[Don Marco Begato ha iniziato con due precedenti articoli [vedi QUI, QUI , QUI, QUI e QUI] una ricerca a più tappe sulla questione gender e annessi sviluppi LGBT e Woke. Pubblichiamo ora un sesto articolo].
In questa tappa andiamo finalmente a guardare più direttamente in che consista la proposta LGBTP. Lo faremo interrogando due valide autrici, che propongono l’inquadramento filosofico, quindi il più radicale e significativo possibile, della questione arcobaleno. L’impostazione di queste autrici è tale da permetterci di estendere la riflessione non solo alle tematiche sessuali, ma anche a quelle sociali e transumaniste in genere.
Anzitutto incominciamo da una buona notizia: il pensiero LGBTP può essere facilmente ricondotto a delle precise scuole filosofiche e questo implica che tale pensiero, come ogni posizionamento filosofico che si rispetti, non ha valore assoluto e dogmatico, bensì può essere giudicato, avrà probabilmente degli spunti interessanti da offrirci, sarà però pur sempre passibile di superamento da parte di modelli di pensiero più completi, potrà essere contraddetto.
Ora andiamo a ricostruire per cenni tale teoria. Anticipo alcuni sguardi che accompagneranno la ricostruzione. Da un lato ho l’interesse di poter capire quali siano le ambizioni valide poste alla base della speculazione LGBTP; infatti sono incline a vedere in questa, come in molte altre filosofie, una risposta discutibile a una domanda per sé lecita e stimolante. Con ciò potremo indicare meglio quali sono i gravi rischi e fraintendimenti della proposta LGBTP, mentre al contempo potremo provare a muoverci verso una controproposta più sana, che però non escluda e anzi si impegni a rispondere alle domande e ai bisogni positivi ritrovati al cuore della corrente analizzata.
Riprenderò un po’ scolasticamente due testi di riferimento in questa area, si tratta di “Manifesto cyborg” (D. J. Haraway, Feltrinelli, Milano 1995) e “Questione di genere” (J. Butler, Laterza, Bari 2013). Partiremo da quest’ultimo, in quanto più concentrato sulla questione sessuale, quindi introdurremo quello di Haraway, che apre lo sguardo oltre la dimensione affettiva per introdurci nel campo del transumano.
La Butler, nel suo celebre saggio, muove una critica all’istanza femminista e soprattutto all’impostazione realista di quest’ultima. L’idea centrale è che non esistano identità, nemmeno quelle femminili, ma solo ruoli sessuali costruiti e prodotti a livello politico-giuridico: “Buona parte della teoria femminista si è basata sul presupposto che esistesse un’identità, concepita attraverso la categoria delle donne […]. Foucault ha mostrato come i sistemi giuridici di potere producono i soggetti che in seguito arrivano a rappresentare” (p. 21).
Butler comprende che la teoria dell’identità femminile è funzionale al rintracciamento di una speculare teoria dell’identità maschile, il che nell’ottica femminista renderebbe possibile individuare l’origine della oppressione maschile sul femminile, smascherare la tesi del patriarcato e di qui muovere verso una critica della stessa.
“L’assunto politico che il femminismo debba avere una base universale, da rinvenire in un’identità che si presume esistere in diverse culture, spesso accompagna la tesi per cui l’oppressione delle donne ha una qualche forma singolare rintracciabile nella struttura universale o egemonica del patriarcato o del dominio al maschile”. (p 27)
A parere dell’autrice questa impostazione è però debole e falsa. Si propone quindi di percorrere una diversa strada, che smantelli il concetto di identità tanto femminile quanto maschile, e per tale via tolga al patriarcato il fondamento che ne permette l’esistenza.
