1. Dall’ “ideal-tipo” a un nuovo “modello” ancora da immaginare
Succede spesso che, immersi nella vita quotidiana di un’istituzione, ci accorgiamo sì dei numerosi cambiamenti, rilevanti o all’apparenza minuscoli e più o meno sopportabili oppure indisponenti, per effetto dei quali l’istituzione stessa si allontana inesorabilmente da quello che per secoli è stato il suo “ideal-tipo”, e però fatichiamo a capire la necessità di porre mano a un “modello” nuovo, o comunque assai diverso da quello precedente. In questa fase di mutamenti continui – congegnati da pochi e accettati o subìti da molti, ovvero conseguenza non calcolata e magari del tutto indesiderata di altri cambiamenti – si trova ormai da parecchio tempo l’Università. In Italia certamente. Ma anche, verosimilmente, in ogni altro Paese europeo in cui l’originaria idea e la prima articolazione dello studium generale, della universitas magistrorum et scolarium, hanno trovato radici e si sono diffuse a partire dagli inizi del secolo XIII, dopo qualche prodomo nel secolo precedente; così come, con elevata probabilità, in tutti quei Paesi fuori d’Europa, in cui l’Università è stata più tardi esportata o imitata.
Le singole e specifiche variazioni “nazionali”, a cui l’Università viene sottoposta nell’Ottocento e nella prima parte del Novecento, non hanno modificato l’essenziale nucleo identificativo delle comunità di studio e insegnamento nate dentro la Christiana Respublica. Anzi, tali variazioni sono state ogni volta legittimate dalla necessità di preservare la fedeltà e mantenere la coerenza dell’Università alla sua storia plurisecolare. La quale storia, com’è noto, si svolge legata da una fitta rete di interdipendenze sia con la nascita e crescita dello Stato moderno, sia con la costruzione di quella “cultura” in cui si sono identificati, e da cui soprattutto sono stati per gran parte generati, assetti durevoli e cambiamenti (persino autentiche o immaginarie “rivoluzioni”) tanto dell’economia quanto della società.
Le crepe nel tipo moderno ed europeo di Università diventano evidenti e via via più minacciose dagli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Non casualmente, com’è ovvio. Anche se, in realtà, negli ultimi decenni dell’Ottocento qualche addetto ai lavori – chissà se per mera propensione conservatrice, o personali nostalgie e rimpianti, o anche, magari, con vista più acuta di altri – già puntava l’indice sulla “crisi” insanabile degli ordinamenti e studi universitari.
Negli ultimi tre decenni del Novecento incomincia, qui in Italia, a sgranarsi la sequela di provvedimenti, leggi, disposizioni, da cui la fisionomia e il feriale funzionamento dell’Università (in realtà, appunto, i fondamentali elementi ancora riconducibili all’ “ideal-tipo”) vengono modificati, talvolta stravolti o svuotati. Per accendere il ricordo di uno almeno fra tali atti, ormai scomparsi dalla memoria dei più: la cosiddetta “liberalizzazione” dell’accesso alle Facoltà, la quale, conseguente ai movimenti studenteschi del Sessantotto e stabilita – in previsione di una più completa “riforma universitaria” – con la legge dell’11 dicembre 1969, n. 910, aprì la vertiginosa questione mai più affrontata (se non in questi ultimi tempi, timidamente e assai parzialmente, rispetto all’ammissione a Medicina e chirurgia) dell’utilità o meno di un qualche grado di congruità tra gli studi universitari e quelli che immediatamente li precedono. O, per richiamare alla rinfusa cambiamenti che sono più noti ed evidenti perché più recenti: i due livelli di laurea e, insieme, l’esorbitante moltiplicazione dei corsi di laurea e dei relativi titoli, la sostituzione di Dipartimenti e Scuole (quantomeno negli atenei statali) alle tradizionali Facoltà, l’istituzione e l’attività dell’Anvur, l’attribuzione di una “terza missione” all’Università, e molte novità ancora. Anche se almeno un’altra sarebbe da ricordare: ossia l’obbligo, imposto agli atenei statali, di un solo mandato rettorale e del limite anagrafico di candidatura (disposizione che, apparentemente innocua e anzi gradita perché consona alle credenze di questi tempi, ha però un ventaglio di non secondari effetti: a partire dalla volatilità della composizione del “corpo” che riunisce i rettori italiani, e quindi dall’effettività del suo “potere” o della sua influenza, sino a giungere agli effetti – finora non indagati, mi pare, neppure da qualche breve saggio sociografico o statistico – rispetto alla sempre più larga area di intersezione, e di cariche o incarichi, tra Università, arena politica, mondo dell’economia).
