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La rivendicazione dei diritti LGBTP e il dovere come compito e mandato

[Don Marco Begato ha iniziato con due precedenti articoli [vedi QUI, QUIQUI e QUI ] una ricerca a più tappe sulla questione gender e annessi sviluppi LGBT e Woke. Pubblichiamo ora un quinto articolo]. 

Un passo ulteriore, che risulta strategico compiere nella nostra riflessione attorno ai movimenti LGBTP e associati, riguarda la messa a tema della rivendicazione dei diritti umani. Tale argomento non concerne direttamente la soluzione del matter of facts del tema LGBTP, bensì risulta altamente correttiva rispetto al tipo di sguardo e al modo di interrogarsi sulla questione. D’altra parte, almeno sotto un’ottica di tipo storico-sociale, la sfida maggiore inerente il nostro tema non riposa sulla raccolta dei dati: che ci sia una presenza statistica di omosessuali o di condotte sessuali devianti/alternative è cosa assodata e nota a tutti. No, a essere sfidante è il modo con cui guardiamo a tale fenomeno, come lo interroghiamo, e solo di conseguenza si potrà riflettere su quali risposte saremo capaci di fornire. In un’analisi sviluppata secondo principi cattolici questo aspetto è totalizzante. Il cattolico cioè non può in nessun caso permettersi di guardare alla realtà LGBTP con occhi secolarizzati, ma deve giudicarla con uno sguardo che sia coerente coi principi evangelici e col logos che informa l’esistenza del battezzato. Si tratta di un discorso che vale ovviamente per molte questioni culturali, non solo per la debacle LGBTP.

In particolare, tale discorso risulta di grande impatto negli ultimi tre secoli: col venire avanti di una mentalità illuminista e liberale i valori propriamente cattolici sono stati sempre più scalzati e messi all’angolo, provocando l’emergere di un nuovo sguardo sulla realtà e sul senso dell’umano, uno sguardo molte volte antitetico e incomponibile con quello cristiano tradizionale. Nulla togliendo ai contributi positivi che il pensiero moderno ha portato, rimane il fatto che la weltanschauung di fondo resta nettamente alternativa a quella cattolica e chiede dunque un grado di consapevolezza e una forza di riposizionamento assolutamente lucida e vigorosa. Se dunque rimane pur valido a riconoscere il valore di un invito al dialogo con altre culture – così come suggerito dal XXI Concilio Ecumenico, il Vaticano Secondo – non dovremo però in nulla illuderci che sia possibile un compromesso con quelle. La distanza sostanziale tra l’impostazione moderna e quella cattolica deve suscitare allerta. Ripeto, non si esclude il confronto razionale, ma va bandita qualsiasi indulgenza a commistioni eclettico-sincretiste coi pensatori moderno-liberali. Il nostro bagaglio sapienziale si connota per un profilo inconfondibile e quindi da non contaminare.

Ora, proprio il tema dei diritti può essere una buona piattaforma in cui testare quanto affermato finora, cioè l’appello a verificare che il proprio sguardo sulla realtà sia coerente con la lettera e lo spirito del Vangelo. Come procederemo? Prediligo, come mio solito, appoggiarmi ai paragrafi relativi al tema presenti nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa. All’argomento è dedicato il III capitolo della prima parte, quarto paragrafo, in coda a quelli dedicati alla descrizione della persona umana e dell’antropologia cristiana.

L’insegnamento della Dottrina Sociale della Chiesa

“Il movimento verso l’identificazione e la proclamazione dei diritti dell’uomo è uno dei più rilevanti sforzi per rispondere efficacemente alle esigenze imprescindibili della dignità umana. La Chiesa coglie in tali diritti la straordinaria occasione che il nostro tempo offre affinché, mediante il loro affermarsi, la dignità umana sia più efficacemente riconosciuta e promossa universalmente quale caratteristica impressa da Dio Creatore sulla Sua creatura. Il Magistero della Chiesa non ha mancato di valutare positivamente la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” (n. 152).

Si apre così la trattazione di un contenuto spinoso e dibattuto, introdotto in effetti con termini allusivi e sottili: da un lato si riconosce nella “proclamazione dei diritti dell’uomo” uno dei “più rilevanti sforzi”, nonché una “straordinaria occasione che il nostro tempo offre”, dall’altro subito si chiarisce che essi valgono come via e mezzo finalizzati a promuovere “la dignità umana” e infine si riconosce che la “Chiesa non ha mancato di valutare positivamente la Dichiarazione universale”. Vi è dunque un apprezzamento dei diritti, che però sembra essere affermato con una sorta di reticenza e decisamente senza confondersi con le modalità proprie del cammino civile. “Non ha mancato di valutare positivamente” equivale a un grosso freno tirato proprio a inizio del capitolo.