“L’identità del soggetto femminista non dovrebbe costituire il fondamento della politica femminista, se è vero che la formazione del soggetto avviene in un campo di potere che è regolarmente sepolto proprio attraverso l’asserzione di quel fondamento”. (p. 29)
Coerentemente tale approccio porta la Butler a contestare non solo le forme maschili di oppressione, bensì anche tutte le forme in cui l’identificazione del femminile rende possibile forme di prevaricazione da parte della categoria delle donne: “La critica femminista dovrebbe esplorare le rivendicazioni totalizzanti di un’economia maschilista di significazione, ma dovrebbe anche mantenersi critica verso se stessa e verso i gesti totalizzanti che lo stesso femminismo può compiere […]. Il fatto che questa tattica possa operare parimenti in contesti femministi e antifemministi ci dice che la colonizzazione non è un gesto primariamente o irriducibilmente maschilista”. (p. 36)
Così pure si va ad affermare con forza che qualsiasi genere è una realtà complessa e mutevole, di volta in volta strumentalizzata e tradotta in forme identitarie solo ed esclusivamente per fini politici e di controllo:
“Il genere è una complessità la cui totalità è costantemente differita, e non è mai pienamente ciò che è in una data congiuntura temporale. Una coalizione aperta, dunque, affermerà identità che sono di volta in volta istituite e abbandonate a seconda degli scopi del momento” (p. 38).
In tal senso arriviamo a dire che “ci sono molti modi diversi di intendere la categoria di sesso, modi che dipendono dall’articolazione del campo del potere” (p. 40), il che poi comporta che “ipotizzare una sessualità normativa che sta «prima» del, «fuori» dal oppure «oltre» il potere è un’impossibilità culturale e un sogno politicamente impraticabile” (p. 49).
Fin qui la diagnosi. Segue doverosamente la ricerca di una strategia che annienti le forme di dominio e prevaricazione. Non seguiremo tutto il ragionamento di Butler, che ci porterebbe verso dettagli estranei alla nostra ricerca. Accenniamo solo ad alcuni elementi. L’autrice si interroga dapprima sulla relazione tra linguaggio e costruzione di una ontologia (“linguaggio che, nella sua azione sociale plastica, crea un’ontologia artificiale di second’ordine, un’illusione di differenza, la disparità e, di conseguenza, la gerarchia che diventa realtà sociale; p. 125). Evidentemente nella mente di Butler predomina un paradigma costruzionista: la realtà viene costruita dal linguaggio e i fatti sono solo il prodotto cangiante della cultura. In questa giostra di costruzioni e distruzioni Butler riconosce che l’elemento del potere rappresenta un fenomeno di fatto indistruttibile, venendo quindi a suggerire che la lotta al potere si configuri come una sorta di guerriglia culturale : “la pratica gay e lesbica dovrebbe concentrarsi normativamente sulla rimessa in campo sovversiva e parodica del potere, anziché sulla fantasia impossibile di un suo completo trascendimento” (p. 129). In altre parole, se non è possibile eliminare definitivamente il potere, è però possibile pensare di destabilizzarlo continuamente. La destrutturazione del sesso binario sembra uno strumento princeps in tale sforzo, capace di confondere anzitutto l’individuo. Ciò avviene perché “nel corpo lesbico l’atto del fare l’amore frammenta letteralmente i corpi delle partner. In quanto sessualità lesbica questa serie di atti, che si collocano fuori dalla matrice riproduttiva, produce il corpo come centro incoerente di attributi, gesti e desideri” (p. 130). E dunque che cosa resta “quando il corpo, reso coerente dalla categoria del sesso, viene disaggregato, reso caotico?” (p. 131). L’esito di tale scissione individuale non può che ripercuotersi sul corpo sociale e sulla cultura condivisa, come una sorta di Cavallo di Troia (l’espressione è mia e non di Butler), da intendersi come “una sovversione interna, per cui l’opposizione binaria è insieme assunta e fatta proliferare fino al punto in cui non ha più senso” (p. 132). Dalla sovversione interna a quella politica il passo diviene breve, “le configurazioni culturali del sesso e del genere potrebbero allora proliferare o, per meglio dire, la loro attuale proliferazione potrebbe allora diventare articolabile all’interno di quei discorsi che stabiliscono ciò che è una vita culturale intelligibile, confondendo il binarismo del sesso ed evidenziando la sua innaturalità fondamentale” (p. 152).