Non è del tutto peregrino, allora, interrogarsi se il sempre più veloce allontanamento in atto dall’ “ideal-tipo” di Università non costituisca, in realtà, uno di quei giganteschi sommovimenti che – controllabili od orientabili solo in parte minima, oltre che imprevedibili nelle loro più durature conseguenze – si è ormai abituati ad accettare quali segni eloquenti e simultaneamente fattori di un più generale e inarrestabile declino dell’Europa e della costruzione sin qui incessante della sua cultura. O se, per converso, ci si trovi semplicemente nel mezzo di “contingenze” del presente (o dinnanzi, banalmente, a una fra le tante “sfide” di questi tempi). L’alternativa, in questo caso, è secca. Quando non solo risulti impossibile – contrariamente a ciò che Albert O. Hirschman argomentava: «in ogni condizione c’è una riforma possibile» – disegnare “riforme” generali e magari radicali, ma siano anche carenti l’intelligenza e le capacità di attuarle non troppo maldestramente, alle contingenze e sfide non si riescono a dare se non risposte modeste all’insegna di adattamenti minimi e precari, oltre che sotto la spinta delle convenienze e del gioco di interessi del momento.
L’interrogativo, naturalmente, qui può essere soltanto sollevato. Tenerlo sullo sfondo delle considerazioni successive mi sembra tuttavia utile, quantomeno per non lasciarci completamente assorbire da questo o quello dei tantissimi problemi, che, risalenti nei decenni o aperti di recente dai mutamenti interni o esterni al mondo universitario, vengono soprattutto avvertiti da chi in Università insegna e svolge attività di ricerca, mentre assai meno attraggono l’attenzione dell’opinione pubblica o riescono a entrare nella cosiddetta agenda dei decisori pubblici. Dentro l’aggrovigliata massa dei problemi, tuttavia, due in particolare non si possono dimenticare o trascurare. Il primo è relativo alla ricerca scientifica, funzione fondamentale – anzi, “vocazione” originaria e al tempo stesso autentica “missione” – dell’Università. Il secondo riguarda la realizzabilità degli auspici che l’Università continui a essere fattore rilevante di formazione delle classi direttive del Paese.
2. Alcune considerazioni sulla ricerca scientifica e sui finanziamenti delle humanities
Benché la professione del docente universitario appaia assai meno attrattiva di qualche decennio fa (per ragioni sin troppo evidenti: la retribuzione, di cui qualsiasi manager di livello medio-alto, quando ne chieda l’entità, rimane sconcertato o diffidente della veridicità della risposta; la rapida discesa del “prestigio sociale”, fatta eccezione di qualche area specialistica o di singoli personalità; l’indistinzione crescente tra docenti di ruolo e docenti a contratto, generalmente più interessati al residuo prestigio di un incarico svolto in Università che non demotivati o indispettiti dalla risibilità del compenso), è ancora probabile che quasi nessuno di chi intende accedere a una tale professione non dichiari che ciò da cui si sente maggiormente “chiamato” è la ricerca scientifica. L’attività di ricerca, in effetti, rallenta sino a rendere quasi impercettibile il processo – in corso da tempo e documentato particolarmente da didattica, esami, elaborazione della tesi triennale – di “liceizzazione” dell’Università (o comunque della riduzione del percorso di laurea a un quasi-obbligato “completamento-coronamento” del ciclo superiore di formazione scolastica).
