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La cultura LGBT alla prova del senso civico e del bene comune

[Don Marco Begato ha iniziato con due precedenti articoli [vedi QUI e QUI] una ricerca a più tappe sulla questione gender e annessi sviluppi LGBT e Woke. Pubblichiamo ora un terzo articolo].   

Il percorso che stiamo facendo affronta il problema della cultura LGBTP, lo fa però andando anzitutto a riflettere su alcuni presupposti trasversali del vivere umano, i quali fanno da sostrato, da premessa e da motore del discorso – e non solo di quello preso in esame.

Oggi muoviamo delle considerazioni attorno al senso della comunanza, della comunità e della politica. Dove questi elementi sono vissuti secondo la loro propria natura, vengono meno o si risolvono in fretta dinamiche critiche, come lo è quella LGBTP. Viceversa, tali dinamiche si acuiscono e raggiungono posizioni croniche.

Per approfondire i concetti politici, ci appoggeremo alla nona delle “Lettere sull’Autoformazione” di Romano Guardini, un testo al contempo agile e denso e un autore per alcuni aspetti strategico. Guardini, infatti, si affianca al cammino della fenomenologia e porta una riflessione che aderisce e obbedisce ai fenomeni della realtà, rettamente includendo in tali fenomeni non solo quelli fisici, ma anche quelli emozionali, psichici e spirituali, del singolo come del gruppo. Il tutto viene da lui generalmente presentato in modo divulgativo attraverso saggi brevi e densi.

Le “Lettere” furono pubblicate nel 1921 e vennero indirizzate ai suoi discepoli e alla gioventù che negli anni Trenta affrontava il difficile cammino culturale del primo Dopo Guerra. Sotto più di un aspetto, noi e la nostra gioventù non stiamo affrontando un momento poi così dissimile. Cosa dunque può insegnarci Guardini in merito al discorso politico in genere e quindi in merito ai dibattiti ora in corso?

Guardini apre la sua nona lettera analizzando i diversi modi di porsi dei cittadini rispetto allo Stato: c’è chi lo ignora, chi lo considera un insieme di funzionari e chi lo giudica come una forza nemica. Ora, ammesse le possibili degenerazioni storiche dei governi, dobbiamo riconoscere che “lo Stato non ha una vita propria” (150), bensì dipende da noi e, più in particolare, che esso è “un compito che Dio ci ha affidato. Adempiendolo, attuiamo una delle più alte creazioni della forza umana” (151). Questo ci porta a ragionare attorno a quale sia il compito del cittadino, un compito che non si apprende dal semplice studio, perché “diventa un vero uomo di Stato solo chi riesce ad acquisire l’atteggiamento adeguato, chi capisce che cosa sia precisamente lo Stato” (153). Orbene, affinché la disposizione politica possa diventare “del tutto naturale e intuitiva” (154) è necessario un requisito: “che tu non venga, per così dire, dalla fabbrica del partito già costruito a compartimenti fissi… compartimenti che dovrebbero sostituire il pensiero”.

E qui sentiamo riemergere il tema dei pregiudizi toccato nei precedenti due articoli di questa serie ospitata sull’Osservatorio. E se in precedenza abbiamo sostato sui pregiudizi “buoni”, quelli ineliminabili e persino fruttuosi, in tale sede Guardini ci ricorda che esistono invece pregiudizi che dicono solo ottusità e chiusura del pensiero. Questi sono nocivi sempre e comunque. Contro tali “etichette” mette in guardia l’autore, perché esse impediscono lo sviluppo di un autentico senso civico. Scrivendo ai giovani, Guardini li instrada al contrario con molta attenzione ai principi più delicati, uno di questi è l’importanza di pensare con la propria testa, in autenticità: “Gran bella cosa non aver bisogno di pensare! Non vogliamo lasciarci imbottigliare il cervello dai partiti e lasciarci manipolare dai giornali” (154-155). Auspicio doppiamente valido nei nostri tempi di feroce controllo nelle comunicazioni e nella cosa pubblica.

Su queste basi, possiamo iniziare a interessarci allo Stato, che non è servitore ma sovrano; non sostituisce il cittadino, ma lo sostiene; non crea la moralità, ma vi poggia sopra; e col diritto protegge libertà, vita e proprietà. Quanto più si cancella tale visione dello Stato, tanto più ci troviamo a che fare con un’immagine sbiadita di esso, ridotto a “scopi puramente economici”, dove la sovranità è ridotta a una sorta di “potenza del calcolo”, mentre del diritto rimane una caricatura, atta a proteggere il denaro e non più i valori.

