usciremo mai?
«Per uscire da questo ginepraio bisognerebbe rivoluzionare questo reclutamento ancora oggi fondato su punteggio, anzianità, concorsi passati: ancora oggi ciò che ti permette di passare un concorso non sono le tue reali capacità in classe, perché le prove sono ancora fortemente incentrate sulle conoscenze. Si viene valutati in astratto non per come insegni, ma per come dici che vorresti insegnare. Presenti una lezione davanti a una commissione, ma non è come essere in classe, ed è un po’ come se si ingaggiasse un calciatore per come palleggia anziché per come gioca in partita».
Ormai è tardi per rimediare, siamo agli sgoccioli: è tempo di tornare in classe. Quale atteggiamento si augurerebbe da colleghi e genitori?
«Sarebbe bello che tutti ci ricordassimo che dobbiamo navigare nella stessa direzione e sarebbe bello se noi insegnanti e genitori facessimo un po’ la pace, perché da qualche anno ci facciamo la guerra e non va bene (è il tema dell’approfondimento di inizio anno in edicola su FC 36 ndr.). L’unico modo per farlo è ricordare che abbiamo lo stesso scopo: crescere dei ragazzi sani e forti. Quindi se si è genitori, ricordare che un insegnante severo è una grande fortuna perché dà a tuo figlio strumenti per crescere. Se si è insegnanti, non dimenticare che quando un genitore è così presente, è perché oggi la genitorialità è cambiata rispetto a 30 anni fa e ha una responsabilità molto più forte rispetto a successi e insuccessi del figlio. Forse se entrambi riuscissimo a metterci nel punto di vista dell’altro ci verrebbe più facile remare nella stessa direzione».
Ora che sappiamo con quale spirito comincerà lei, ci racconta qual è quello che vorrebbe incontrare nelle classi che vedrà per la prima volta o che ritroverà?
«Vorrei che mi mettessero in difficoltà, che mi costringessero a rivedere le mie certezze. Per me gli studenti migliori sono quelli che riescono a fare il loro mestiere di adolescenti, di avere un atteggiamento critico nei confronti dell’autorità, sempre con rispetto».
L’insegnamento è sport individuale in classe e di squadra dentro la scuola. Come si conciliano al meglio queste due componenti?
«Per me non c’è insegnante migliore di quello che mette al primo posto il bene dei ragazzi, che riesce a tirare fuori il meglio dai ragazzi e questo riesce solo se si collabora. Lo dico anche a me stesso, perché non sempre è facile trovare punti di contatto, ma è talmente complessa la faccenda che puoi farcela solo attraverso la collaborazione che dai e ricevi».
A volte si avverte, tra gli insegnanti, un po’ sfiducia: si teme di non poter incidere in un mondo in cui la Rete propone la concorrenza di modelli diversi e “semplici”. È diventato più difficile fare il vostro lavoro?
«Sì, le alternative sono molte di più, perché da un lato si è tentati di seguire il canto delle sirene che porta la tentazione di semplificare – e questo è sbagliato -, dall’altro lato credo che tutte queste offerte possono anche essere viste come una risorsa: io imparo dal modo in cui si pongono tanti bravi divulgatori che hanno successo in Rete. Da loro imparo alcune tecniche che posso applicare in classe. Bisogna stare attenti: a non scadere nella semplificazione ma anche a disporsi nell’atteggiamento di chi vuole sempre imparare».
A proposito di imparare, sta per uscire con il libro L’incredibile avventura di un super-errore (Salani). La scuola di un tempo ne faceva uno spauracchio, Rodari ci ha insegnato che gli errori servono a imparare. Lei come la vede?
«A Rodari penso come a un maestro per me. L’errore non deve mai essere visto come un fallimento, perché è sempre un progresso: quando sbaglio capisco quello che non devo fare, l’errore mi avvicina alla verità non me ne allontana. Il protagonista del libro L’incredibile avventura di un super-errore è un ragazzino che riceve un costume da supereroe, ma il suo superpotere è fare errori. Capirà man mano che solo attraverso gli errori si fanno scoperte».
Da che età lo si può leggere?
«Lo penso a più livelli: il primo è che è una storia per ragazzi dagli 8 ai 13 anni, ma poi ce n’è un secondo che va bene per tutte le età. Perché quando il ragazzino deve affrontare la “setta dei perfetti” un adulto capisce che il perfezionismo è la malattia del nostro tempo, della nostra società della performance, che getta in un senso di inadeguatezza chi non tiene il passo. In questo secondo livello si cerca l’antidoto: fare la pace con la propria fallibilità».
Le andrebbe di mandare un messaggio di benvenuto ai ragazzi che tornano in classe?
«Vi auguro che non sia facile, quest’anno. Che abbiate delle difficoltà, degli ostacoli. Che vi facciate anche un po’ male, insomma. Che tocchiate la vita con mano. Perché solo così si riesce a vincere la paura di vivere: facendosi male, e poi scoprendo che si può guarire. Cadendo, e scoprendo che poi ci si può rialzare».