Del resto ciò che il Compendio della DSC non esplicita è che fino al secondo dopo guerra la tradizione teologica e culturale cattolica è stata sempre fortemente scettica, quando non ostile nei confronti del discorso sui diritti.

Se prendiamo, a titolo di esempio, le dichiarazioni di Monaldo Leopardi nel suo “Catechismo Filosofico” (Fede e Cultura, Verona 2006), squillante esempio di cultura cattolica anti-illuminista, leggiamo in modo molto esaustivo quale fu la prima reazione degli intellettuali cattolici alla proclamazione dei diritti fatta propria dai philosophes:

“La dottrina predicata dai filosofi sui diritti dell’uomo è un altro artifizio adoperato dalla malvagità per attizzare le passioni e sovvertire il mondo… L’uomo non ha e non può avere diritti propri indipendenti dalla concessione di Dio, la natura umana non dovrà mai considerarsi come una cosa astratta e disgiunta dall’opera Divina, e le ragioni dell’umanità dovranno cercarsi solamente nel comando e nella parola di Dio”. (p. 116)

Torneremo più avanti sulle teorie di Leopardi padre. Per ora restiamo sul Compendio. Ci accorgiamo che la scelta ratificata da Giovanni Paolo II è stata quella di accettare il discorso sui diritti, però a una condizione, che cioè si mantenesse il termine, ma si adoperasse una robusta risemantizzazione dello stesso, in modo che il cattolico intendesse ed adoperasse tale espressione secondo significati propri e coerenti col depositum fidei, liberandosi dalle interpretazioni moderne, liberali e anticlericali della stessa. Riassumendo: il tema dei diritti nasce e matura in un contesto antropologico e politico ostile alla visione cattolica, per cui, se pur i delitti del XX secolo ci hanno mostrato l’opportunità di avvicinare i popoli in un dialogo di pace accomunato dal vocabolario dei diritti, rimane sempre necessario darne una rilettura radicale che li nobiliti e li strappi alle ambiguità che la modernità porta seco e rovescia su di essi.

Come ne tratta di fatto il Magistero recente? La lezione magisteriale sui diritti ci chiede anzitutto di riconoscere che:

La radice dei diritti dell’uomo è da ricercare nella dignità che appartiene ad ogni essere umano. Tale dignità, connaturale alla vita umana e uguale in ogni persona, si coglie e si comprende anzitutto con la ragione” (n.153).

Una prima verità si affaccia al lume della ragione, sì da non richiedere nemmeno la condivisione della fede per essere apprezzata e accolta, e tale verità concerne il radicamento dei diritti nella dignità della persona. In tale senso è normativa la scelta del Compendio, di presentare prima i caratteri della persona umana e solo secondariamente la natura dei diritti: questi sono radicati in quella, a servizio di quella, finalizzati a quella. Qualsiasi interpretazione o manipolazione dei diritti che leda la dignità umana è solo abuso e stortura e sarà da condannare.

Ugualmente, procede il numero 153, “la fonte ultima dei diritti umani non si situa nella mera volontà degli esseri umani, nella realtà dello Stato, nei poteri pubblici, ma nell’uomo stesso e in Dio suo Creatore. I diritti non escludono dunque un riferimento a Dio, al contrario ne dipendono; i diritti non possono mai essere promossi nel disprezzo del Creatore, bensì devono tutelare giuridicamente la dignità delle creature in quanto tali, in quanto cioè volute dal Creatore e in quanto dipendenti dal Suo Essere.

Ogniqualvolta vengano presentati dei diritti che offendono Dio, la natura della creazione e la dignità dell’essere umano, lì sappiamo con certezza che non si tratta di diritti. Più facilmente – e tornano in mente molti interventi di Giovanni Paolo II, diffusive in Evangelium Vitae – saranno “capricci” inclini a favorire “crimini” e “delitti”.

