Un presente sfocato o un passato imminente: dove e quando un passato può essere sempre acceso come un fuoco eterno nella notte fredda e buia?
«Leggo il suo ultimo libro, mi fermo, penso, ne parlo con i miei figli adolescenti. È emerso qualcosa che ci ha fatto ridere e riflettere. È nato un concetto che vorremmo regalarle, dato che al momento, oltre a concepirlo, non andiamo. Lo abbiamo scritto sulla lavagna d’ardesia che abbiamo in cucina (cuore della casa), e ci osserva: una coniugazione imprevista. Si tratta del “passato imminente”, che non sappiamo esattamente gestire e affidiamo a lei». Ho accolto la suggestione di questa lettera perché vi ho scorto una luce nel buio susseguirsi dei recenti episodi di cronaca nera familiare, una luce che potrebbe illuminare almeno la crepa sui muri di case la cui frattura è profonda, nelle fondamenta. Un tempo verbale concepito tra risate e chiacchiere in famiglia appartiene alla cronaca minuta, ma raccontare avventure minime, collezionare reperti di gioia, come una lavagna in ardesia in cucina, è il compito di chi sta all’ultimo banco. Un oggetto che apparterrebbe all’immaginario scolastico si rivela per quel che è, ovunque lo si metta: promemoria e progetto. Il «passato imminente» allora sembra un passato che non smette di farsi presente, continua ad accadere. Ma dove e quando un passato può essere sempre acceso come un fuoco eterno nella notte fredda e buia?
Il «passato imminente» appartiene alla categoria dei passati: il sugo della vita. Tra i passati verbali amo l’imperfetto (in-per-factum: «non fatto del tutto»), che non è un tempo difettoso ma carico di destino, un tempo che richiede compimento, ed è infatti il tempo delle storie: «C’era una volta…» promette che qualcuno porterà qualcosa a compimento, a perfezione (per-factum non vuol dire «senza difetti» ma «fatto del tutto»). Alla fine del racconto infatti compare un altro passato (che i latini chiamavano «perfetto», noi remoto) che segnala compimento: «vissero felici e contenti», dove il «vissero» non riguarda solo il dopo la vicenda, ma la vicenda stessa: felice e contento è chi porta a compimento la propria irripetibile storia. L’imperfetto «c’era», che è mancanza di forma, è diventato perfetto, «vissero», ha preso forma: Pollicino è tornato (in famiglia), la Bestia è tornata (umana), Biancaneve è tornata (in vita)… Tutto «torna» o almeno ci prova. Tra questi passati allora dove mettere il «passato imminente»? Dove la vita non muore mai. È il passato che non passa, un sugo che non scade né si esaurisce. Omero, Dante, Galilei, Beethoven, Curie, Montessori, Van Gogh, Madre Teresa… sono il sugo dell’umanità, passato imminente – dal latino in-manere, «rimanere nel» (presente) – perché eminente – da e-manere, «rimanere fuori dal» (presente) -: verità che resta, non invecchia e di cui non si può più fare a meno. Di certo al «passato imminente» appartengono anche guerre e malfattori, non possiamo dimenticarli, imminente è infatti anche aggettivo per «ciò che sta sopra»: minaccia. Il passato si conserva se è bello o atroce, ma se smette di essere imminente, perché più o meno volontariamente lo dimentichiamo, nel primo caso non ispira nuova bellezza, nel secondo provoca nuova sofferenza. Il mondo e la sua storia si danno in questa duplice manifestazione, bellezza e sofferenza, la Sagrada Familia e l’Atomica, non c’è sintesi possibile, c’è solo lo spazio della scelta: stare di fronte al bene per moltiplicarlo, stare di fronte al male per confinarlo, o viceversa. Inoltre il passato imminente non è consumazione di un bene culturale a cui è ridotta spesso la cultura, ma la sua moltiplicazione nei nuovi venuti, e non è neanche riesumazione di morti, perché vivi sono Socrate, Cristo, Buddha che per dire e fare ciò che hanno detto e fatto non hanno avuto bisogno di internet o dell’aereo, ma solo dell’amore per l’uomo. E infatti noi, ancora solo viventi, immersi nella spesso buia e fredda notte della ricerca di senso, troviamo ancora in loro un fuoco grazie alla cui chiarezza e calore diventiamo vivi, perché vivo è solo chi riceve e passa il testimone del miracolo del mondo. Insomma questo passato imminente è il sugo della vita: che cosa resta, per sempre, di una vita «passata»? E allora questo è anche il tempo dell’educazione in generale, e della scuola in particolare: spazio in cui viene letto un testamento che cita inaspettatamente i nostri nomi come destinatari. Avi, genitori, maestri e tutti coloro che con i loro talenti hanno acceso il fuoco per noi sono «passato imminente».
Ma come riconoscere questo tempo nuovo? Che forma ha? È sempre vivo: «Sono chi fui e sono qui per te». Assomiglia al fuoco acceso in una memorabile pagina di Non è un paese per vecchi di Cormack McCarthy, in cui il narratore racconta di aver sognato per due volte il padre morto: «Il primo [sogno] non me lo ricordo bene, lo incontravo in città da qualche parte e mi regalava dei soldi e mi pare che li perdevo. Ma nel secondo sogno era come se fossimo tornati tutti e due indietro nel tempo, ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte. Attraversavo un passo in mezzo alle montagne. Faceva freddo e a terra c’era la neve, lui mi superava col suo cavallo e andava avanti. Senza dire una parola. Continuava a cavalcare e quando mi passava davanti mi accorgevo che aveva in mano una fiaccola. E nel sogno sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo, e che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi. E poi mi sono svegliato». Due sono le possibilità: un «presente sfocato», cioè senza fuoco (chiarezza e calore), in cui riceviamo qualcosa che si consuma e prima o poi perderemo, o un «passato imminente», che mette «a fuoco», chiarezza e calore, il presente, e ci risveglia dal sonno dell’anima in cui siamo a volte imprigionati. Chi ha acceso per noi questo fuoco? Per chi lo accenderemo noi?
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it