Un romanzo e una canzone sulla malattia terminale della madre. Così la cantautrice Erica Mou riflette sul mistero della maternità, la sua e quella di chi non c’è più. Un cerchio che si chiude.
Un romanzo e una canzone che gli fa da «colonna sonora». Sì, perché l’autrice di “Una cosa per la quale mi odierai”, edito da Fandango, è la cantautrice pugliese Erica Mou che ha deciso di raccontare la malattia terminale della madre Lucia un decennio dopo la sua morte; dalle pagine emergono i temi della maternità e della perdita, le fragilità di un’intera famiglia di fronte a un dolore inaspettato e la forza della vita che riemerge dal lutto. Il nuovo brano appena uscito, che s’intitola “Madre”, dice fra l’altro: «Era lei che mi proteggeva dagli incroci, le voci e le scelte. Madre, ti ho conosciuta tardi, però non ho rimpianti. Madre, ti ho conosciuta tardi, quando eravamo entrambe grandi da guardarci negli occhi e parlarci».
Così Erica Mou, pseudonimo di Erica Musci, introduce il pezzo che è accompagnato da un video in bianco e nero struggente: «Sarebbe bello ricordarsi l’attimo in cui si nasce, l’inizio, l’origine. Ci ricordiamo il finale, il distacco, le ultime parole, le ultime lacrime. E le prime? E quel pianto che è solo vita? Questa canzone è un cerchio, dal mio primo respiro all’ultimo di mia madre. Un brano che parla di noi, di lei, del suo essere in armonia con l’universo, del mio cantare per imbrogliare le leggi inesorabili del tempo e della memoria».
A proposito del suo secondo romanzo, autobiografico, confida sui suoi profili social: «Scrivere questo libro è stata la cosa più bella e dolorosa insieme, per me». La dedica alla figlia Bianca – nata lo scorso 7 gennaio – sembra chiudere un cerchio: nelle pagine dedicate alla madre scomparsa la cantautrice 34enne ha come bagaglio la sua esperienza di neo-mamma. Con coraggio Erica inizia il libro ripercorrendo i momenti in cui la madre 54enne, professoressa di matematica, le comunica di avere un tumore maligno, ma non le dice quanto sia spaventata.
Inizialmente lei pensa – al «Ti devo parlare» – di aver sbagliato nelle sue scelte, aspettandosi di essere rimproverata: «Vuole dirmi che non solo sto sbagliando a ristrutturare casa ma che non dovrei andarci a vivere con Giulio. Ecco di cosa deve parlarmi, del posto sbagliato con la persona sbagliata. Mia madre sta per dirmi che non devo fare come lei. Che devo essere libera, che è arrivato il momento, che l’unica cosa che conta nella vita è essere libera. La guardo e sono pronta a farmi illuminare dalla sua luce, ormai certa di sapere. “Devo dirti una cosa per la quale mi odierai. Ho un cancro”». La parola impietosa sembra alla figlia già una condanna a morte: «Non gliel’ho mai perdonata, a mia madre, questa cosa di aver optato per la parola cancro. È un pensiero che mi ossessiona da dieci anni, come se la scelta di questa brutta parola con le lettere dure, tenesse già dentro di sé il rifiuto della speranza».
Dopo un decennio, Erica trova «il coraggio di aprire il diario che mia madre ha tenuto durante la malattia». L’ha fatto «nella speranza di ritrovare la sua voce che non ricordo più. Non saprei dirne il tono, il calore, il tremore, la forma tonda che prendeva rimbalzando sul muro di un salotto o quella lunghissima, dentro una chiesa. So che a riascoltarla mi volterei, ma adesso non riesco più neanche a immaginarla. La prima voce che ho ascoltato, quella che ha deciso di chiamarmi come mi chiamo, con il nome di un arbusto dai fiori resistenti al freddo». Riportando dei brani del diario materno, l’autrice spiega anche che si è decisa a sfogliarlo «perché sono a letto e non posso muovermi. Non posso fare altro che guardare film o leggere o scrivere. Sono incinta ma devo stare a riposo assoluto se voglio continuare a esserlo, e io voglio». Quindi la gestazione a rischio diventa un tempo per elaborare il dolore vissuto: «Oggi ho deciso che non piango più e, per smettere, devo parlare con mia madre, ritrovare quella voce che so ma non ricordo, sentirmi più figlia che mai per potermi immaginare mamma, rubarle qualcosa. Lei mi direbbe che è la natura che decide, io le direi che lo so ma che vorrei decidere io».
Il diario «non finisce quando finisce la vita. Il diario di mia madre finisce quando finisce la speranza»: seguono mesi dolorosissimi. Dalla diagnosi a inizio giugno del cancro al colon, Lucia muore il 3 marzo dell’anno successivo: tre trimestri che scandiscono i capitoli del volume. «Mia madre è morta in nove mesi e un’altra volta, in quel tempo, mi ha dato alla luce. Quel giorno io sono nata un’altra volta. È cominciata un’altra vita, quella di prima semplicemente è finita», scrive alla fine del libro. Che dimostra come la perdita (e prima ancora la malattia, arrivata come uno tsunami nella loro esistenza) siano state un collante per tutta la famiglia, inclusi il padre Dino e il fratello Mirto. Non restano solo ricordi, ma un vissuto condiviso che pervade la realtà in piccoli dettagli e particolari minuscoli ma indelebili, come l’amore dato e ricevuto che non muore mai.
Fonte: Laura Badaracchi | Avvenire.it