Del resto, proprio questo nesso di stretta interdipendenza fra docenza e ricerca scientifica – nesso indissolubile nelle convinzioni, nella mente e nell’immaginario di ciascun docente di Università, in primo luogo – può in parte spiegare perché le proposte di pensare ad atenei dedicati alla sola prestazione di corsi di laurea non solo siano sempre state sporadiche (e con eco o pubblici dibattiti alquanto fievoli), ma anche giudicate come il frutto di un’eccessiva, ancorché non troppo molesta, eccentricità. A tale proposito mi pare significativa una breve notazione (quasi una nota a piè di pagina), intesa anch’essa a tenere accesa una pur tenue luce su ciò che è ormai accatastato negli archivi delle nostre recenti vicende accademiche e culturali. In una relazione del novembre 1969, poi pubblicata in forma di saggio l’anno successivo e intitolata La trasformazione delle università e l’iniziativa “privata”, Gianfranco Miglio puntava l’indice sul fatto che «il movimento “a forbice” tra didattica e ricerca distrugge le basi dell’Università tradizionale». Talché, registrando la «moltiplicazione», la «massificazione» e la «”provincializzazione” delle Università, concepite come scuole professionali di base», gli sembrava quasi scontata la previsione che l’Università fosse «destinata a dissolversi in un sistema complesso ed universalmente segmentato di istituzioni scolastiche intercambiabili ed in continuo adeguamento alle esigenze della vita produttiva». Previsione che, pur dovendo lasciare nella penombra tanto le capacità e i “requisiti” indispensabili od opportuni per l’adeguamento costante ed efficace alle esigenze della vita produttiva, quanto i cambiamenti veloci e talvolta sorprendenti di quest’ultima, Miglio formulava convintamente e freddamente, memore forse delle esortazioni di padre Agostino Gemelli a esportare e potenziare in appositi centri extra moenia l’attività scientifica universitaria (esortazioni su cui Gemelli insistette nei discorsi inaugurali degli anni accademici del suo ultimo decennio rettorale, inframmezzandole ai consueti strali – non è superfluo ricordarlo – contro il valore legale della laurea e alle espressioni della sua incomprimibile antipatia, in quanto psicologo, nei confronti dei test di selezione attitudinale per l’ammissione a questa o quella Facoltà).
Quale sia lo stato attuale della didattica universitaria, degli esami e dell’elaborazione delle tesi di laurea, sarebbe un argomento da impostare e approfondire con grande franchezza e serenità; troppo vasto e importante, però, per essere qui riassunto, o liquidato, con due o tre osservazioni. Lo stesso vale per lo stato odierno della ricerca scientifica, anche se in questo caso non è inopportuno aggiungere a una prima considerazione (forse troppo personale) una seconda e preoccupata riflessione. L’una e l’altra riguardano quell’ormai mastodontico complesso di discipline e corrispettive aree scientifiche (mastodontico, quantomeno, per la quantità di differenti e talvolta estrose intitolazioni-definizioni di queste discipline e settori di ricerca), che è ormai uso unificare sbrigativamente, denominandolo humanities.
Con sofferenza assisto alla lenta agonia di quegli esiti della ricerca scientifica – pur sempre provvisori, frequentemente ritmati da necessità concorsuali sebbene raggiunti con un lungo e meticoloso lavoro, consultabili proficuamente anche parecchi anni dopo la loro pubblicazione – che sono, o erano, le cosiddette “monografie”. Quasi senza colpo ferire, il loro posto viene occupato da “prodotti” in forma di brevi o brevissimi articoli, il cui valore è certificato innanzitutto dal livello di prestigio riconosciuto o accordato alla rivista da cui sono ospitati. Che l’ “oggettività” di una simile certificazione sormonti ogni giudizio “soggettivo” (quali che siano le competenze, il grado di intelligenza, interesse o mera curiosità di chi si trova a leggere l’articolo), non è oggi motivo di meraviglia. Semmai sorprende (e invita a riflessioni più abituali per il filosofo della scienza, lo storico della cultura, l’epistemologo o il sociologo della conoscenza) il fatto che l’avanzamento del “sapere” nel campo delle humanities, o l’aspettativa di un tale avanzamento, sembri non poter consistere se non in una frammentazione sempre più minuscola dell’oggetto da indagare o del tema da esplorare. E ancora di più impressiona che questi frammenti, nonostante qualche tentativo di ricomporli magai un po’ artificiosamente, tali resteranno, simili a schegge di una propensione alla ricerca consapevolmente refrattaria o sempre meno attrezzata a elaborazioni – siano esse assimilabili a “sistemi”, “sintesi”, “paradigmi”, o anche a un mero abbozzo di “teoria” – più articolate e complesse.
