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Il problema degli stereotipi. Una premessa davanti ai tormentoni LGBTQ+ e Woke

Un tema molto dibattuto e che sta trovando rinnovata attenzione a livello di confronto pubblico è quello relativo agli stereotipi. In realtà, e forse un po’ paradossalmente, sembra che il tema degli stereotipi non sia tanto oggetto di confronto quanto topos retorico calato dall’alto e con pochi margini di discussione, secondo un approccio e uno stile che di per sé favoriscono piuttosto la creazione che l’abbattimento di stereotipi.

Volendo combattere dunque il biasimevole ricorso agli stereotipi, credo proficuo offrire una riflessione sul tema. Obiettivo di tale confronto sarà in qualche modo eliminare la visione ormai stereotipata attorno agli stereotipi.

Sostengo due tesi. La prima è che la narrazione dominante sugli stereotipi sia appunto stereotipata a sua volta. La seconda è che l’esistenza di stereotipi non sia del tutto eliminabile, per il semplice fatto che essi si fondano, almeno in parte, su basi oggettive e su fondamenta realistiche.

Due esempi personali

Mi sovvengono due occasioni in cui ho avuto modo di ascoltare la narrazione dominante in tema di stereotipi, entrambe si legano al mondo scolastico che frequento.

Anzitutto, ho partecipato a un’attività formativa ospitata a Fiera Didacta Italia, “Il coinvolgimento delle studentesse nelle discipline STEM: un’esperienza positiva di collaborazione”. Si trattava dunque di un evento di grande ufficialità, promosso dal prestigioso istituto nazionale INDIRE, con la partecipazione della docente Rosaria Anna Puglisi del CNR. In quel contesto è stata presentata l’attività di “Women in Science” (https://hq.imm.cnr.it/womeninscience/20230310).

Speravo, in tale contesto, di trovare indicazioni su come sfruttare il genio femminile in ambito scientifico (nelle discipline STEM, appunto), magari andando a valorizzare quegli elementi di oggettiva differenza che si danno a livello cerebrale, cognitivo ed emotivo tra maschi e femmine. Invece in tale lezione ho solo sentito ribadire l’idea secondo la quale la partecipazione delle donne alle facoltà scientifiche è impedita da stereotipi e ho visto illustrare proposte che per lo più – se non ho frainteso – consistevano nel promuovere seminari scientifici di docenti donne per candidate studentesse donne.

Ora, non nego che si debba e si possa incentivare sempre meglio un accompagnamento delle studentesse verso un orientamento attitudinale aperto a 360°. Nego che, laddove si noti una disparità di scelta tra maschi e femmine, ciò sia dovuto semplicemente alla persistenza di stereotipi e non anche a inclinazioni che sono e rimangono sensibilmente diverse tra maschi e femmine.

Rispetto al caso citato e alle mie attese deluse, resto poi davvero molto stupito del fatto che non si siano messe in rilievo le attitudini proprie femminili e quindi il contributo specifico che le donne possono portare nel campo dell’indagine scientifica. Faccio io un’ipotesi: in un contesto di ricerca che privilegia sempre più il team working, forse il genio cooperativo femminino ha qualche vantaggio da portare rispetto all’istinto individualista del maschio? Lascio ad altri la risposta e torno sull’argomento principale dell’articolo.

Un secondo esempio lo traggo da un corso di formazione on-line, dedicato al tema dell’inclusione e quindi all’attenzione rivolta verso studenti che presentino disabilità, disturbi di apprendimento o bisogni educativi speciali. Anche qui in numerosi accenni ho ritrovato l’idea, questa volta applicata alle difficoltà di apprendimento e non ai caratteri sessuali, per la quale il pregiudizio a danno degli studenti in oggettiva difficoltà scolastica dipenda piuttosto da come si viene giudicati dai docenti e compagni di turno, anziché non dai limiti oggettivi propri.

Non nego un ruolo a entrambe le componenti appena elencate, ma nuovamente mi stupisco nel raccogliere una lezione che più o meno esplicitamente porta a concludere: la disabilità è in chi ti giudica. Falso. Vero è che il giudizio può rendere insopportabile o al contrario tollerabile una disabilità.

Chiudo questi due esempi con una puntualizzazione banale: in entrambi i casi si tratta di situazioni formative, lo stereotipo anti-stereotipi è dunque ormai un contenuto esplicito nella formazione dei docenti (per limitarmi alla mia categoria di esercizio). Non parliamo cioè di considerazioni peregrine, ma di un messaggio ben strutturato ormai assunto dagli organi formativi e destinato ai professionisti di settore in formazione.

