Un viaggio da fare insieme Anticipiamo l’intervento dello psicoterapeuta Alberto Pellai nella giornata di lancio del progetto «Pari. Insieme contro la violenza di genere», venerdì 27 settembre a Milano. Il progetto che nasce da un network di aziende con l’obiettivo di agire nella società e nelle imprese.
Noi esseri umani siamo nati con una mente affamata di relazionalità. Nel film Cast Away Tom Hanks, unico sopravvissuto in un incidente aereo, approda su un’isola deserta e deve imparare a sopravvivere. Prima di allora non aveva mai dovuto procurarsi il cibo, l’acqua o un riparo dalle intemperie. Nella sua vita tutto era garantito. Quando riesce a portare a termine questi obiettivi primari, e quindi quando la sopravvivenza non è più un problema, sente che gli manca qualcosa di fondamentale: una persona con cui relazionarsi. Ma l’isola è deserta e quindi non c’è nessuno. Per tamponare la disperazione, costruisce un pupazzo con un pallone riportato a riva dalla marea. Disegna un volto su quel pallone e lo umanizza: è così che nasce Wilson, il suo compagno di vita durante l’esperienza di uomo condannato alla solitudine da un incidente imprevedibile.
Questa immagine di uomo solo e disperato che, pur di relazionarsi con un “altro da sé”, umanizza un pallone da calcio è una metafora potentissima, che racconta in modo formidabile il bisogno di prossimità e intimità, di contatto e dialogo tipico degli esseri umani. La relazione amorosa rappresenta l’esperienza che nella vita più risponde ai nostri bisogni di prossimità e intimità, contatto e dialogo. La violenza di genere ci testimonia però che noi esseri umani siamo anche in grado di trasformare questo “bisogno” in sopraffazione, violenza, sottomissione, annullamento dell’altro. L’emergenza sociale associata a questo fenomeno ci ha spinto negli ultimi anni a promuovere un’azione educativa e preventiva finalizzata al suo sradicamento. Compito che a oggi appare difficile da raggiungere visto che i casi di cronaca ritornano con una periodicità costante e urgente. Nell’ampio dibattito intorno all’educazione di genere, e nelle azioni intraprese sempre più frequentemente a scopo educativo e preventivo in questo ambito, emerge oggi molto forte il bisogno di aiutare le ragazze e le donne a riconoscere e ad allontanarsi il più presto possibile dal partner affettivo che potrebbe incastrarle in una relazione manipolatoria e violenta. Si fa anche grande attenzione ad aiutarle a riconoscere i fattori di rischio, i campanelli di allarme e le situazioni “ trigger” che trasformano una relazione in cui ci si dovrebbe sentire amati in una gabbia dove si è intrappolati, resi dipendenti, violati sia emotivamente sia fisicamente.
Si tratta di una narrazione necessaria, ma che spesso costringe i due generi – maschile e femminile – a considerarsi collocati su due fronti opposti: da una parte il genere femminile, che è a rischio e vulnerabile alla vittimizzazione, e dall’altra il genere maschile, che è aggressivo e predisposto alla violenza. È evidente che, quando la violenza accade, quando l’uomo che aggredisce rende vittima la donna, hanno agito tutti gli aspetti della mascolinità tossica e della cultura patriarcale, portando al fallimento di qualsiasi strategia educativa e preventiva efficace. Come uomo, compagno di vita di una donna, padre e specialista della salute mentale, io penso che l’educazione di genere oggi debba dare spazio anche a un altro aspetto: insegnare ai giovani maschi una nuova consapevolezza emotiva che permetta loro di sperimentarsi in un percorso di formazione e di crescita tale da aiutarli ad allontanarsi dal mito del “vero uomo” per permettere loro di addentrarsi alla scoperta “dell’uomo vero”. Questo processo deve contrassegnare tutto il percorso evolutivo del ragazzo, perché possa essere al centro della sua futura vita di uomo adulto. È un approccio molto diverso da quello che insegna a non agire con violenza in una relazione o all’interno di un rapporto, perché prevede di aiutare i maschi a considerare, nelle relazioni con ragazze e donne, e in generale con un/una partner affettivo/a, la bellezza di costruire vicinanza e prossimità, intimità e sicurezza.
Ciò che spesso fa esplodere la violenza di genere è il bisogno di “possedere” l’altro, presidiandone fermamente il controllo. Nel percorso di educazione oggi necessario si deve proporre ai ragazzi la bellezza e l’importanza di lavorare su di sé, sul proprio gruppo di riferimento, e più in generale su tutto l’universo maschile affinché ogni bambino che diventerà adolescente e poi uomo possa formarsi alla scoperta del valore e delle competenze emotive e cognitive necessarie a sentirsi appartenenti a una relazione, così da generare e condividere un’intimità sana con “l’altro da me”. In questa dimensione il controllo perde di significato, perché la formazione esistenziale e affettiva si basa sulla fiducia e sul rispetto della capacità di entrambi i componenti di una coppia.
Non penso sia possibile per noi uomini e padri fare tutto questo da soli. Questa sfida, educativa e culturale al tempo stesso, deve essere affrontata facendo squadra. Tra noi maschi, ma anche e soprattutto con le ragazze e le donne che vivono al nostro fianco. Il rischio, altrimenti, è quello di diventare tutti come Tom Hanks sull’isola deserta: ce la raccontiamo, ma stiamo in realtà parlando senza avere un vero interlocutore con cui confrontarci, generare ascolto e condivisione. In questo percorso è fondamentale imparare a costruire una nuova alleanza tra genere maschile e femminile che permetta a entrambi di trovarsi coinvolti a vivere relazioni efficaci e rispettose, dignitose e reciprocamente arricchenti, in cui il valore e la bellezza della parità e della reciprocità diventino prerequisiti desiderati e ricercati – con uguale passione e sforzo, consapevolezza e determinazione – da entrambi i membri della coppia. Non siamo nati per stare soli. L’altro ci permette di dare compimento alla nostra dimensione umana più complessa e profonda, quella che si basa sulla relazione, sulla cooperazione e sulla condivisione.
L’amore in fondo nasce proprio da questo: è più bello condividere in due un tratto di vita, o addirittura tutta l’esistenza, con ciò che ci sa offrire. Stare in relazione con “l’altro” non è facile. Richiede competenze emotive, socio-relazionali, cognitive. Comporta la capacità di far fruttare al meglio le due menti insite in ogni individuo e che Howad Gardner ha definito «mente intrapersonale» e «mente interpersonale». La prima aiuta a conoscere noi stessi e si basa sul dialogo interiore, sulla messa a punto di un vero sé nel corso della propria esistenza. Questo sé si confronterà e verrà condiviso con chi avremo accanto nella vita, per caso o per nostra scelta. E grazie alle competenze della nostra mente interpersonale sperimenteremo la bellezza del fare squadra, coppia e famiglia (con le molteplici declinazioni che oggi tale termine comprende). Tutto questo non ha genere. Ci appartiene in quanto esseri umani. E lo dobbiamo apprendere quando siamo in crescita, per poi metterlo in pratica una volta diventati adulti. Questo è un percorso che noi esseri umani del terzo millennio dobbiamo imparare a fare, senza distinzioni di genere. E che deve essere messo al centro del sostegno alla crescita che va reso disponibile a ogni bambino e bambina del terzo millennio, accompagnandone la crescita e lo sviluppo fino al raggiungimento dell’adultità.
Fonte: Alberto Pellai | Avvenire.it