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Come vivono i cristiani in Oriente tra guerre e migrazioni

Difficoltà, dialogo, martirio e missione. Le testimonianze dei vescovi Boutros (Libano), Lurati (Egitto) e Martinelli (Arabia meridionale) al convegno milanese della Fondazione Oasis

Ci sono ancora cristiani nel Vicino Oriente? Come affrontano le ultime convulsioni di una regione da decenni attraversata da conflitti che spesso li hanno investiti in pieno? Chi può raccontare le loro vicende in presa diretta? La grande conferenza internazionale organizzata da Oasis a Milano nel ventennale della nascita di questa fondazione internazionale, voluta dall’allora patriarca di Venezia card. Angelo Scola, che si dedica all’incontro fra cristiani e musulmani, ha offerto qualche percorso di risposta anche a queste domande.

Dopo le relazioni introduttive di Henry Laurens del Collège de France e di Hassan Aourid dell’Università Mohammed V di Rabat rispettivamente su “La guerra a Gaza e le relazioni tra Occidente e mondo musulmano” e “Islam e Occidente: sguardi incrociati”, una stimolante riflessione di Massimo Cacciari (sindaco di Venezia al momento della nascita di Oasis ed estimatore dell’iniziativa) sulle prime due relazioni e una toccante “Testimonianza sulla Cisgiordania” di Ignazio De Francesco, monaco della Piccola famiglia dell’Annunziata che vive ad Ain Arik, un piccolo villaggio pochi chilometri a nord di Ramallah, è stata la volta di tre vescovi a cui stato chiesto di offrire un ritratto delle loro comunità e di raccontare il contesto in cui esse sono presenti.

Si tratta di mons. Jules Boutros, vescovo della Curia patriarcale di Antiochia dei Siri che ha la sua sede a Dar’oun in Libano, di mons. Claudio Lurati, Vicario apostolico di Alessandria d’Egitto per i cattolici latini, e di mons. Paolo Martinelli, Vicario apostolico dell’Arabia meridionale che ha la sua sede ad Abu Dhabi negli Emirati Arabi Uniti.

Il rapporto tra Occidente e mondo musulmano

Il titolo del convegno di Oasis era “Guerra e migrazioni. Ripensare il rapporto fra Occidente e mondo musulmano”, e guerra e migrazioni sono esattamente i contesti con cui si trovano a fare i conti – direttamente o indirettamente, nel ruolo di vittime del fenomeno oppure come soggetti che si prendono cura delle vittime – le tre chiese rappresentate da Boutros, Lurati e Martinelli. «La nostra Chiesa siro-cattolica è una Chiesa in uscita», ha esordito quello che quando fu ordinato due anni fa era il vescovo cattolico più giovane del mondo, Boutros, «ma non nel senso che vorrebbe papa Francesco: siamo Chiesa in uscita perché nell’ultimo decennio sono emigrati in Europa o in America o in Australia il 60-70 per cento dei nostri fedeli che vivevano in Iraq, Siria e Libano. Sono stati costretti a lasciare la terra che amavano a causa della guerra e del fondamentalismo. I genitori spingono i figli a emigrare per non perderli nella guerra: in Siria un coscritto può restare sotto le armi anche per dieci anni di seguito! Mentre parlo il mio Libano da tre giorni è sotto le bombe. Ogni giorno si segnalano 300 attacchi aerei israeliani contro qualunque luogo dove si trovino miliziani Hezbollah. Ma il bilancio delle vittime comprende 1.200 morti e 3 mila civili feriti, gli sfollati sono mezzo milione. Le nostre chiese accolgono, aiutano, assistono, si occupano pure dell’educazione. Ma fare l’elemosina è facile, possiamo farla tutti, più difficile è fare la giustizia, e in questo le nostre Chiese non riescono, sono ancora timide».