Una proposta alternativa

Vengo al mio commento generale sulla tematica.

Gli stereotipi, dunque, sono solo frutto di pregiudizi sociali o sono fondati su dati di realtà?

La mia critica al pensiero dominante, come anticipavo, si appoggia su due osservazioni: l’impossibilità di liberarci in assoluto da pregiudizi soggettivi e l’oggettività che genera i giudizi umani anche al loro livello stereotipato.

Le tesi dominanti ed emergenti affermano: che gli stereotipi nascono dal giudizio dell’osservatore e non dipendono da caratteri oggettivi del soggetto; che gli stereotipi possono essere totalmente eliminati; che la persistenza di stereotipi è segno di ignoranza ed è causa di soprusi ingiustificati, perniciosi per chi ne è vittima e d’ostacolo allo sviluppo della società.

Tali idee non sono del tutto infondate: vi è una componente di giudizio che dipende dall’osservatore; il modo di guardare e giudicare può fare la differenza; vi è un modo di restare negli stereotipi che lede persone, comunità e società. Una parte, un modo. Non oltre.

Al contrario io sostengo: che vi siano degli elementi oggettivi nel soggetto sui quali si fondano gli stereotipi; che gli stereotipi quanto più risultino fondati sull’oggettività tanto meno siano eliminabili; che la pretesa di azzerare totalmente gli stereotipi sia essa stessa lesiva dei soggetti e nociva al bene comune e al relativo sviluppo sociale.

La tesi dominante punta a rimuovere gli stereotipi e a condannare quanti si oppongono a tale obiettivo.

Io punto a mantenere gli stereotipi per quello che effettivamente, creando consapevolezza attorno ai loro pregi e limiti, operarndo per una gestione intelligente degli stessi. Condanno come errore lo sforzo di chi sostiene la tesi dominante.

Ma cosa sono gli stereotipi? Per rispondere ascolteremo il parere di Hans-Georg Gadamer riguardo al ruolo dei pre-concetti. Gadamer, maestro indiscusso della filosofia ermeneutica, ci aiuterà a fissare i confini del sapere e il rapporto della conoscenza scientifica con gli stereotipi e i pregiudizi. Chiariti tali confini generali, sarà consequenziale trarre le considerazioni riguardo all’uso quotidiano degli stereotipi stessi.

Preciso che reputo Gadamer un autore importante, in quanto riconosciuto maestro della modernità, in dialogo con i migliori sviluppi del pensiero contemporaneo. D’altro lato, oltre alla tesi qui presentata, non vado oltre nell’assumere posizioni ermeneutiche. In altri contesti ho mostrato la mia disponibilità ad aderire alla scuola ermeneutica, optando per la corrente detta ‘ermeneutica veritativa’, e discostandomi dalla corrente della cosiddetta ‘ermeneutica relativista’, tanto cara al pensiero debole.

La lezione di Gadamer

In “Verità e Metodo” (Parte II, c.2, §1.a, Il circolo ermeneutico e il problema dei pregiudizi) Gadamer scrive: “L’interpretazione comincia con dei pre-concetti i quali vengono via via sostituiti con concetti più adeguati”. Questa prima considerazione porta con sé due attestazioni importanti. La prima è che ogni sapere muove da alcuni pregiudizi. La seconda è che tali pregiudizi vanno sottoposti a vaglio critico. Qual è il criterio con cui vagliarli? L’interprete “nel rapporto col testo, mette alla prova la legittimità, cioè l’origine e la validità, di tali presupposizioni”. Il testo, l’oggetto delle mie interpretazioni, offre la prova del fatto che i miei pregiudizi su di esso siano fondati o meno.

Rimarca Gadamer: “cos’è che contraddistingue le pre-supposizioni inadeguate, se non il fatto che, sviluppandosi, esse si rivelano insussistenti?”. E così abbiamo riconosciuto che alcuni pregiudizi non sono validi, dal che però si deduce che altri invece lo sono. E abbiamo aggiunto che l’elemento per definire tale validità ha a che fare con il testo, cioè con la realtà verso cui l’interprete (colui il quale giudica) sta guardando. Quindi i pregiudizi sono il punto di partenza, ma non possiamo fermarci a essi. “Ci si impone il compito di non presupporre semplicemente come ovvio che il testo parli il nostro linguaggio” e dunque ci si impone di metterci in discussione, di interrogare maggiormente il testo e di vagliare i nostri pregiudizi. Tale esperienza, a detta dell’autore si impone in modo forte: “quello che ci costringe a riflettere e richiama la nostra attenzione sulla possibilità di un uso diverso del linguaggio che ci è familiare è l’esperienza di un urto che si verifica di fronte a un testo”.