La seconda, preoccupata riflessione tocca la distribuzione, in particolare quella effettuata dall’Unione europea, dei finanziamenti alla ricerca nei campi delle humanities. È evidente che l’entità del finanziamento necessario a questo genere di ricerca è normalmente, e ormai da parecchio tempo, considerata di gran lunga inferiore a quella indispensabile per le scienze cosiddette dure, o comunque per quei settori di studio i cui risultati conseguiti o sperati godono del riconoscimento diffuso di essere socialmente utili. Come si declini questa “utilità sociale”, e fino a che punto la sua nozione appaia del tutto affrancata dalle predominanti “rappresentazioni sociali” e purificabile dall’eventuale inquinamento di volubili “umori collettivi”, è certamente un interessante argomento di studio accademico. Esaminarlo come esso merita, peraltro, non compenserebbe il dato attuale e inoppugnabile che, fatta salva l’intelligente o stravagante liberalità di qualche generoso erogatore di risorse, una ricerca ancorché inter- o pluridisciplinare su Torquato Accetto o Manegoldo di Lautenbach o una dimenticata mistica del Seicento abbia probabilità non molto elevate di scalare la vetta dei contributi di finanziamento più significativi.
Proprio nel campo delle humanities, tuttavia, da qualche anno si stanno attestando attività di ricerca che, approvate e finanziate dall’Unione europea, di necessità coinvolgono un numero cospicuo di ricercatori di atenei di diverse nazioni. Il punto delicato e assai problematico di questa attribuzione di risorse (ormai burocratizzata e quindi sostanzialmente stabilizzata) è, a mio parere, nella pre-delimitazione e poi nella formale definizione degli ambiti a cui i finanziamenti verranno destinati. Che vaste e appropriate indagini possano agevolare la formulazione, dapprima, e, successivamente, la cosiddetta implementazione delle “politiche pubbliche” (nella fattispecie quelle, ovviamente, dell’Unione europea), è convinzione ormai entrata nel patrimonio intellettuale di certezze o salde opinioni di un ampio novero di ricercatori. A fronte di ciò, nondimeno, occorrerebbe valutare quanto sia spontanea (o pienamente “libera”) la scelta di sviluppare o intraprendere la propria attività di ricerca negli ambiti così individuati, tenendo altresì conto del fatto che il coordinamento o la partecipazione a queste ricerche costituisce elemento di valutazione positiva (almeno in Italia) per la progressione di carriera.
La sensazione penosa, che è difficile allontanare, è tuttavia un’altra. Ed è quella che dai risultati di simili ricerche ci si attenda una sorta di nobilitazione di ciò che si vorrebbe che fosse un “comune sentire” europeo o magari un ethos pubblico, condiviso e praticato in primo luogo dagli strati élitari dell’Europa e in un domani non lontano – chissà – dalle “masse” dei diversi Paesi. Per dirla con altri termini: è come se ricerche scientifiche ad hoc fossero da preferire ad altre, proprio in quanto più idonee a irrobustire o generare quelle specifiche “risorse normative” (ossia credenze e opinioni, sentimenti e rappresentazioni collettive prevalenti, simboli), indispensabili – come notava nell’ormai lontano 1965 Amitai Etzioni, studiando i processi di unificazione politica – affinché la societal guidance non entri in collisione con l’assetto di poteri costruito ai fini dell’ “integrazione”, o non si divarichi eccessivamente dai principali obiettivi delle élite da cui quest’ultima è maggiormente sostenuta.
Rispetto al ruolo e alle funzioni che l’ “ideal-tipo” di Università attribuisce alla ricerca scientifica nei confronti di quella che talvolta ancora si denomina “sfera dell’opinione pubblica”, la mutazione (o il capovolgimento di fronte) è del tutto evidente. E, pur se per vie all’apparenza indirette o zigzaganti, rafforza il dubbio insito nel secondo dei problemi indicati all’inizio di queste pagine. Dubbio che ora, integrato e leggermente precisato, si potrebbe formulare così: l’Università è ancora in grado di preparare, e in quale modo, classi direttive che siano tali non solo perché dotate (magari solo presuntivamente) di spiccate capacità e competenze professionali?
A rendere il quesito sempre più pressante e sempre meno aggirabile, sono i cambiamenti già in atto o imminenti dentro il “sistema degli atenei”.