L’influsso di Butler e il portato delle sue tesi va ben oltre quanto esposto fin qui. Ma queste righe già bastano a rendere l’idea della via sognata e ormai segnata dalle teoriche LGBTP.
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Uno sviluppo ulteriore, tale da sporgersi oltre la sovversione dei sessi e capace di guardare alla dispersione dei confini umani, lo incontriamo nelle pagine di Haraway e del suo “Manifesto cyborg”. Al centro della questione, se ben guardiamo, non si trovano i sessi o i generi, anzitutto perché non si trova più l’uomo, piuttosto si affaccia un nuovo soggetto che porta in sé le grandi tensioni delle filosofie rivoluzionarie novecentesche e le riassume in un profilo post-antropologico (così almeno si presenta) totalizzante: “Il cyborg è una creatura di un mondo post-genere: non ha niente da spartire con la bisessualità, la simbiosi pre-edipica, il lavoro non alienato o altre seduzioni di interezza organica ottenute investendo una unità suprema di tutti i poteri delle parti” (p. 41).
Pensare il cyborg significa pensare un uomo di cui si siano persi limiti e confini. In particolare saltano anche i dualismi messi a tema dal pensiero progressista all’apice della modernità e si introducono nuove prassi rivoluzionarie intenzionate a provare inediti intrecci tra umano e tecnologia:
“Il mio mito del cyborg parla dunque di confini trasgrediti, di potenti fusioni e di rischiose possibilità che i progressisti potrebbero esplorare come parte di un lavoro politico necessario. Una delle mie premesse è che gran parte dei socialisti e delle femministe americane vedono i dualismi mente/corpo, macchina/animale, idealismo/materialismo approfondirsi nelle pratiche sociali, nelle formulazioni simboliche, negli oggetti ad “alta tecnologia” associati alla cultura scientifica”. (p. 46)
In tale orizzonte le fusioni rischiose diventano spiragli promettenti; al contrario i contenuti di pensiero (come gli universali: razza, sesso, classe) sono stimati al pari di fragili contenuti di fede prodotti dalle culture mutevoli e inaffidabili: “Si è fatto difficile indicare il proprio femminismo con un solo aggettivo, oppure insistere perché esso venga sempre nominato, tanto ci rendiamo conto che nominare di per sé esclude. Le identità appaiono contraddittorie, parziali e strategiche. Genere, razza e classe non possono più essere posti alla base di una fede in un’unità “essenziale”, dopo che si è fatto tanto per affermare la loro costituzione storica e sociale. Non c’è nulla nell’essere “femmina” che costituisca un legame naturale tra le donne; non esiste neppure lo stato di “essere” femmina: anche questa è una categoria altamente complessa, costruita attraverso controversi discorsi sessuali e scientifici, pratiche sociali di vario genere. La coscienza di genere, razza o classe è stata faticosamente acquisita durante la terribile esperienza storica di realtà sociali contraddittorie come patriarcato, colonialismo e capitalismo” (p. 47).
Dal punto di vista storico-filosofico Haraway ci aiuta a individuare il collegamento diretto marxismo-femminismo, spiegando poi che il secondo movimento rappresenta una evoluzione del primo: “Figlio fedele del marxismo, il femminismo socialista è progredito alleandosi con le sue strategie analitiche di base […]. Il femminismo ha dovuto adottare una strategia analitica diversa da quella marxista, occupandosi in primo luogo non della struttura di classe, ma della struttura di sesso/genere e della sua relazione generativa: la costituzione e l’appropriazione sessuale delle donne da parte degli uomini” (pp. 51-52).