Al numero 154 si introduce un criterio ermeneutico semplice, ma strategico:

I diritti dell’uomo vanno tutelati non solo singolarmente, ma nel loro insieme: una loro protezione parziale si tradurrebbe in una sorta di mancato riconoscimento. Essi corrispondono alle esigenze della dignità umana e implicano, in primo luogo, la soddisfazione dei bisogni essenziali della persona, in campo materiale e spirituale: ‘tali diritti riguardano tutte le fasi della vita e ogni contesto politico, sociale, economico o culturale. Essi formano un insieme unitario, orientato decisamente alla promozione di ogni aspetto del bene della persona e della società… La promozione integrale di tutte le categorie dei diritti umani è la vera garanzia del pieno rispetto di ogni singolo diritto’”.

Si tratta del principio di indivisibilità. Credo che esso offra un importante paradigma nell’elaborazione di una carta dei diritti: ci obbliga infatti a considerarli nella loro totalità. Per questa via si ottiene un antidoto contro il rischio di leggere i diritti in modo decontestuale, assolutizzandoli e con ciò facilmente piegandoli ai propri interessi. Il principio di indivisibilità scongiura il rischio che i diritti divengano strumento di esaltazione di singoli o minoranze, a dispetto della collettività: le minoranze infatti potrebbero beneficiare egoisticamente di singoli diritti, mentre la collettività risulta complessivamente tutelata dai diritti presi nella loro organicità. Il principio di indivisibilità non solo conserva l’anelito politico dei diritti e inibisce l’appropriazione egoistica degli stessi, bensì ricorda che lo sguardo portato dall’orizzonte dei diritti è uno sguardo a tutela della pace di tutti e non può mai favorire un aggressus di una fazione a danno o a prevaricazione di un’altra parte, tantomeno della maggioranza e della comunità nel suo intero.

A queste indicazioni iniziali segue, a scanso di equivoci, l’elenco di quelli che possono essere considerati effettivamente diritti. Non è escluso che altri verranno formulati in futuro alla luce delle prossime emergenze culturali (penso alla crescente questione dell’Intelligenza Artificiale). Ma appare per intanto evidente che vanno giudicati estranei e incompatibili con questo elenco tutti quei diritti di cui già da anni si dibatte, ma che appunto non meritano la menzione del Magistero:

“Gli insegnamenti di Giovanni XXIII, del Concilio Vaticano II, di Paolo VI hanno offerto ampie indicazioni della concezione dei diritti umani delineata dal Magistero. Giovanni Paolo II ne ha tracciato un elenco nell’enciclica ‘Centesimus annus’: ‘il diritto alla vita, di cui è parte integrante il diritto a crescere sotto il cuore della madre dopo essere stati generati; il diritto a vivere in una famiglia unita e in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria personalità; il diritto a maturare la propria intelligenza e la propria libertà nella ricerca e nella conoscenza della verità; il diritto a partecipare al lavoro per valorizzare i beni della terra ed a ricavare da esso il sostentamento proprio e dei propri cari; il diritto a fondare liberamente una famiglia e ad accogliere ed educare i figli, esercitando responsabilmente la propria sessualità. Fonte e sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la libertà religiosa, intesa come diritto a vivere nella verità della propria fede ed in conformità alla trascendente dignità della propria persona’” (n.155).

Il diritto di aborto, il diritto di morire, il diritto di matrimonio omogenitoriale, il diritto di adozione omosessuale, il diritto al figlio, il diritto al piacere sessuale, il diritto di cambiare sesso et similia non sono recepiti, ergo non sono diritti. La lezione, sia pur piana e dogmatica, è chiara. E questo dovrebbe sempre più renderci accorti circa il senso di un dialogo sui diritti tra noi e il mondo, circa l’ambiguità di tale impresa, circa i limiti e la criticità che ciò comporta e implica.

Sempre nel numero 155 si torna anche sulla dibattuta questione della libertà religiosa:

“Tutti gli uomini devono restare immuni da costrizione da parte sia dei singoli, sia dei gruppi sociali e di qualsiasi autorità umana, così che in materia religiosa, entro certi limiti, nessuno sia forzato ad agire contro la propria coscienza, né sia impedito ad agire secondo la sua coscienza, in privato e in pubblico, da solo o associato ad altri. Il rispetto di tale diritto è un segno emblematico « dell’autentico progresso dell’uomo in ogni regime, in ogni società, sistema o ambiente”.