Fin qui siamo in parte d’accordo e in parte in contrasto col pensiero dominante. Siamo certamente d’accordo sul fatto che i pregiudizi vadano scossi, a fronte dell’urto che il testo (la realtà) ci impone. Credo che siamo d’accordo sul fatto che essi rappresentino il punto di partenza del giudizio, che il nostro giudicare sia intriso di pregiudizi. Probabilmente non siamo d’accordo se diciamo – con Gadamer – che i pregiudizi sono un elemento originario e peraltro buono (buono, perché di fatto rappresenta la realtà insormontabile e il meccanismo universale del nostro comprendere); immagino che i sostenitori del trend contemporaneo stimino i pregiudizi come un ostacolo e un incidente non originario e non necessario (se non è necessario e non è originario, allora è un male esservi incappati). Facilmente non siamo d’accordo se affermiamo che la realtà (il testo che stiamo interpretando) offre dei criteri oggettivi alla cui luce vagliare i nostri pregiudizi; mi pare che il discorso mediatico-politico sottolinei piuttosto l’assenza di un simile testo e della relativa oggettività.

Esemplifico quest’ultimo aspetto, riferendomi agli esempi narrati in apertura di articolo.

Primo esempio. Per Gadamer il sesso/genere femminile porta con sé degli elementi oggettivi che hanno storicamente concorso a tenere le donne lontane dalle discipline STEM (gli studi tecno-scientifici); per il discorso predominante invece tale gap è dipeso solo da strumenti culturali non originari e non necessari (i pregiudizi, gli stereotipi) che ora abbiamo smascherato e dobbiamo combattere. Preciso: per Gadamer ci sono elementi oggettivi che segnano il divario tra donne e STEM, ma siamo esortati a vagliare sempre più approfonditamente di che natura siano tali elementi, se e come possano essere rinnovati, in quale misura potrebbe darsi un incontro donne-STEM (io stesso sopra avevo posto una domanda/proposta a riguardo).

Secondo eempio. Per Gadamer la disabilità e il disturbo sono elementi oggettivi che affaticano la partecipazione scolastica; per il discorso predominante invece tale fatica dipende da un’impostazione stereotipata del percorso didattico. Nuovamente: Gadamer ci invita a vagliare se nell’evoluzione dei metodi, delle cure e del concetto sociale di istruzione possa esserci un significativo modello di inclusione scolastica.

In tale ottica, chi scrive è promotore attivo sia dell’inclusione che dell’istruzione scientifica femminile, senza con ciò sposare le linee-guida prevalenti, che reputo ideologiche.

bensì dialogo con gli sviluppi più recenti del pensiero occidentale. Proprio tali sviluppi obbligano a prendere le distanze da altre letture dogmatiche. È dogmatico, alla luce delle argomentazioni di Gadamer, ignorare la lezione sui pregiudizi e reiterare l’imperativo contro di essi. Per la precisione siamo di fronte a un dogma illuminista e positivista: paradossalmente anti-scientifico (perché ignora gli sviluppi delle teorie epistemologiche e della conoscenza più aggiornate) pur nella pretesa di essere scientifico (perché Illuministi e Positivisti si ersero a suo tempo a paladini di tale sapere). Quest’ultima proposizione spiega anche in che senso io giudichi ideologiche le linee guida mainstream.

Ma lasciamo che sia lo stesso Gadamer a spiegarcelo. “L’illuminismo ha un suo pregiudizio fondamentale e costitutivo: questo pregiudizio che sta alla base dell’Illuminismo è il pregiudizio contro i pregiudizi in generale e quindi lo spodestamento della tradizione”. Al contrario, una volta denunciata tale contraddizione radicale e invincibile (esser contro i pregiudizi è il primo dei pregiudizi), ha senso recuperare un retto concetto di tradizione come forma di sapere e di agire, non per un culto della tradizione in se stessa (tradizionalismo), ma per una accettazione della realtà antropologica fondamentale con tutti i suoi limiti e le sue condizioni di possibilità:

“È proprio vero che stare dentro a delle tradizioni significhi anzitutto sottostare a pregiudizi e subire una limitazione della libertà? O piuttosto non è la stessa esistenza umana, anche la più lbera, che è limitata e condizionata in maniera molteplice? Se questo è vero, allora l’ideale di una ragione assoluta non costituisce una possibilità per l’umanità storica”.

Il tutto sempre rimarcando la distinzione fondamentale, “quella cioè della distinzione tra pregiudizi veri, alla luce dei quali comprendiamo, e pregiudizi falsi, che conducono al fraintendimento”.

