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Gli italiani a stelle e strisce: storie di emigranti in America

Un libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri (il Mulino) ricostruisce il conflitto tra le diverse generazioni dei nostri connazionali emigrati negli Stati Uniti: una vicenda di successi, ma anche di gravi difficoltà

«L’italiano emigra in America. Lo volete italiano? Sarà infelice. Lo volete felice? Sarà americano. Cioè l’Italia dovrebbe donare all’America il suo cittadino, il suo lavoratore, il suo emigrante, in dono assoluto e senza restrizione, tutto intero, qualità e difetti, energie e problemi, attività e speranze, in modo che non si volti più indietro a guardare l’Italia, che non ristagni in quelle gore fallacemente italiane che sono gli accentramenti d’immigrazione delle grandi città soprattutto marittime, che la sua vita, la sua economia, la sua politica, la sua lingua, tutto in lui diventi americano». Lo scriveva nel 1913, nell’Italia randagia attraverso gli Stati Uniti, la giornalista e studiosa di emigrazione Amy Bernardy, figlia d’una toscana e del console americano a Firenze. Ma, 111 anni dopo, i suoi consigli sull’integrazione degli immigrati sono ancora di estrema attualità. Bisogna guadagnarseli, la fiducia, la stima, l’affetto, la comunanza dell’idea di patria. Vale per chi viene accolto, ma anche per chi accoglie.
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La copertina del libro «Italiani d’America» di Mario Avagliano e Marco Palmieri (il Mulino, pp. 550, euro 30)

 

«Nel Massachusetts la legge prescrive che gli adulti fra i sedici e i vent’anni che non sanno leggere e scrivere l’inglese non possano lavorare per mercede mentre sono aperte le scuole pubbliche diurne, se non vanno alla scuola serale», scrive in un altro dei saggi ripresi anni fa da Maddalena Tirabassi in Ripensare la patria grande. Perché quelle, la scuola e la lingua, sono le chiavi d’accesso. Al punto che, quando la Bernardy chiese alle autorità scolastiche locali quanti erano gli scolari di origine italiana, si sentì rispondere picche: «Noi siamo del parere che in questo Paese tutti sono Americani e non desideriamo incoraggiare alcuna ricerca tendente a differenziare gli Americani di una discendenza dagli Americani di discendenza diversa».

C’è chi dirà che oggi c’è più rispetto per le culture d’origine che rischiano d’essere spazzate via dalla omologazione. Vero. Anche questo è un valore. Studiare la storia delle «seconde generazioni» dei nostri nonni che emigrarono in almeno 27 milioni (molti in modo illegale) in giro per il mondo aiuterebbe però chi è ora chiamato a gestire le ondate migratorie. Lo dimostra Italiani d’America. La grande emigrazione negli Stati Uniti, di Mario Avagliano e Marco Palmieri (il Mulino). Un libro che ricostruisce la storia dei nostri viaggi oltre l’Atlantico, dal sogno di partire («Mamma mia dammi cento lire…») alle traversate, dalle Little Italies al tema delle quote, dagli imbarazzi per la «Mano nera» ai trionfi degli italo-americani. Ed ecco Filippo Mazzei, tra gli ispiratori della Dichiarazione di indipendenza, e Antonio Meucci inventore del telefono, Giacomo Beltrami che stilò il primo dizionario inglese-sioux e il librettista di Mozart Lorenzo da Ponte docente alla Columbia e via così… Decine e decine di storie trionfali (il più amato dei sindaci newyorkesi Fiorello La Guardia, il fondatore della Bank of Italy poi Bank of America Amadeo Giannini, i miti di Hollywood Rodolfo Valentino, Robert De Niro, Al Pacino…), unite a storie di uomini e donne, genitori e figli che nelle lettere narrarono le difficoltà quotidiane di ospiti in un Paese spesso ostile.