3. Che cosa significa formare le classi direttive di domani?
Poiché è probabile che, per effetto della declinante curva demografica e in carenza di adeguare “compensazioni”, il numero degli immatricolati si contrarrà sensibilmente, probabile è anche che a subirne le conseguenze più pesanti saranno gli atenei istituiti da poco e solitamente dislocati in città “minori” (per dire frettolosamente, anche se impropriamente, così). I quali atenei – inatteso contrappasso della disseminazione di sedi universitarie nei decenni passati – si troveranno in crescenti difficoltà nel mantenimento di numerosi corsi di laurea e nel rispetto dei “requisiti” necessari. Alla riduzione quantitativa del numero di studenti iscritti si accompagnerà, verosimilmente, la spinta a un’ulteriore, quasi totale “provincializzazione” della loro provenienza geografica. E, se l’analogia non suona irrispettosa, temo che si arriverà a una situazione non dissimile da quella che ha attanagliato molte strutture “locali” ospedaliere. Quando forme (“quasi-federative”) di coordinamento si rivelassero troppo complesse da pattuire e sostenere, o assai modeste nei loro risultati, non pochi degli attuali atenei diventerebbero definitivamente un bene, o un interesse, da tutelare per motivi del tutto locali.
Ciò che più sta scuotendo il “sistema degli atenei” e modificando prassi di “competizione” (talvolta effettiva, in qualche caso un po’ artefatta), è però l’avanzata delle università telematiche lungo linee che, considerate distrattamente – sempre per preferire un eufemismo – al momento della loro istituzione ministeriale, sono differenti da quelle seguite nei Paesi che furono pionieri in questo campo. Le università telematiche, difatti, mentre per un verso danno corpo al fantasma a lungo e malamente esorcizzato di atenei in cui la didattica è del tutto svincolata dall’attività di ricerca scientifica (o in cui quest’ultima attività costituisce, al più, esercizio e dote personale di singoli docenti), per altro verso si stanno espandendo proprio sul terreno – l’acquisizione di studenti – via via più scivoloso per molti degli atenei tradizionali. Bastino alcuni dati (leggermente invecchiati e perciò ancora più suggestivi), ricavati dall’Anagrafe Nazionale Studenti. Nell’a.a. 2021/2022 alle undici università telematiche, tutte di diritto privato, sono iscritti 223.937 studenti (nel 2011/2012 erano 43.830). Tale numero rappresenta l’11.5% del totale degli studenti universitari; ed è un numero, si noti, ormai ben superiore ai 123.051 studenti iscritti alle venti università “non statali” tradizionali. Facile è poi prevedere che su tale numero, e più in specifico sul ruolo e le funzioni delle università telematiche, potentemente giocheranno gli effetti dell’inclusione di Medicina e chirurgia nell’ “offerta didattica”.
Che nello stato attuale del sistema universitario – per tornare all’argomentazione di Hirschman – sia sempre (e ancora) possibile una “riforma”, potrebbe essere oggetto di lunghe e accese discussioni. Pragmatica (ovvero segno d’impotenza di fronte alla mutazione dell’Università) è invece l’ipotesi che, da un certo momento in poi, si troverà più conveniente o inevitabile procedere lungo i battuti sentieri: degli aggiustamenti, dei rattoppi, dei provvedimenti urgenti, indispensabili a “sanare” questa o quella situazione (incominciando, per esempio, dal ruolo, dagli avanzamenti di carriera e dagli emolumenti dei docenti). D’altronde, immaginare e disegnare un “modello” diverso di Università richiede la consapevolezza – dentro gli atenei e all’esterno – che la divaricazione dall’ “ideal-tipo” è ormai irreversibile. Richiede anche la volontà di resistere all’assuefazione e alle inerzie, così come alle orgogliose benché infruttuose manifestazioni di fiducia riguardo alla persistenza dell”idea’ di Università. La propensione a simili manifestazioni è sin troppo diffusa, quando un’istituzione si trasforma senza che siano definibili quali ne saranno il ruolo e la reale importanza nel futuro.
Neanche grazie a una “riforma” complessiva e complessa, o a qualcosa che le assomigliasse pur sotto un nome diverso, l’Università tornerebbe ad assumere come proprio, e a esercitare in via pressoché esclusiva, il compito di preparare le classi direttive del Paese. Giacché, a pensarci bene, ciò di cui oggi sappiamo poco o nulla riguarda esattamente la natura delle classi direttive di cui ci sarà bisogno. E forse riguarda anche le “qualità”, non solo professionali, necessarie per entrare a farne legittimamente parte. Ma, ancor più della fisionomia possibile dell’Università di domani, quest’ultimo è un problema talmente legato alle fasi del ciclo storico di crescita civile e politica – oppure di stagnazione e poi declino – delle comunità umane stabilmente organizzate, da richiedere a sua volta una riflessione specifica sulle condizioni odierne, in Italia e in tutto l’Occidente, dell’ “ideal-tipo” di società.
Fonte: Lorenzo Ornaghi (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) | Lisander.com