È pregiudizio falso l’idea che il gap donne-STEM non esista e ogni suo residuo sia il prodotto di una civiltà machista. È pregiudizio vero il fatto che tale gap abbia un fondamento – nella natura psichica e biologica, nei compiti sociali materni – tale però da poter essere superato in specifici casi – caratteri brillanti, personalità spiccatamente propense e dotate, scelte familiari non impedienti, dinamiche storico-sociali particolari. Casi pur lodevoli, aggiungerei.

Mancano ancora un paio di tasselli a chiudere la riflessione gadameriana, in fondo impliciti nelle pagine precedenti: i pregiudizi sono indomiti e ineliminabili. Il destino del sapere e del convivere umano non sta nello sterminio dei pregiudizi, ma nella capacità di valorizzare quelli veri e di usarli per procedere nella propria esperienza buona. “I pregiudizi e le tendenze che occupano la coscienza dell’interprete non sono qualcosa di cui egli possa liberamente predisporre. Egli non è in grado, di per sé, di separare preliminarmente i pregiudizi produttivi che rendono positivamente possibile la comprensione da quelli che invece la intralciano”. I pregiudizi ci precedono, ci sovrastano e ci sfidano: a distinguere quelli utili da quelli nocivi, per esempio. I pregiudizi sono ineliminabili, perché la conoscenza della realtà nella sua grandezza non si riduce mai a etichette semplificate.

Termino qui l’accenno al pensiero gadameriano – complesso, certo, ma utile a scardinare le banalità teoriche che reggono la propaganda diffusa.

Un’ermeneutica degli stereotipi

E ora torno a un livello più immediato della riflessione. Gadamer insiste sui pregiudizi, ma che dire degli stereotipi? Da un punto di vista teorico, le due questioni combaciano. Dovremo ammettere che gli stereotipi sono una forma di conoscenza, ma ugualmente dovremo dire che essi devono essere sottoposti a vaglio.

Generalmente forse con stereotipo si intende qualcosa di più gretto di un pregiudizio. In certo senso dire stereotipo significa dire: un pregiudizio fossilizzato e infondato.

E allora, senza inseguire l’utopia di voler eliminare gli stereotipi, dovremmo però stare attenti almeno a questi due aspetti: primo, che nessuno stereotipo sia assunto in modo fisso e immodificabile; e secondo, quale sia il fondamento reale e rispettabile di uno stereotipo.

Ora, e tornando per l’ultima volta sugli esempi sopra citati, quanto al primo aspetto, dovremo accettare che il ruolo della donna e del diversamente abile muti nel tempo e non si configuri rigidamente su modelli passati – questo errore di irrigidimento può darsi, questo errore ha subito una forte spinta (a volte scomposta) a mutare grazie al pensiero rivoluzionario illuminista, sul valore di tale svolta possiamo complessivamente concordare (soprassedendo sui dettagli attuativi e suoi principi teorici della stessa).
Quanto al secondo aspetto, dovremo valutare quali sono i fondamenti degli stereotipi sulla donna e sul diversamente abile, e scoprire che la disabilità e il sesso/genere comportano dei confini e dei limiti evidenti e intrascendibili, così come ugualmente essi presentano uno spettro di variabili che potrebbero essere maggiormente esplorate e valorizzate a beneficio dei soggetti e della comunità.

Dunque, ora possiamo rispondere alla domanda iniziale: cosa sono gli stereotipi? Un tipo di pregiudizio, socialmente diffuso, con un fondamento oggettivo nella realtà biologica e culturale, e un margine di evoluzione politico-pedagogico significativo, ma anche con una certa tendenza a fossilizzarsi e ad assumere presupposti falsi.

Dal che discende la conclusione: che fare davanti agli stereotipi? Studiare. E così vincere la tendenza a fossilizzarsi e ad assumere presupposti falsi, sapendo al contrario distinguere il fondamento oggettivo degli stessi dal loro margine di adattabilità e rinnovabilità storico-sociale.

Questo mi sembra l’avvio di una buona riflessione sugli stereotipi, di una attenzione alla dignità delle persone, di un lavoro utile al bene comune. Le medesime attenzioni, se edificate su di un fondamento culturale dogmatico illuminista, nutrito dal Paradosso del Pregiudizio (la pregiudiziale lotta ai pregiudizi), reputo che possano fare dei danni tanto ai singoli quanto alla collettività.

Tutta la retorica sui diritti umani e in particolare gli aggiornatissimi tormentoni LGBTQP e Woke dovrebbero essere vagliati alla luce della prospettiva oggi introdotta.

Fonte: Marco Begato | Vanthuanobservatory.com

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