Non mi dilungherò sulla tematica, dato che stiamo attraversando la trattazione dei diritti col fine simplex di chiarire il senso della rivendicazione dei diritti LGBTP, ma appunto in tale luce risulta non secondario l’appello alla libertà religiosa. Quanto più riconosceremo che la differenza dei sessi è verità connaturata alla rivelazione, tanto più riconosceremo che una cultura oppositiva rispetto a tale verità si porrebbe in atteggiamento espressamente antireligioso. Tale è l’abbrivio percorso dalla propaganda LGBTP. Qualora effettivamente la cultura LGBTP pretenda di scavalcare, tra gli altri, il diritto autentico di libertà religiosa, avremmo il segnale di una grave violazione dei diritti fondamentali. Come conseguenza dovremmo a buon diritto temere una dissoluzione sociale, alla cui tutela i diritti volevano essere funzionali, al cui sfacelo concorrerebbe inevitabilmente l’abuso di quelli. Senz’altro dilungarmi, vorrei ancora far notare come in molti casi i Pride prevedono a programma la presenza di pastafariani e altri esponenti dell’anticlericalismo e del laicismo intollerante contemporaneo. Non sono alleanze neutre, al contrario offrono lumi per giudicare il senso di certi movimenti e delle relative rivendicazioni. Intelligenti pauca.

Dopo la presentazione di radici e principi dei diritti, e dopo l’elenco degli stessi, il Compendio introduce l’ultima questione fondamentale: il rapporto tra diritti e doveri.

“Più volte viene richiamata la reciproca complementarità tra diritti e doveri, indissolubilmente congiunti, in primo luogo nella persona umana che ne è il soggetto titolare. Tale legame presenta anche una dimensione sociale: ‘Nella convivenza umana ogni diritto naturale in una persona comporta un rispettivo dovere in tutte le altre persone: il dovere di riconoscere e rispettare quel diritto’. Il Magistero sottolinea la contraddizione insita in un’affermazione dei diritti che non preveda una correlativa responsabilità: ‘Coloro pertanto che, mentre rivendicano i propri diritti, dimenticano o non mettono nel debito rilievo i rispettivi doveri, corrono il pericolo di costruire con una mano e distruggere con l’altra’” (n.156).

La formulazione di un diritto si scontra con questo ulteriore filtro: il diritto che non può essere compreso in complementarietà col proprio dovere, diviene occasione di distruzione e perde il valore di edificazione del bene comune. Anticipavamo più sopra e ora torniamo a ribadire: un diritto che non sia compensato dal dovere si definisce capriccio e dà luogo a delitto.

Di qui conseguono almeno due applicazioni pratiche. La prima: ogniqualvolta sosteniamo la difesa di un diritto autentico, essa va promossa congiuntamente alla corrispettiva promozione del dovere correlato. Per esempio, il diritto alla libertà di espressione non può non accompagnarsi al dovere per una comunicazione veritiera, completa, prudente e virtuosa. La seconda: ogniqualvolta viene presentato un diritto, possiamo assaggiarne la bontà confrontandolo col dovere correlato. Per esempio, parlando del diritto al piacere sessuale (sexual feelings, https://www.unfpa.org/sites/default/files/pub-pdf/ITGSE.pdf) quale dovere gli faremo corrispondere? Chi sarebbe il soggetto tenuto a soddisfare tale diritto, in che forma, con quali limiti? Ecco due applicazioni utili ove a tutelare un diritto nella sua bontà e ove a smascherare quei delitti che si travestono da pseudo-diritti.

Il Compendio conclude poi al numero 159 con un robusto appello a procedere in questa difesa dei diritti, ovviamente fatte salve le indicazioni che precedono. Si invita al duplice compito dell’annuncio dei diritti e della denuncia degli abusi; si intravede nel dialogo interculturale un mezzo valido per approfondire il valore dei diritti; si conclude raccomandando a Dio ciò che evidentemente non può riuscire in modo adeguato se affidato alle sole forze umane: “La Chiesa confida soprattutto nell’aiuto del Signore e del Suo Spirito che, riversato nei cuori, è la garanzia più sicura per rispettare la giustizia e i diritti umani, e per contribuire quindi alla pace: ‘Promuovere la giustizia e la pace, penetrare con la luce e il fermento evangelico tutti i campi dell’esistenza sociale, è sempre stato un costante impegno della Chiesa in nome del mandato che essa ha ricevuto dal Signore’”.

Andiamo a raccogliere le nostre considerazioni complessive, applicandole alla questione LGBTP.