Tale decadenza sembra rappresentare la parabola della politica degli ultimi decenni, aggravata dalla perdita di “consapevolezza di ciò che ho chiamato il senso dello Stato” (157). È così, la “forza che deriva dall’intima essenza della sovranità e che consiste nel fatto che il senso della sovranità sia vivo nelle anime” sta scomparendo. Segno di questo è il fatto che non solo la Legge viene trasgredita, “ma addirittura non è nemmeno presa in considerazione”. E in ciò si dà la risposta alla grave domanda: “perché lo Stato non ha alcun valore?” E la risposta è: “proprio perché non conta niente nel cuore dell’uomo” (158).

Gli stessi giudizi che si diffondono portano con sé, subendolo e alimentandolo, tale disprezzo per lo Stato, “fanno nascere sospetti, distruggono senza rispetto, senza senso di responsabilità” (159). E l’irresponsabilità curiosamente genera molti seguaci sulla via del degrado e delle etichette, al punto che “non ci accorgiamo neppure più di come ci si abbandoni, inconsciamente, ad esse; di come si giudichi senza alcuna competenza”. Decisamente “non avvertiamo nemmeno l’indegnità e la forza distruttrice insita in un simile modo di procedere”.

Al contrario, ove la coscienza e il pensiero rimangono vigili, allora al retto senso dello Stato si accompagna una sana critica di ciò che ci sembra falso. In essa viene “prima il sì, in segno di rispetto di buona disposizione verso i propri doveri, poi viene il no della critica” (160). Essa si contraddistingue per la capacità di “distinguere, non generalizzare; distinguere le persone dalle cose, l’abuso dall’ordine veramente pensato” e sa “parlare a tempo e luogo delle persone di cui è opportuno parlare, rendersi conto degli effetti delle proprie parole”. In sintesi “ha in sé lo Stato colui che si sente responsabile del suo onore”, conscio del fatto che “dietro ogni critica deve stare il rispetto” e che la critica stessa deve essere “costruttiva e non pura denigrazione” (161). Questo si traduce nello sguardo di chi “pur vedendo errori e manchevolezza” sa dire “qui sotto c’è qualcosa che non si può demolire, che deve mantenere il suo valore”.

Ed eccoci alla nascita della Politica, che è successiva proprio perché presuppone il senso dello Stato. Politica infatti “significa che un popolo vive nello Stato, agisce nello Stato; e che agisce con lo scopo principale di arricchire, non per produrre” (163). E ancora, “comportamento politico significa agire in modo che si facciano realtà” uno Stato e un popolo in cui tutto e tutti operano sostenendosi a vicenda, per il bene reciproco, con senso di partecipazione, di valorizzazione e di sostegno dei singoli e della totalità a ogni livello.

Qui si dà lo spazio per un sano parlamentarismo, in cui i contendenti sanno di rappresentare il popolo e dovrebbero dunque poter dire “io sono qui in nome di tutto il popolo, e anche il mio collega. Insieme vogliamo ricordare ciò che è bene per questo popolo, e unire le forze vive in esso racchiuse” (165). Viceversa, si cade in una barbarie senza Stato né popolo, nella quale si riscontra che “il popolo non ha in comune nessuna grande convinzione” e nemmeno si riscontra “una volontà generale” (166): è il ritratto di un individualismo cui non si accompagna nessun buon auspicio. Tutt’al contrario ogni cittadino, e ancor più ogni politico, dovrebbe rendersi conto che lo Stato è opera nostra, cosicché il compito è quello “di riunire questo complesso di punti di vista, di scopi e di volontà in un’unità vivente”.

Per farsi meglio comprendere, Guardini introduce un esempio concreto, che merita di essere riportato per la sua significatività:
“Si racconta di un grande politico che egli avesse una sua maniera particolare di spiegarsi con l’avversario. Prima ascoltava attentamente, poi si alzava, enucleava dalle parole dell’avversario tutto ciò che c’era in esse di giusto, richiamava ancora l’attenzione su qualche punto che potesse deporre in suo favore. E così aveva riconosciuti tutti gli elementi validi dell’argomentazione, aveva fatto nascere nell’avversario la persuasione che egli lo prendeva sul serio, aveva gettato in tal modo un ponte verso di lui. Allora cominciava il famoso ‘Ma’; seguiva la sua contro-obbiezione chiara e convincente. L’avversario poteva, anzi doveva, rispondere senza irritazione se non voleva sembrare poco signore. E così dall’effettiva collaborazione, dal seno di una lotta costruttiva fra opinioni opposte, si veniva formando a poco a poco l’unità” (169).