Dal punto di vista teoretico la Haraway, pienamente immersa nella scia marxista-femminista, suggerisce uno sviluppo che superi le secche di questa e apra a nuovi percorsi più fecondi. Tale sviluppo chiede in definitiva di sganciarsi dall’idea stessa di rivoluzione concepita come scontro tra un subalterno e un inferiore (cfr. Hegel?): “il femminismo e il marxismo si sono arenati sull’imperativo epistemologico occidentale di costruire un soggetto rivoluzionario a partire da una gerarchia di oppressioni e/o da una posizione latente di superiorità morale, di innocenza e di più intimo contatto con la natura” (p. 77). Per fare questo, per sciogliere ogni richiamo allo scontro di potere tra un supra e un sub, è necessario superare il dualismo (cfr. Decartes?) che connota la tradizione culturale occidentale: “nella tradizione occidentale sono esistiti persistenti dualismi e sono stati tutti funzionali alle logiche e alle pratiche del dominio sulle donne, la gente di colore, la natura, i lavoratori, gli animali: del dominio cioè di chiunque fosse costruito come altro, col compito di rispecchiare il sé”. Haraway suggerisce una lista di tali dualismi, i quali andranno tutti aboliti, tutti: “sé/altro, mente/corpo, cultura/natura, maschio/femmina, civilizzato/primitivo, realtà/apparenza, intero/parte, agente/espediente, artefice/prodotto, attivo/passivo, giusto/sbagliato, verità/illusione, totale/parziale, Dio/uomo” (p. 78).
Quale alternativa si profila? quella di un essere “autonomo, essere potente, essere Dio, ma significa anche essere un’illusione e quindi essere intrecciato all’altro in una dialettica apocalittica. Ma essere l’altro significa essere multiplo, senza confini precisi, logorato, inconsistente. Uno è troppo poco, ma due sono troppi”(Ibidem).
Approdiamo così a una riedizione aggiornata e cibernetica di vecchi sogni gnostici e polimorfici, che trovano la loro nuova realizzazione nelle attuazioni imprevedibili della tecnologia di frontiera e nel disegno di fondere uomo e macchina: “la cultura alto-tecnologica sfida questi dualismi in modo intrigante. Nella relazione tra macchina e umano, non è ben chiaro chi sia l’artefice e chi il prodotto. Non è chiaro che cosa sia mente e che cosa corpo in macchine che si risolvono in protocolli di codifica” (Ibidem).
Mostri, ermafroditi e cyborg sono modi di darsi di una stessa entità, priva di identità (cfr. Butler), sottratta quindi a rapporti rigidi di dominio, destrutturata, consapevole dei propri limiti componibili: “La razza, il genere, e il capitale richiedono una teoria cyborg di parti e di interi. Nei cyborg non c’è la pulsione a produrre una teoria totale, ma c’è un’intima esperienza dei confini, della loro costruzione e decostruzione. C’è un sistema di miti in attesa di diventare un linguaggio politico su cui basare un modo di guardare la scienza e la tecnologia e di sfidare l’informatica del dominio per un’azione potente” (p. 84).
Dalla guerriglia di Butler alla decostruzione di Haraway, si intrecciano modelli tutti tesi a sciogliere l’angoscioso protrarsi delle forme di dominio sociale. Se però in Butler era il corpo lesbico a frammentare l’individuo verso una nuova comprensione del sé e quindi del noi, in Haraway il genere stesso sembra obliarsi nell’emergere di forme bioniche, ultraumane (cfr. Nietzsche?): “il mito dei cyborg considera più seriamente l’aspetto parziale, a volte fluido, del sesso e dell’abitare sessualmente il corpo. Il genere in fondo potrebbe non essere l’identità globale, pur avendo un respiro e una profondità radicati nella storia” (p. 83).
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Concludo qui la rassegna dei testi delle due autrici LGBTP selezionate. Ne diamo qualche commento.
