La musica incanta il mondo, per questo la teniamo accesa: se il «fondo» della vita tace ci vuole un «sottofondo». Nella vita, come nella musica, dai «motivi di fondo» dipendono le motivazioni. «Motivo», da motus, in italiano è infatti sia la ragione di qualcosa sia il tema di un brano: entrambi mettono in moto ciò che è fermo, «motivano». Mentre scrivo ho in sottofondo The logical song dei Supertramp, uscita nel 1979 e nata dall’esperienza scolastica del leader Roger Hodgson: «Sono stato al college per dieci anni e quando ne sono uscito avevo in mente mille domande: ora che diavolo mi succederà? Qual è il significato della mia vita? Mi chiedevo perché molte delle cose che mi avevano insegnato fossero per me prive di senso. Mi avevano insegnato a uniformarmi, essere presentabile e accettabile, tralasciando ciò che per me era invece fondamentale. Nessuno mi aveva mai detto chi io fossi o quale fosse il significato della mia esistenza». Capita a tanti ragazzi di uscire da più di un decennio di scuola con la testa piena di istruzioni per funzionare ma senza un «motivo» per esistere, come sottolinea Hodgson: «Passiamo dall’innocenza e dalla meraviglia dell‘infanzia alla confusione dell’adolescenza, che spesso finisce nella disillusione in età adulta e molti passano la vita cercando di tornare a quell’innocenza». Si può evitare di vivere tra disillusione e nostalgia?
La canzone dei Supertramp, come la seconda parte di Another brick in the wall uscita poco dopo, criticava l’istruzione ma in modo diverso dai Pink Floyd. Si apre con un ricordo: «Quando ero bambino, la vita sembrava meravigliosa/ un miracolo, era bella, magica/ e tutti gli uccelli sugli alberi cantavano allegramente,/ gioiosamente, scherzosamente mentre mi guardavano». Non abbiamo ancora ben capito perché gli uccelli cantino, i «motivi» funzionali alla specie non bastano. E questo perché la bellezza spesso è grazia: non ha una ragione ma dà una ragione, non ha un motivo ma dà un motivo. Ciò che conta allora non è tanto perché gli uccelli cantino ma che il loro canto sia così bello. L’adulto infatti ne ricorda l’in-canto, ora che vive nel dis-incanto. I genitori di quel bambino avevano divorziato e lui era stato spedito in collegio dove i «motivi di fondo» erano altri, come dice il brano: «Mi mandarono lontano per insegnarmi a esser ragionevole/ lineare, responsabile, pratico/ e poi mi mostrarono un mondo nel quale essere affidabile/ freddo, razionale, cinico».
La scuola, invece di essere luogo in cui custodire e far eco al canto degli uccelli, allenando l’attenzione verso ciò che è vivo (bello, vero, giusto) per imparare a prendersene cura, si rivela un centro di addestramento per funzionare e sopravvivere. Quel bambino cresce «de-motivato», ma rimane in lui un’insopprimibile sete di senso, come rivela l’apertura sognante ma addolorata del ritornello: «A volte però quando tutto il mondo dorme/ le domande scavano troppo per un uomo così modesto./ Vi dispiacerebbe per favore dirmi che cosa abbiamo imparato?/ Sembra folle,/ ma, per favore, ditemi chi sono».
Il dolore salva solo se diventa un’avventura di ritorno a casa. Quanto dolore, fisico e psichico, nei ragazzi viene interpretato come un problema da risolvere perché tornino presto a funzionare, quando invece è il sintomo di una vita che chiede di guarire anche in noi. Se il sintomo è il cibo, è nel rapporto con il mondo che manca pace, se il sintomo è una ferita autoinferta, è nel rapporto con il mondo che manca pace, se il sintomo è tristezza, è nel rapporto con il mondo che manca pace, se il sintomo è una dipendenza, è nel rapporto con il mondo che manca pace. La pace era nel canto perduto degli uccelli rivolto al bambino, perché solo se il mondo ci guarda allora ci ri-guarda e ne avremo poi ri-guardo, che è restituzione dello sguardo, in un gioco circolare che crea appunto un “mondo” (insieme di relazioni), dove non c’è questo cerchio di pace si dà semplicemente un «intorno» insensato, indifferente e pericoloso. E infatti per dominarlo veniamo addestrati a funzionare, rispettando standard e ottenendo risultati sempre migliori: «Ti vorremmo gradevole/ rispettabile, presentabile: vegetale/. Dai, dai, dai!».
La vita è uniformità e carriera, l’ansia è il giusto prezzo da pagare. Segue un assolo ribelle di sassofono, che poi arricchisce il successivo ritornello insieme a inserti corali: è il dolore solitario di molti nella stessa notte cantata poco prima. Dolore e paura affiorano di nuovo non più sovrastati dal rumore della frenesia, della distrazione, dello stordimento: «Per favore ditemi che cosa abbiamo imparato./ Mi sentite? So che sembra folle/ ma per favore ditemi chi sono, chi sono, chi sono, chi sono…». Eppure il ragazzo «funzionava»: «E io che mi sentivo così lineare/ digitale», aggettivo che nel 1979 era seguito dal suono di un videogioco dei primordi, ironicamente e profeticamente inserito nella canzone…
Nel 2012 il 62enne Hodgson ritornava sul motivo della canzone: «Avevo 29 anni quando l’ho scritta, cercavo risposte. La domanda bruciante era: ‘per favore, dimmi chi sono’. Adesso non ho ancora tutte le risposte, ma sapevo che c’era qualcosa di più profondo là fuori: un luogo di pace. E alla fine l’ho trovato». L’innocenza non è nell’età né in una illusoria proiezione nell’infanzia, ma è pace nel cuore, qui e ora, connessione piena – non solo digitale ma carnale – con la vita che, facendoci sentire «parte del mondo», ci «motiva» a fare la nostra «parte nel mondo». Dove si trova questo «motivo di pace»? Di certo non dove la domanda «chi sono?» viene ignorata: «Chi sei non è in programma. Siamo già in ritardo sulla marcia. Ti diciamo noi come funziona», scuole di sopravvivenza da cui si esce «armati» più che «amati», funzionari de-motivati più che cercatori motivati. Dobbiamo invece frequentare luoghi in cui la risposta suona «Ti aspettavamo: siediti e raccontaci la tua storia. Prenditi il tempo che ti serve, noi poi ti racconteremo come è andata ad altri che avevano la tua stessa domanda”». Sarà a scuola, in famiglia, in un bosco, nell’amore, nell’amicizia… e in tutti i luoghi in cui ancora suona il «sottofondo», il «motivo» della vita, che comincerà poi a risuonare dentro di noi e che neanche il frastuono quotidiano potrà più strapparci, come mi accadde in un’istante eterno, uno di quelli in cui senti che il mondo è casa.
Mi ero innamorato del concerto di un compositore e mentre ero in metropolitana, nella calca della folla e nel rumore di pensieri confusi, tipico dell’età in cui ti chiedi invano chi sei, tra paura del futuro e insoddisfazione del presente, si è fatta largo una luce: quella musica ci sarà sempre per me. A questa bellezza io potrò tornare ogni volta che vorrò. Avrò sempre un «motivo» di gioia e ne farò un motivo di vita: provare, nel mio piccolo, a fare altrettanto.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it