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La vita è come il tennis

Un poeta non aveva mai visto il mare. Si mise in viaggio. Si fermò in una locanda e confidò all’albergatore la sua ricerca. L’uomo gli rispose che era ormai vicino, avrebbe potuto raggiungere la meta l’indomani. Il poeta passò la notte a rigirarsi nel letto della sua camera nell’insonne attesa. Il giorno dopo l’albergatore lo vide tornare e gli chiese come era andata, ma il poeta rispose che non aveva visto il mare e non aggiunse altro. Come era possibile? La curiosa scena si ripetè per due o tre giorni, fino a quando il poeta tornò raggiante: ce l’aveva fatta! E come? Chiese incuriosito l’albergatore. Da una barca giunta a riva erano scesi dei pescatori: li aveva osservati, aveva parlato con loro fissandoli negli occhi. E finalmente, in quei corpi e in quelle voci, aveva visto il mare.

Così è la verità, sempre incarnata in qualcuno, e per questo esiste la scuola: un luogo pensato per incontrare testimoni credibili di un pezzo di vita a cui hanno dedicato anni, sforzi e sogni. Sin da bambini impariamo il mondo per fiducia, da qualcuno prima che da qualcosa, la pelle («un discorso toccante…») e la voce («…mi ha incantato!») precedono la vista di almeno nove mesi, ed è poi così anche nella vita fuori dal grembo. Si comincia a conoscere solo da soggetto a soggetto: il corpo e la voce di qualcuno ci dicono dove, come e cosa guardare.

Ma chi seguire, chi ascoltare tra tante voci?

Maestro viene dal latino magister, versione umana della radice mag, più, da cui molti termini come maggiore, magistrato, maggiordomo… Il «più» al maestro è dato dall’intensità trovata in un ambito della vita, di cui è testimone: un sapere incarnato. Per questo la grande poetessa russa Marina Cvetaeva diceva di imparare da tutti i mastri e maestri: «Presto ascolto a ogni grande voce, a chiunque appartenga. Quando recito una poesia sul mare e un marinaio che non capisce nulla di poesia mi corregge, io gli sono riconoscente. Lo stesso con il guardaboschi, il fabbro, il muratore».

Non c’è trasmissione di parola se la parola non si è fatta carne: gesti, occhi, mani, corpo… La verità ci afferra solo se è viva, cioè se è «sentita» e «sensata»: passa dai sensi, ha senso. Anche Gesù veniva chiamato maestro, rabbi significa infatti «grande» (versione ebraica del «più»). I rabbi di professione non tolleravano quell’attribuzione, perché il falegname di Nazareth non aveva titoli ufficiali per essere definito maestro. Eppure la gente gli riconosceva l’autorità sul campo e per questo lo seguiva.

A proposito di rabbini, uno di loro diceva che la prima domanda che Dio ci porrà nell’aldilà è: «Chi era il tuo maestro e che cosa hai appreso da lui?», perché nell’incontro con i maestri è data a ciascuno l’occasione per una vita riuscita o sprecata, cosa non scontata nell’epoca dei presunti (come se non fossero stati nel grembo materno) self-made. Se fatichiamo a rispondere alla domanda immaginata dal rabbino non abbiamo ancora ricevuto un’eredità, un destino, una vocazione.

Ma passiamo dalla parte dei maestri: non basta conoscere, bisogna testimoniare la vita. Come fare a farsi ascoltare? Il professor John Hattie, in Apprendimento visibile ha raccolto i dati della più ampia analisi mai condotta su ciò che rende l’insegnamento efficace, delineando quattro aspetti fondamentali, estendibili a ogni ambito educativo e lavorativo:

1. Dare un riscontro chiaro, specifico e tempestivo (aumento dell’apprendimento del 75%), così il tanto temuto voto/giudizio diventa il logico punto di arrivo di una performance, come il tempo di una corsa o l’altezza di un salto, un dato necessario per migliorare e non un verdetto sulla persona. Durante le Olimpiadi ho seguito una delle mie gare preferite, i tuffi: immediatamente dopo l’esecuzione ogni allenatore la mostrava di nuovo al monitor al tuffatore, segnalandogli i punti deboli e incoraggiandolo per il successivo.

2. Studenti che aiutano altri studenti: insegnamento e apprendimento cooperativi (aumento del 58%). Il nostro sistema scolastico è basato quasi esclusivamente sulla competizione, invece la verità si cerca e trova insieme, e non perché sia democratica (una legge fisica, la grammatica di una lingua non lo sono), ma perché ognuno ne vede meglio un pezzo. Inoltre c’è sempre qualcuno che non vede e ha bisogno di aiuto, e chi riesce a spiegare qualcosa la impara meglio di chiunque altro. Tutti diventano maestri e tutti allievi.

3. Meta-cognizione: sviluppare negli studenti la consapevolezza del processo di apprendimento (aumento del 48%). Da questo aspetto dipendono la curiosità e la tenuta: spiegare il senso (niente di insensato è interessante) di ciò che si fa e perché lo si fa è necessario perché i ragazzi siano mossi dall’interno (garanzia di memoria) e non solo dall’esterno (il dovere, o peggio la paura, portano a dimenticare presto). Il maestro invece risveglia il maestro interiore dello studente, cioè lo aiuta a rendersi autonomo nel cercare nel mondo ciò di cui ha bisogno, anche quando lui non ci sarà più: non seduce (porta a sé), ma conduce (porta al mondo).

4. Un clima di apprendimento gioioso e positivo (aumento del 37%). Diceva già Agostino che «nutre la mente soltanto ciò che la rallegra» ed è stato calcolato che, per modificare un errore, un solo incoraggiamento vale quanto 89 rimproveri. Sono tutti aspetti strettamente professionali, niente effetti speciali o carismi divini, un corpo che incarna e una voce che racconta ad altri dove la vita è più intensa. Scriveva infatti nella sua biografia il nobel Elias Canetti: «Ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo». C’è scuola, ovunque sia, quando c’è «maestranza».

All’opposto della parola mastro/maestro, che viene da «più», c’è la categoria di parole che contengono invece la radice latina minus, «meno»: ministro, minestra, menestrello… e tutti i termini che hanno in comune l’idea di «servire». Se il più del magistro (maestro) segnala il di più di vita da raccontare a molti, il meno del ministro indica invece la capacità di mettersi al servizio di altri perché possano incontrare la vita, con più facilità. In ambito religioso il ministro del culto ha infatti il compito di facilitare l’incontro tra gli uomini e il divino. In ambito politico il ministro della Cultura ha il compito di facilitare l’incontro tra cittadini e beni culturali. Quello dell’Istruzione tra cittadini e maestri. Quello della Salute tra cittadini e cure… E così via. Ogni maestro è quindi ministro (serve altri) e ogni ministro dovrebbe anche essere maestro (nell’ambito di pertinenza), ma nell’uno e nell’altro caso, il più e il meno, entrambi hanno potere su altri, non al fine di sotto-mettere ma di per-mettere la vita, perché, mi piace ripeterlo in questi tempi di fasti tennistici nostrani, come diceva lo scrittore David Foster Wallace «la vita è come il tennis: vince chi serve meglio».

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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