Anzitutto riconosciamo in essi l’elaborazione di un pensiero filosofico maturo e solido, in quanto tale degno di stima e di studio. Se si tratta di un pensiero filosofico, si tratterà plausibilmente di una ricerca della verità, di una prospettiva rivolta a una verità: in ogni caso non si tratterà però della verità in se stessa. Il pensiero LGBTP rappresenta una possibile via di pensiero, non rispecchia di per sé l’apice e il punto di approdo univoco e sicuro del pensiero. E ancora, si tratta di un pensiero filosofico e non di una religione, quindi può raccogliere il consenso di una visione umana e non strappare l’assenso di un comando divino. Se poi andiamo nello specifico delle teorie presentate, notiamo che si tratta di teorie controverse, in quanto rifiutano il concetto di divinità, di identità e di verità, considerando tali concetti come fonte di dominio, violenza e sofferenza. Detto in altri termini: Butler e Haraway non propongono una teoria che rispecchi la verità, quindi risulta paradossale che le prospettive LGBTP vengano imposte come forme di verità superiore. E se non sono verità, per quale motivo andrebbero accolte? Da un punto di vista tecnico le teorie LGBTP sono elaborate come espressione di un pensiero progressista e modernista, erede dell’idealismo e delle sue riletture marxiste e femministe-socialiste, poi evoluto in forme di costruzionismo secondo l’impostazione del cosiddetto post-strutturalismo. In sintesi: una visione ultra moderna, estrema, quantomeno di nicchia. Come trasformare una lettura filosofica di frangia in una linea da imporre a una massa, è cosa difficile da comprendere.
La nota positiva in tutto questo potremmo indicarla nel proposito da esse dichiarato di voler trovare una via per vincere il dominio e la prevaricazione. Ma dominio e prevaricazione sono davvero tali? E si danno nelle forme indicate dagli autori LGBTP? La loro ricostruzione pare altamente debitrice all’impianto cartesiano della divisione del mondo in dualità; al motore hegeliano che vede nella lotta servo-padrone un momento di senso fondamentale dell’universo umano; all’impeto nietzscheano tutto proteso al superamento eroico dei limiti morali e culturali. Anche qui però si tratta di letture parziali, discutibili, peraltro profondamente in crisi.
Su tutto sembra emergere l’istinto rivoluzionario, connotato dall’ideale di poter realmente realizzare la società perfetta e dall’imperativo di dover assolutamente individuare e detonare quell’elemento a causa del quale la perfezione sociale risulta ancora ritardata: il Papa, il Cristo, il monarca, la proprietà privata, il maschilismo, l’omofobia, il sessismo, lo specismo, il suprematismo, l’umanismo e chi più ne ha più ne metta. Con grande foga e con determinazione estenuante si cerca di individuare e si lotta per abbattere l’ultimo baluardo responsabile del male nel mondo. E se la battaglia, con relativi caduti sul campo, non sortisce l’effetto desiderato, ciò vuole dire che abbiamo sbagliato bersaglio: avanti verso nuovi nemici. L’idea che questo sogno rivoluzionario sia semplicemente falso, non passa nella testa dei nostri teorici.
Al contrario la Dottrina Sociale della Chiesa insegna chiaramente al numero 51. Lo riportiamo nella sua integralità: “All’identità e alla missione della Chiesa nel mondo, secondo il progetto di Dio realizzato in Cristo, corrisponde « una finalità salvifica ed escatologica, che non può essere raggiunta pienamente se non nel mondo futuro ». Proprio per questo, la Chiesa offre un contributo originale e insostituibile con la sollecitudine che la spinge a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia e a porsi come baluardo contro ogni tentazione totalitaristica, additando all’uomo la sua integrale e definitiva vocazione. Con la predicazione del Vangelo, la grazia dei sacramenti e l’esperienza della comunione fraterna, la Chiesa « risana ed eleva la dignità della persona umana, consolida la compagine della società umana e riveste di senso e di significato più profondo il lavoro quotidiano degli uomini ». Sul piano delle concrete dinamiche storiche, l’avvento del Regno di Dio non si lascia cogliere, dunque, nella prospettiva di un’organizzazione sociale, economica e politica definita e definitiva. Esso, piuttosto, è testimoniato dallo sviluppo di una socialità umana che è per gli uomini lievito di realizzazione integrale, di giustizia e di solidarietà, nell’apertura al Trascendente come termine di riferimento per il proprio definitivo compimento personale”.