Si tratta di un esempio mastodontico nella sua semplicità, degno di essere conosciuto e imitato a beneficio della cultura moderna.

Ma, a questo punto, si deve fare un passo indietro: lo Stato, infatti, non è solo politica e politici, bensì inizia dal cittadino comune, “comincia a prender forma a scuola, in famiglia, nel circolo di conversazione” (171). Più ancora: “lo stato si compone di persone. Ma la persona è un fatto interiore. Implica un mondo in sé”. E qui si intende il nucleo della sfida: “Stato significa che uno non vive solo nella sua vita interiore, solo con se stesso, ma anche in pubblico, con tutti gli altri”. Bisogna allora andare ad alimentare quell’ambito comune che muove gli individui verso lo Stato. Da dove partiremo?

Esso nasce anzitutto dalla lingua. La lingua crea comunanza e attraverso la parola gli uomini si legano nella promessa, nel giudizio e nell’opinione. La promessa, anzitutto, è un fatto grandioso in cui “l’uomo può costringere se stesso… Egli si costringe. Non con la violenza, ma con la libera auto-obbligazione” (172). Importante è anche il contributo dato nel giudizio, elemento costitutivo della vita comune, i giudizi “creano la base dell’azione” (175). E infine va data attenzione al ruolo della opinione pubblica, che con la sua azione “sostiene il Governo, lo sorveglia e lo rettifica”. Ora, tutto ciò significa, in negativo, che la crisi della lingua e della parola significa la crisi dello Stato: “particolarmente grave il fatto di non potersi fidare dei giudizi e delle affermazioni contenute nei giornali” (176). Laddove la parola è distrutta, è distrutto il giudizio, è distrutta l’opinione pubblica. “Chi è colpevole di tutto ciò? Ciascuno di noi. Io, tu!” (177). E questo avviene perché “noi formiamo l’opinione pubblica. Se raccontiamo qualche cosa di inesatto su qualcuno, se giudichiamo su di lui senza precise informazioni, se diffondiamo una diceria senza vagliarla”.

Guardini pone grandissima attenzione all’uso delle parole, al punto da ritenere che “chi infrange fede e credenza, promesse e patti, chi rende infide le asserzioni, è un nemico dello Stato, sia egli privato cittadino o alto funzionario” (178).

Andiamo a concludere. Dopo aver speso alcune parole sullo Stato e i politici, e dopo aver guardato al dovere della partecipazione dei cittadini, individuando nella parola il ponte che ci unisce, cos’altro manca? L’autore va a riflettere su tre elementi: in primis il valore di comando e obbedienza, “cose rare ai nostri tempi” (179).

Ma comando e obbedienza chiedono la consapevolezza circa la differenza tra chi guida e chi è guidato – secondo elemento -, e qui si inserisce la riflessione che abbiamo commentato nel precedente articolo: “Non è vero che tutti gli uomini siano uguali; sono diversi secondo le loro nature, diversi secondo il modo e la natura delle loro doti. L’uguaglianza non consiste in ciò, che tutti siano e valgano lo stesso, ma in ciò che uno sia se stesso e possa raggiungere il posto che gli compete tra gli altri. Questa è vera democrazia” (181). Riconoscere e vedere la differenza delle doti è parte integrante dell’atteggiamento politico.

Infine, si introduce il terzo e ultimo elemento: riconoscere i diversi gradi di esperienza e di maturità.

Così termina Guardini: “rifletti su tutto questo; rifletti cosa significhi in questo caso comportamento politico, in che punto della tua vita di ogni giorno tu possa rintracciarne le radici” (182). E ricorda: “comportamento politico significa partecipazione al dolore e al destino comune. Non senti quanto ciò possa essere profondo?” (183). E solo se le persone in sé hanno vissuto tale atteggiamento, allora esso si rifletterà fino alle più alte forme di organizzazione statuale e politica.

Torniamo a noi. In che modo questa lunga digressione guardiniana ci riguarda?

