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Addio a Marinella Colombo, la mamma condannata per aver amato i propri figli

Addio a Marinella Colombo, la mamma milanese diventata punto di riferimento per tutti i genitori che lottano per riavere i figli ingiustamente sottratti dalla burocrazia giudiziaria. La donna è morta nel pomeriggio di ieri in un ospedale milanese, stroncata da un male scoperto da poche settimane che ha avuto un’evoluzione rapidissima. Nessuno potrà mai accertare quanto abbiano inciso sul suo fisico minuto quei lunghi anni di sofferenza, di ansia e di rabbia trascorsi in battaglie giudiziarie nel tentativo di recuperare i figli Leonardo e Nicolò, prelevati a scuola dai carabinieri e portati di forza in Germania.

Era il 2009. Lo Stato italiano si era arreso allo Jugendamt tedesco – di quella nazionalità era infatti l’ex marito della donna – il sistema di tutela per i minori secondo cui la provenienza dalla Germania, la presenza di un genitore tedesco o anche un breve periodo trascorso sul suolo tedesco devono sempre avere la prevalenza. Sistema assurdo, più volte condannato in sede europea – ci sono centinaia di ricorsi aperti – ma tuttora vigente e a causa del quale Marinella Colombo ha perso i suoi figli, nonostante una sentenza favorevole della Cassazione. Sconvolta per l’ingiustizia subita, la donna nel 2010 andò a riprendersi i suoi ragazzi con un colpo di mano e li riportò in Italia dove visse “clandestinamente” per otto mesi. Alla fine, inseguita da un mandato d’arresto europeo, si arrese e venne condannata a 18 mesi di arresti domiciliari e una serie di sanzioni pesantissime che le costarono anche il pignoramento della casa. I figli vennero di nuovo portati in Germania e a lei fu fatto divieto di vederli. Otto anni di lontananza. Un dolore insopportabile. Ma lei non si è arresa. È tornata a studiare. Ha preso un Master in Diritto, tutela e protezione dei minori, ha aperto uno sportello per aiutare i genitori che, come lei, si sono visti allontanare i figli dal sistema familiare tedesco ma anche per altre situazioni di conflitto. In questi anni si è occupata di tantissimi casi e ha dato una mano a decine e decine di madri e di padri resi “orfani” dalle pieghe di una burocrazia giudiziaria talvolta cieca e insensibile.

Nel febbraio dello scorso anno, in un’intervista che ci aveva rilasciato (vedi qui) sul problema dei bambini sottratti e portati all’estero, ci aveva spiegato che “la Germania è in Europa, oltre alla Convenzione ha firmato anche i regolamenti europei in materia, ci dicono. Nessuno crede che il diritto di famiglia tedesco sia diverso dal nostro. Nessuno immagina che un padre non sposato, pur avendo riconosciuto e dato il suo cognome al figlio, non ha nessun diritto sul bambino a meno che la madre non voglia concederglielo. Nessuno crede che i giudici tedeschi vietino i contatti (vietate anche le telefonate e i biglietti di auguri!) ad un genitore non tedesco solo perché il genitore tedesco afferma, senza dover provare nulla, che i figli non desiderano più vederlo/la. Profondamente colpevole è dunque chi ordina un rimpatrio o legalizza un trasferimento. Ogni giudice italiano che manda un bambino a vivere in Germania (a seguito di una richiesta di rimpatrio o perché il genitore tedesco, di solito la madre, dichiara di voler rientrare nel suo Paese) dovrebbe sapere che è responsabile della perdita da parte del bambino del genitore italiano, di tutta la famiglia, della lingua e della cultura italiana. Sembra un’accusa, ma è un appello alla pesante responsabilità di cui un giudice, scegliendo tale professione, si fa carico. Troppe vite sono state e continuano ad essere rovinate da chi è invece chiamato a tutelarle”.

Proprio come la sua anche se, qualche anno fa, Marinella ha avuto la grande soddisfazione di vedere tornare i suoi figli. Diventati maggiorenni, Leonardo e Nicolò hanno potuto finalmente scegliere di vivere con quella mamma che aveva sfidato il sistema giudiziario più duro d’Europa ed era finita in carcere pur di poter riabbracciare i suoi ragazzi.

Fonte: Luciano Moia | Avvenire.it

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