La proposta ecclesiale non mira a costituire un ordine perfetto e compiuto, non cede alla seduzione pelagiana di costruire con sforzi umani la società senza difetti e senza disuguaglianze, piuttosto indica le strade per migliorare sempre più le condizioni in cui versiamo, ben consapevole del limite indicato dal Maestro: “i poveri li avete sempre con voi” (Gv 12,8). Di conseguenza risultano sospetti tutti i tentativi di individuare nuovi Messia, siano essi uomini o ideologie, cui affidare il compito impossibile di realizzare la perfezione politica e civile. In ciò dalla Chiesa vengono puntualmente denunciate le tentazioni totalitariste (almeno dovrebbero, ché si riscontra un certo tentennamento ecclesiale in talune circostanze, non ultima la gestione dell’ingerenza vaccinista). E sia, il numero 51 riassume bene e pone in chiara evidenza l’argomento princeps che s’abbatte come scure alle radici di qualsivoglia proposta messianico-rivoluzionaria, e tale risulta la natura del pensiero LGBTP. A critica di questo non aggiungo altro.
Al netto e a chiosa del discorso, pongo solo due considerazioni intese come corollario.
In primis, riprendo la grave questione del limite, già introdotta nella precedente riflessione dedicata ai diritti umani. Lì ricordavo un difetto lampante correlato alla formulazione moderna dei diritti di matrice illuminista: essi sono pensati come il prodotto della volontà ove individuale e ove politica, portando quindi con sé i caratteri stessi del volere e non da ultimo l’impossibilità di riconoscere un limite (il volere umano rimane potenzialmente illimitato). Ricordavo per contro, citando passi del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, la necessità di comprendere i diritti come espressione giuridica ricamata a partire dai caratteri dell’umano e fondata sui precetti del divino: Dio è il fondamento dal quale dipende la natura umana e i diritti esprimono giuridicamente una tutela rispettosa dei confini di detta natura e di detto fondamento. Ora, il pensiero di Butler (cfr. il richiamo alla “sovversione interna”) e ancor più di Haraway (cfr. l’uomo-cyborg come “intima esperienza dei confini, della loro costruzione e decostruzione”) va oltre. Se la teoria moderna dei diritti è difettosa, manca cioè della capacità di indicare il limite, la teoria LGBTP è catastrofica, promuove cioè il compito di devastare i confini. E questo fatto è di una gravità inaudita. Se già il Comunismo, con il suo ideale di pacificazione attraverso l’abolizione della proprietà privata, ha portato alla devastazione totalitaria e culturale a tutti nota; quanto più il Genderismo e il Transumanismo, con il loro ideale di pacificazione attraverso l’abolizione di qualsiasi limite interno ed esterno, porteranno catastrofi inimmaginabili.
Expressis verbis: tale appunto, che reputo tra i più gravi tra i caratteri della prospettiva genderista, vale come cartina tornasole di tutta l’impresa in questione. E particolarmente è questo aspetto che mi spinge a indicare puntualmente il movimento con la sigla LGBT-P. Laddove la P, argutamente obliata dai teorici LGBT, indica la deriva PEDOFILA del loro pensiero e della loro prassi. Non dico che tali teorici siano pedofili, apprezzino la pedofilia, la giustifichino o la promuovano. Dico che, ammesso e concesso il loro disprezzo, la loro denuncia, la loro lotta contro ogni forma di pedofilia, quest’ultima troverà comunque una facile via per giustificarsi e diffondersi appoggiandosi sulle teorie oggi presentate. Poco importa che Butler e Haraway personalmente denuncino la pedofilia, dal momento in cui venissero accolte le loro tesi filosofiche, nessuno avrebbe più il potere oggettivo di accusare e arrestare la pedofilia. Il loro pensiero è imperniato sulla dissoluzione di ogni principio di identità, sulla sovversione interna, sulla fluidificazione del limite. Sfido il lettore a mostrarmi in quale punto di tale dottrina transumanista si riesca a trovare un argomento evidente, solido ed efficace tale da portarci a dire che nella frantumazione di qualsivoglia limite, biologia e natura, rimarrà tutelata almeno la cortina che demonizza la pratica pedofila. Vi risulta più facile stabilire il sesso o l’età di una persona? A riguardo non aggiungo altro.