«Qualcosa stiamo facendo», ha continuato il vescovo della Curia patriarcale di Antiochia dei Siri: «L’Assemblea dei patriarchi e dei vescovi cattolici del Libano ha promosso una Leadership Academy for Peace, che ha l’obiettivo di formare i politici del futuro, perché con quelli attuali non si può fare nulla! In Libano i cristiani si trovano fra l’incudine e il martello, cioè fra la violenza armata e un sistema politico disfunzionale, in un paese che sta crollando dal punto di vista finanziario, economico e demografico. Le cause della guerra sono tante. A livello sociale la causa della guerra è la perdita del senso di responsabilità degli uni verso gli altri: come Caino, troppo spesso diciamo “sono forse io il custode di mio fratello?”. Domina l’indifferenza. A livello politico la causa della guerra è la mancanza di indipendenza del Libano: alcuni libanesi sono dipendenti dall’Iran, altri dall’Arabia Saudita, altri dall’Occidente. Non siamo veramente indipendenti. Il programma di Hezbollah non è libanese. A livello istituzionale la causa è il governo centralizzato: sarebbe meglio uno stato federale. A livello religioso la causa è il fondamentalismo».

«Tuttavia tanti cristiani restano ancora in Libano», ha concluso Boutros, «e non perché non possono emigrare, ma perché sono animati da uno spirito missionario che viene dai nostri padri: siamo una Chiesa fondata sui martiri. Siamo chiamati ad essere luce che illumina le tenebre, sale che ridà sapore a un mondo dove si è perso il senso della dignità umana: 40 mila palestinesi possono morire senza che nessuno muova un dito. Della luce c’è bisogno là dove prevalgono le tenebre: per questo vogliamo e dobbiamo restare».

Fondazione Oasis

I cristiani d’Egitto

I cristiani d’Egitto, invece, vivono un periodo relativamente tranquillo, dentro al quale sono chiamati a fasciare le ferite altrui, ma non sono estranei alla problematica dell’emigrazione. I cattolici di rito latino sono una minoranza di qualche migliaio di unità, originari di molti paesi oltre che dello stesso Egitto, dove le principali confessioni cristiane sono la Chiesa copta ortodossa, con circa 10 milioni di fedeli, e la Chiesa copta cattolica, che conta circa 200 mila battezzati.

«All’ultimo ritiro del vicariato di Alessandria per i giovani cattolici di rito latino c’erano 200 ragazzi e ragazze di 8-9 nazionalità diverse», racconta il padre comboniano Claudio Lurati, dal 2020 vicario apostolico dei latini d’Egitto. «Per un vescovo questa è una ricchezza e una sfida: fare un unico corpo, un’unica famiglia di gente della provenienza più disparata. Alcuni stranieri si avvicinano o riavvicinano al cristianesimo mentre soggiornano per lavoro da noi in Egitto: ogni anno celebro qualche battesimo e cresima di adulti. La presenza cattolica nella società egiziana – comprendendo i 200 mila egiziani copti cattolici – è forte, superiore all’entità numerica: abbiamo 160 scuole in tutto il paese, nelle quali gli studenti sono metà cristiani e metà musulmani. Ci sono pure ospedali, programmi della Caritas, centri culturali e istituti di studi tenuti da gesuiti, francescani, domenicani».

«Attualmente l’Egitto è un paese stabile», ha spiegato Lurati, «la gente vive in condizioni di sicurezza, compresi i cristiani, che hanno problemi solo in alcune aree del paese. Non così dieci anni fa: all’epoca del governo dei Fratelli Musulmani c’erano violenze e c’è stata una piccola ondata migratoria di cristiani. Oggi non è più così, e come ai tempi della guerra fra governo sudanese e sud Sudan l’Egitto è tornato ad essere rifugio di migliaia di sudanesi che fuggono l’ennesima guerra civile. Finora sono circa mezzo milione, e fra questi 15-20 mila sono cattolici. Per loro abbiamo creato 8 centri di assistenza, sparsi sul territorio egiziano da Luxor fino ad Alessandria passando per il Cairo. Con dolore abbiamo pure assistito all’arrivo in Egitto di profughi cristiani da Gaza in transito verso l’Australia».

La spiritualità dei giovani egiziani e l’attrattiva del mondo

Lurati fra il 1995 e il 2007 è stato anche vicario episcopale dei latini per i rifugiati africani, che al Cairo erano quasi tutti sudsudanesi: la sua esperienza pastorale in materia è solidissima, ma quella dei profughi di guerra non è l’unica forma di migrazione che lo preoccupa. «Sono sempre stupito e ammirato del grande desiderio di spiritualità che incontro nei giovani egiziani di ogni estrazione religiosa», spiega.