La lezione sui diritti ha posto chiarissimi riferimenti: si fondano in Dio e non possono mai contraddirlo; si radicano nella dignità umana e non possono mai offenderla; si elencano in una serie di voci, che vedono in prima posizione la tutela della vita e della famiglia; si perfezionano nella relazione ponderata coi rispettivi doveri.

Alla luce di questo merita riconoscere che i diritti LGBTP in quanto tali non trovano fondatezza. Esiste, questo sì, il diritto del singolo ad essere rispettato nella propria espressione individuale, eventualmente sessuale, commisurato dal dovere di manifestare tale espressione con altrettanto rispetto nei confronti della società che lo accoglie. Gli atti immorali vengono tollerati finché restano in una dimensione privata occulta e non incidono sul bene comune. Ma qualsiasi rivendicazione sociale sessuale risulta inconsistente: nella dimensione di coppia in quanto incapace del corrispettivo dovere di generazione; nel riferimento all’infanzia, in quanto lesiva della dignità del bambino e del suo sviluppo sano; risulta poi limitata la dimensione della propaganda, che non deve essere posta nella forma dello scandalo e del pervertimento, bensì viene accolta nella forma del dialogo e del contributo culturale arricchente.

Andando oltre la lettera del Compendio, tra le righe dello stesso si potrebbe intuire un argomento ulteriore, in ogni caso facile da condividere nel confronto razionale: i diritti devono porsi il problema del limite. Esso appunto è insito nella trattazione magisteriale, dal momento in cui si additano radice e fondamento, oltre i quali nessun diritto ha da porsi. Più esplicitamente possiamo e dobbiamo interrogarci sul limite oltre il quale le richieste e le rivendicazioni, quali che siano, chiedono di essere frenate. La questione del limite sembra esplicitamente evocata dalla dicitura diffusa di LGBT+. Quel ‘plus’ significa infatti che non è più dato porre alcun limite oggettivo alle evoluzioni del movimento queer. Ma questo ugualmente significa che appartiene a tale movimento la disponibilità ad accogliere nel proprio seno anche manifestazioni aberranti e abominevoli. Noi sinteticamente le convogliamo nella dicitura LGBTP, dove l’ultima lettera richiama all’incontestabile potenziale pedofilo insito nella cultura arcobaleno. Torneremo su tale tematica in un capitolo dedicato. Per oggi basti ricordare che qualsiasi proposta culturale deve garantire vincoli intrinseci, utili a scongiurare derive suicidarie e disumanizzanti. La promozione di diritti radicati nella volontà popolare o nel voto democratico, privi di argini oggettivi, rappresenta una grave distorsione della vita politica, capace di trasformare gli strumenti di tutela del bene comune in sistemi di disfacimento della dignità umana. Nessun diritto che non sia capace di indicare il proprio limite oggettivo e di indicarlo nei confini della salvaguardia dell’umanità, dovrà mai essere approvato o apprezzato e nemmeno divulgato.

La storia e la cronaca delle rivendicazioni LGBTP non sembrano insomma offrire elementi utili ad assumerle nella forma dei diritti.

Al di là del diritto e del dovere

Tutto considerato, e soprattutto tenendo conto sia dell’interpretazione eterogenea del concetto di diritto in ambito cattolico (ammesso e non concesso che i cattolici la conoscano e riconoscano come propria) e in ambito liberale, quanto della conclusione frustrante che nega agli LGBTP in quanto tali dei diritti, ritengo stimolante introdurre una riflessione personale, francamente alternativa o almeno costruttivamente critica rispetto al discorso fin qui condotto. Mi chiedo se non sia conveniente iniziare a introdurre un nuovo modo di esprimersi e di pensare, che intercetti le urgenze sincere della debacle sui diritti, ma vada ad abbandonare questo termine così ambiguo e così pesantemente vincolato al modo di ragionare moderno.

Tornerei dapprima sulle parole di Monaldo Leopardi, sempre inteso come esemplare semplice ma cristallino del retaggio culturale cattolico più tradizionale e veracemente romano. Abbiamo più sopra citato le sue espressione di critica sprezzante alla cultura dei diritti. Abbiamo omesso di approfondire quale fosse la proposta fatta propria dalla scuola tradizionale cristiana, quale l’alternativa cattolica all’onda di pensiero dei philosophes?