Se dunque accettiamo di riconoscere come buono e apprezzabile il sogno LGBTP di costruire una società migliore e di perfezionare i rapporti tra le persone, proprio per l’apprezzamento di tale ideale dobbiamo con forza rimproverare i teorici di tale fazione e metterli in guardia: il perseguimento delle loro strategie potrà solo corrompere e capovolgere qualsiasi frammento di bontà presente nei loro ideali di partenza.
Fin qui la prima osservazione di corollario, veniamo alla seconda. Accenno una controproposta, ispirata dalla liturgia e quindi dalla viva tradizione della Chiesa. Rileggiamo gli ultimi paragrafi del nostro scritto e formuliamo una domanda: quale potrebbe essere la soluzione capace di tenere insieme il desiderio di perfezionare la vita sociale, di migliorare la relazione tra sessi e razze e in generale tra gruppi anche marginali e divergenti, capace di riconoscere i limiti della natura umana, sufficientemente saggio da rigettare utopie messianiche e soluzioni drastiche, preoccupato di non danneggiare i più fragili e piccoli mentre persegue gli interessi degli adulti? La risposta del Magistero cattolico indica la soluzione nella famiglia.
E reputo di particolare valore il fatto che tra i primi e più espliciti documenti in difesa del valore sociale della famiglia compaia la Neminem fugit, firmata nel 1892 da Papa Leone XIII, una breve Lettera apostolica sugli Statuti della Pia Associazione della Sacra Famiglia. Essa è tanto più importante in quanto porta la firma dello stesso Pontefice, che appena un anno prima aveva dato avvio alla Dottrina Sociale della Chiesa con la lettera enciclica Rerum novarum. La stessa Chiesa che contrappone al modello socialista e capitalista una terza via di convivenza sociale (Rerum novarum), è quella che contrappone al comunitarismo e all’individualismo il modello sempre valido della famiglia (Neminem fugit).
Ecco l’incipit del testo: “A nessuno sfugge che la felicità privata e pubblica dipende in modo particolarissimo dall’istituzione familiare. Quanto più profonde radici, infatti, avrà messo la virtù in casa, con quanta più cura saranno stati formati gli animi dei figli dalle parole e dall’esempio dei genitori all’osservazione dei precetti religiosi, tanto più ricchi saranno i frutti nella comunità. Perciò interessa sommamente che la società familiare non solo sia costituita santamente, ma anche sia retta da leggi sante, e sia in essa promosso diligentemente e costantemente lo spirito di pietà e il modo di vivere cristiano. È per questo certamente che Dio misericordioso, avendo decretato di compiere l’opera della riparazione umana aspettata a lungo da secoli, dispose il modo e l’ordinamento della stessa opera in maniera che gli stessi suoi primi inizi mostrassero al mondo l’augusto ideale della famiglia divinamente costituita, in cui tutti gli uomini vedessero un assolutissimo esemplare della società domestica e di ogni virtù e santità”.
Ma questa non sarà la strada che scelgo di percorrere per dare risposta alle utopie deleterie del mondo LGBTP. Nel prossimo capitolo di questo saggio, il settimo della serie, introdurrò altri autori e altre riflessioni, che mi hanno stimolato a rileggere la sfida sociale e sessuale in corso e che hanno suggerito proposte per me molto persuasive al fine di raccogliere gli aneliti del mondo LGBTP e di ricondurli su percorsi umanamente e cristianamente adeguati. Infine, concluderò nel testo successivo, l’ottavo, presentando la proposta che ritengo vada offerta agli omosessuali per vivere la propria inclinazione in una modalità cristianamente autentica e umanamente arricchente.
Fonte: Marco Begato | VanThuanObservatory.com