«Tuttavia mi chiedo spesso che ne sarà, nel tempo, di questo fervore sotto la pressione del mondo dei social. Fino a quando si riuscirà a proteggere le identità religiose originarie di questi giovani? Forse assisteremo presto a un’emigrazione di un altro tipo, non geografica ma spirituale. La Chiesa copta ortodossa è molto attenta alla sua diaspora, il milione di copti egiziani emigrati all’estero oggi dispone di diocesi con vescovo residente sul posto, ma anche loro dovranno affrontare la sfida dell’attrattiva del modo di vivere occidentale».

Il piccolo gregge di lavoratori migranti cattolici in Arabia

Ancora diversa è la realtà di mons. Martinelli: la sua diocesi si estende dai ricchi Emirati Arabi Uniti al tradizionalista Oman al devastato Yemen. Anche il suo gregge è formato quasi esclusivamente di lavoratori migranti, ma sono ben 900 mila (800 mila nei soli Emirati) e di 100 nazionalità diverse. A Martinelli capita di essere il vescovo della Casa della famiglia abramitica, il complesso di tre edifici sacri – una chiesa, una moschea e una sinagoga – riuniti in unico compound, costruiti ad Abu Dhabi sotto la supervisione dell’Higher Committee on Human Fraternity, l’ente indipendente formato da esponenti del mondo religioso, accademico e culturale, nato sull’onda del Documento sulla fratellanza umana sottoscritto ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di Al Azhar Ahmad al-Tayyib il 4 febbraio 2019.

Martinelli cita subito un passaggio di quel documento: «In nome di Dio, Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio». Certamente per superare l’inimicizia, il terrorismo, le guerre, ma soprattutto perché, dice Martinelli «l’esclusione di Dio dalla vita va contro l’uomo».

Le luci di Abu Dhabi e le tenebre dello Yemen

Spiega il vicario apostolico che il complesso è stato inaugurato il 23 febbraio dello scorso anno e che «in quel compound si fa esperienza di quello che sta scritto nel Documento sulla fratellanza umana, si impara a comprenderci reciprocamente. I tre edifici configurano un’armonia di distinti. Per recarsi nel luogo di culto che gli è proprio ogni credente deve passare davanti agli altri due edifici. Un quarto elemento è il cosiddetto “forum”, lo spazio che architettonicamente collega chiesa, moschea e sinagoga, e che rappresenta il luogo dove si svolgono incontri e momenti di formazione per adulti e bambini, aperti a persone di ogni fede. Si è già formata una comunità cristiana stabile presso la chiesa dedicata a san Francesco, e la domenica la celebrazione eucaristica è affollatissima. Ogni giorno il compound è visitato e ogni giorno persone di fede diversa si incontrano e imparano a “tradursi” fra di loro. Siamo grati alle autorità emiratine che hanno reso possibile tutto questo».

Alle luci (spirituali) di Abu Dhabi fanno da contrappunto le tenebre dello Yemen. «In quel paese esistono poche centinaia di cattolici, la situazione è molto precaria, la popolazione afflitta da molti mali che colpiscono soprattutto i bambini. Le 8 chiese che esistevano sono state tutte distrutte, non ci sono più luoghi di culto cristiani. Restano sul posto un ufficio della Caritas e due comunità di suore della Carità di Madre Teresa di Calcutta, entrambe nel territorio attualmente controllato dagli houthi. Due volte le suore sono state colpite dagli estremisti: nel 1998 tre di loro furono uccise da un singolo attentatore nella città di Hodeida, altre quattro sono state trucidate da un commando jihadista il 4 marzo 2016 ad Aden insieme ad altre dodici persone dentro alla loro casa dove ospitavano e accudivano molti anziani. Nonostante questo, le suore di Madre Teresa restano nello Yemen. Fra i dodici laici che vennero uccisi c’erano cristiani e musulmani. Un segno per tutti».

Fonte: Rodolfo Casadei | Tempi.it

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