“I Libri Santi sono più un codice di leggi che un diploma di privilegi. Incominciando dalla vita voi non troverete nella Scrittura che Iddio abbia detto all’uomo ‘Io vi accordo il diritto di vivere’, ma troverete detto ad ogni uomo ‘Non uccidere’… La parola di Dio ha provveduto al buon ordine universale, stabilendo più i doveri degli uomini che proclamando i diritti dell’uomo… Non ci illudiamo sulla natura dell’uomo, e persuadiamoci che siamo nati col debito dell’ubbidienza e non con l’autorità del comando; deponiamo l’orgoglio dei filosofi e riversiamo l’uomiltà dei cristiani… Se ognuno farà il suo dovere, non ci sarà mai bisogno di ragionare sui diritti degli uomini” (pp. 116-118).

Ricompare l’argomento dei doveri. Se però il Compendio lo pone come tema correlato al diritto e come ancora di quest’ultimo, nella catechesi del Leopardi esso è motivo principale e predominante, quasi esclusivo. In realtà, sebbene di soppiatto, esso si interfaccia con la questione dei diritti, ma per lo più solamente in una forma polemica e sprezzante: “L’uomo non può avere diritti propri indipendenti dalla concessione di Dio… Nella Scrittura si parla men di diritti che di doveri” (p. 116).

L’insegnamento di Leopardi è sicuro e rispecchia un’antropologia profonda ed equilibrata, fortemente segnata dalla lettura teologica del peccato e della valorizzazione filosofica della socialità. Risulta forse riduttivo però nel suo riferimento esclusivo ai doveri, senza ulteriori integrazioni con le suggestioni degli interlocutori coevi, e risulta ancor più problematico se letto e accostato al solco critico del pensiero filosofico successivo, dilaniato tra doverismi kantiani e libertinismi contemporanei.

Proverò allora a completare questo capitolo andando ad abbozzare una teoria che vorrebbe riprendere in positivo gli elementi di valore predicati e dal Leopardi e dal Compendio, andando poi a rielaborarli ulteriormente verso nuove direttrici. Ovviamente non ho pretesa di risolvere in concreto alcunché, ma ho piacere di dare un minimo contributo nel tentativo di rinnovare il modo di pensare antropologico, cosa cui richiamavo nell’introdurre l’articolo odierno. Anzi, credo sinceramente che lo sforzo polivoco di trovare nuove strade e di rielaborare in modo aggiornato gli ideali tradizionali debba essere incoraggiato e diffuso, quale vivace corrente da contrapporre al monolite ideologico nel quale si stanno ormai cristallizzando con inerzia monotona e poderosa le varie sfaccettature del pensiero post-moderno.

A tal fine ritengo conveniente spostarsi dalla visione giuridica dei diritti verso una visione morale dei valori. Slittiamo dalla rivendicazione di diritti a tutela del soggetto e piuttosto ci interessiamo a quei doveri e compiti necessari a tutelare il bonum inerente la dignità della persona umana. E ancora, sostituirei il termine ‘dovere’ col termine ‘compito’ e mi preoccuperei anche di sottolineare che la persona umana è da noi sempre intesa nella forma del ‘dono’. Quale sarebbe il guadagno complessivo di queste variazioni? Nella prospettiva del dono dovremmo riuscire a sottrarci alla logica delle rivendicazioni, purtroppo sempre presente nella debacle sui diritti dell’uomo. Mantenendo il centro sulla persona umana, terremo contemporaneamente in equilibrio il complesso intreccio di qualità che la caratterizzano, in modo più compiuto e completo rispetto a quanto fanno altre definizioni antropologiche in uso (cittadino, soggetto, individuo, etc.): si pensi al fatto che il concetto di persona implica la convergenza virtuosa tra singolarità e comunitari età (cfr. Parte Prima, Capitolo III del Compendio di DSC, primi III paragrafi). D’altra parte l’insistenza sulla dignità è tema che dovrebbe risultare sintonico con lo spirito moderno. Infine, partendo da compiti e doveri si conserva una dimensione imperativa capace di intercettare l’appello più intimo all’umanità.