Anzitutto e in linea generale, essa ricorda che è necessario alimentare nei cittadini un profondo senso civico e politico. Senza una vera maturazione in tale ambito le iniziative degli individui e dei gruppi non potranno mai essere informate di qualità utili al bene comune. Ora, molti dei fenomeni ideologici più recenti, quali il movimento LGBTP o il Woke, non sembrano minimamente riflettere una tale maturità. Al contrario, sembra proprio che in essi arrivi al suo apice quella rivendicazione di diritti individuali sdoganata dai philosophes e giunta fino a noi, ormai con tinte del tutto individualiste. Il disprezzo del passato storico, del concetto di patria, delle strutture familiari e l’ostentazione eccentrica sono elementi ricorrenti in queste ideologie e sono tutti chiari segni di una mancanza di senso comunitario. Le grandi sfilate e manifestazioni, lungi dal riflettere una compagine di valori sociali, sembrano piuttosto essere eventi occasionali e sporadici in cui masse di atomi civili si aggregano temporaneamente per sostenersi a vicenda nella rivendicazione di privilegi individualistici. La violenza verbale e iconica di tali gruppi, che trasborda nello scandalo educativo verso i minori, è chiaro sigillo di tale tendenza atomizzante. Al contrario, qualora maturasse un vero senso civico e politico anche il modo e il livello del confronto attorno a temi di integrazione e progresso potrebbe trovare punti di incontro, che siano rispettosi della comunità e dei singoli, raggiungendo il giusto equilibrio tra vita pubblica e tolleranza.

Più in dettaglio, tre sono gli appunti che potremmo sottolineare in questo percorso guardiniano.

Come grande tematica, emerge la sfida della lingua: pensate al bombardamento di neologismi anglofoni o addirittura alla proposta di violentare e manipolare il linguaggio comune, pur di imporre un lessico che favorisca le richieste individualiste delle ideologie contemporanee. Pensate al proliferare di etichette insensate e violente (‘omofobo’, ‘macista’), che soffocano il confronto e ridicolizzano l’interlocutore. Pensate alle parole di critica, di distruzione, alle menzogne e alla crescente sfiducia generata dai maggiori organi di comunicazione affiliati alle nuove tendenze di pensiero. Solo la pazienza di sostare su di un linguaggio rigenerato e condiviso – suggerisce Guardini – può offrirci la base solida per costruire una reciproca comprensione e aprire vie che siano utili all’accoglienza delle persone, nel rispetto dell’ambiente comune.

Come orizzonte, il monito conclusivo della lettera apre lo sguardo al miglior futuro sociale possibile: l’autore ci invita a riflettere e a tornare alle radici. Ebbene troppe volte le istanze ideologiche attuali sembrano proporsi con grida, anziché costruire spazi di riflessione; si muovono con fretta, anziché darsi tempo di meditazione; e pretendono di far tabula rasa, anziché custodire le radici. Non credo di strumentalizzare il pensiero di Guardini, costruendo tali parallelismi. E dunque credo che con molta chiarezza le tendenze contemporanee ostentino i segni di una grande fragilità civico-politica. E ancora, l’attitudine a rivoluzionare il passato per riprogrammare il presente, quanto poco condivide quel sentimento autentico di “partecipazione al dolore e al destino comune” (183), per far piuttosto prevalere l’interesse personale e l’esternalizzazione del dolore del singolo, scaricato sulla comunità nella forma della richiesta di diritti speciali e a volte irrazionali?

Infine come metodo, nella sua semplicità e maestosità, l’esempio del parlamentare tedesco riportato alla citazione (169), si impone per la sua concretezza e fecondità:  “dall’effettiva collaborazione, dal seno di una lotta costruttiva fra opinioni opposte, si veniva formando a poco a poco l’unità”. Il percorso che dobbiamo proseguire deve mettersi allora in ascolto delle ragioni avversarie, senza tacere appunto questa contrapposizione di ruoli e di vedute, ma cercando di ricomporla nel dialogo comune. Ciò non porterà all’accettazione acritica dell’altro, ma ci porrà almeno in un solco di convivenza più fondata, favorendo rispetto e reciproca stima, e giovando a individuare insieme nuovi possibili orizzonti di comunità. La ricerca delle fondamenta culturali che alimentano oggi le aspirazioni gender e woke realizza tale sforzo di comprendere l’altro, per individuare il punto di incontro possibile e l’accesso a una rinnovata unità civica, politica e infine religiosa.

Fonte: Marco Begato | VanThuanObservatory.com

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