«Per favore, non mandate i miei bambini alla scuola americana, perché quando avranno imparato l’inglese non saranno più i miei figli», scrive nel 1921 una madre citata da Constantine Panunzio in The Soul of an Immigrant. «A quei tempi, dovevo parlare l’italiano. Non avrei mai potuto chiedere a mio fratello: “Pass the bread”; sarei stato schiaffeggiato; dovevo dirlo in italiano. Mia nonna avrebbe pensato che stavamo parlando male di lei. Così, in casa, parlavamo sempre in italiano. Quando sono andato a scuola ho dovuto imparare a parlare l’inglese», ricorda Louis LaCivita a Italian American Oral Histories. «Sentivo la mia casa infestata dai fantasmi di un’altra casa, lontana, in Sicilia e sono certo che molti americani italiani han provato la stessa sensazione» racconta Martin Scorsese a Linda Barrett Osborne e Paolo Battaglia in Trovare l’America.

Era un incubo, per tanti padri e madri, che i ragazzi si integrassero nella «nuova» patria. «I giovani della seconda generazione durante i primi decenni del XX secolo affrontano un enorme dilemma psicologico ed esistenziale sulla propria identità, schiacciati tra mito italiano e mito americano», scrivono Avagliano e Palmieri. «A casa e in famiglia, dove vivono almeno fino al matrimonio, vivono la cultura italiana e sono educati e cresciuti secondo i suoi canoni, mentre fuori sono esposti a quella americana fatta di modi di vita, di espressioni, di abbigliamento e abitudini alimentari molto diversi, che osservano e assimilano frequentando cinema, scuole e luoghi di ritrovo dei loro coetanei. Essendo culture difficili da amalgamare, spesso si sentono ai margini di entrambe».

Il problema, spiega Franco Ciarlantini in Incontro col Nordamerica nel 1929, «non va considerato solo in rapporto ai vecchi italiani emigrati, bensì ai loro figli, nati in America, educati nelle scuole americane, imbevuti di spirito americano, sagomati dal fascino che indubbiamente promana da una potente civiltà». Reazione? L’arroccamento sui «propri valori ritenuti sani e genuini rispetto a quelli corrotti, decadenti, libertini e intrisi di vizio della società» e la «chiusura ermetica del proprio mondo replicato nei quartieri etnici».

Ne scrive in America primo amore, di quegli emigrati visitati nel 1929 che ascoltavano Torna a Surriento e offrivano all’ospite l’anisetta, Mario Soldati: «Tagliati fuori dall’America come dall’Italia, hanno riprodotto, cristallizzato, tra l’Hudson e Long Island, la mentalità e la società italiana come erano all’epoca della loro emigrazione. Troviamo così a New York, conservata quasi sotto campana di vetro, la mentalità di un barbiere di Catania verso il 1890». I figli no: «Spaventoso era il palese disprezzo di questi ragazzi verso i propri genitori, che pure, emigrando, avevano dato loro il benessere in cui essi s’illudevano e la nazionalità di cui andavano tanto orgogliosi».

Macché pasta, raccontano Avagliano e Palmieri: «Il cibo italiano viene rifiutato dalle nuove generazioni. Jerre Mangione racconta d’aver avuto da ragazzo “particolare orrore dei picnic al parco pubblico” in cui le famiglie italiane consumavano “spaghetti, pollo e vino”, “con pagano abbandono” e “chiasso da circo”, a poca distanza dalle “famiglie americane che quietamente masticavano sandwich tagliati con cura che uscivano da cestini ordinatamente impacchettati”…». Niente, rispetto al dolore più grande, il rifiuto della lingua, delle origini, del nome stesso: «Non dimenticherò mai l’addolorata indignazione di un padre», annota nel 1929 un assistente sociale, «quando scoprì che la figlia invece di registrarsi sul posto di lavoro con il suo nome inconfondibilmente italiano di Augusta Solamoni si era fatta chiamare Gussie Solomon». Una scelta fatta da migliaia di Gianni Rossi auto-riciclati in John Red, Matteo Verdi in Mattew Green e così via. Fino alla bellissima Annamaria Italiano che vinse l’Oscar come Anne Bancroft. Italianissima ma felice, come aveva scritto Amy Bernardy, di potersi sentire americana. Lo diceva già Aristofane: «La patria è là dove si prospera». Mica facile chiedere che sia un buon cittadino chi viene rifiutato come cittadino…

Fonte: Gian Antonio Stella  | Corriere.it

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