Forse, per fare un ultimo passo, più che parlare di compiti potrebbe convenire ricorrere al concetto di mandato. Già linguisticamente esso richiama un ventaglio di altre espressioni: i comandamenti, la missione (dal latino missio, mandare), l’apostolato (dal greco apostèllo, mandare), il tutto espresso con un termine più neutro rispetto al contesto religioso dei precedenti, e al contempo distante dalle connotazioni moralistiche dei leopardiani doveri. Mandato per altro significa “dato in mano” e pare dunque un buon termine, corrispondente all’evidenza per cui la vita con ogni suo beneficio è dono di Grazia che ci è posto tra le mani. La custodia umile e piena di gratitudine per il dono ricevuto assume quindi felicemente la forma del mandato, del dono posto tra le mani. Per simile via conserviamo l’indicazione del Monaldo, quella di guardarsi dall’orgoglio di chi non si riconosce creatura e non riconosce il dono, ma al contrario si ritiene tanto autonomo e indipendente da dover reclamare diritti. Parlando di mandati tale orgoglio sfuma ed esce di scena e con esso anche la rivendicazione dei diritti lascia il campo a un nuovo atteggiamento esistenziale, cioè la presa in carico del dono e la accettazione di quanto ricevuto tra mano. Mandato può richiamare anche al fatto che è qualcosa che si passa di mano in mano e con ciò evoca il concetto superiore di Tradizione. Tale concetto ha il merito di superare l’individualismo e il solipsismo culturale in cui fin dal principio sono stati forgiati e stagionati i diritti nella loro accezione predominante, illuminista e occidentale.

A tal punto, accolto il termine, notiamo che la formulazione finale dell’impegno in favore della dignità umana consisterà in un elenco di mandati e non in una lista di diritti. E per ciò stesso il discorso prenderà un orientamento fortemente rinnovato, il perché è evidente dalla formulazione stessa: risulterebbe infatti immediatamente abominevole parlare di un mandato di aborto, mentre risulta in fin dei conti accettabile insinuare un diritto all’aborto. Ugualmente e per tornare alla nostra riflessione, cadranno tutti i riferimenti al diritto di matrimonio omosessuale o al diritto di adozione da parte di coppie omogenitoriali. Al posto di tali pretese e delitti e capricci si imporranno i nuovi mandati, i quali nel nostro caso potranno declinarsi come mandato di accogliere la diversità e la fragilità, mandato di realizzare la pienezza del proprio essere nei limiti previsti dalla natura dello stesso, mandato di offrire agli infanti un contesto di crescita adatto ai loro bisogni evolutivi, mandato di dare compimento ai propri più alti ideali nella forma soprattutto dell’amore e dell’amicizia considerati secondo la loro propria specie. A conti fatti, se il discorso dei diritti ci portava a negare senza replica i diritti LGBTP e a denunciare senza indulgenza i delittuosi pseudo-diritti degli stessi soggetti, la teoria dei mandati – sia pur abbozzata in forma meno che minimal – è capace di rivolgersi a tali uomini con un’attenzione positiva e propositiva, che appunto chiama la società a un mandato di ascolto e inclusione di ogni categoria, fermo restando i limiti già espressi più sopra.

E qui mi fermo in questa evocazione di una possibile via alternativa alla partita dei diritti. Sarò curioso anche di ascoltare la reazione dei lettori a riguardo.

Ancora una volta dunque ci troviamo di fronte alla urgenza di convertire e cambiare radicalmente il modo di pensare ed esprimerci e guardare e valutare la realtà, in questo caso la realtà della omosessualità. Da questo cambiamento dipende la possibilità di riconoscere, grazie alle nuove prospettive adottate, la dignità più propria e più autentica del fenomeno considerato e conseguentemente la possibilità di affrontare tale fenomeno secondo schemi e decisioni che siano degne in se stesse, perché dignitose rispetto al fenomeno, perché basate sul riconoscimento della dignità propria della persona umana (in questo caso omosessuale) alla quale si rivolge la cura tanto personale quanto della società. Le proposte che andremo avanzando nei prossimi episodi potranno essere comprese e condivise unicamente a patto di aver assunto la conversione di sguardo testé proposta e di interpretare le riflessioni a venire appunto alla luce e nel solco di tale rinnovamento prospettico. Qualora simile modifica del pensiero non sia accolta e nemmeno teoreticamente intesa, le conclusioni della nostra ricerca non potranno se non subire strumentalizzazioni e fraintendimenti e in generale tutta la sfida LGBTP sarà costretta a rimanere sul binario culturale finora percorso con tutti i limiti, le ambiguità, la perniciosità cui abbiamo fatto finora cenno e che ancora dovremo rimarcare.

Fonte: Marco Begato | VanThuanObservatory.com

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