Qualche giorno fa leggevo a mia nipote storie di paperi ambientate nel mondo antico. Le ho chiesto: «Preferisci i Greci o gli Egiziani?». Mi ha detto: «Gli Egiziani, perché ci sono più cose da scoprire».
La risposta mi ha spiazzato. Io avrei detto i Greci proprio per tutto quello che hanno scoperto e ci hanno lasciato, e che continua a stupirci. Per una bambina di 7 anni invece è più attraente ciò che spinge alla scoperta, ciò che fa venire al mondo. Non è forse questo «educare»?
Non ho mai voluto ridurre il verbo «educare» all’interpretazione dell’etimologia latina e-ducere (trarre fuori) come un mero processo di estrazione, come un filone aureo da una miniera, operazione che implica non solo una certa passività e violenza, ma anche l’idea che il contesto in cui quel filone si trova sia soltanto un contenitore che ostacola. In realtà il verbo significava «portar fuori», «far uscire» nel senso di lasciare un luogo, e quindi metaforicamente «allevare»: «far venire al mondo», «far crescere». Infatti il contrario di educare (educere) è sedurre (seducere), che significa mettere in disparte, separare: l’educatore porta al mondo e a se stessi, il seduttore separa dal mondo e da se stessi. Educare non è «estrarre» né «sedurre» ma «aiutare a venire al mondo», «in-coraggiare (svegliare il coraggio) a crescere». Ma che cosa significa tutto questo oggi e quando/dove accade o meno?
Nel recente bel libro La generazione ansiosa lo psicologo Jonathan Haidt ha documentato l’effetto del cellulare dato ai ragazzi prematuramente. Gli studi ormai consistenti dimostrano che è causa di: dipendenza, frammentazione dell’attenzione, diminuzione della socialità e perdita del sonno. Per un cervello (che è in tutto il corpo) in formazione questi quattro elementi compongono la kryptonite per «l’uscita» che è propria di questa tappa: l’energia della pubertà ha evolutivamente lo scopo di trovare il coraggio di uscire di casa per farne una nuova, infatti diciamo che una vita felice è una vita «ri-uscita».
Fin qui nulla di nuovo se non che gli effetti del seduttore digitale sono ora scientificamente provati. L’aspetto più interessante del libro è però il non aver ridotto la causa dell’ansia, tipica delle generazioni cresciute a latte e telefonino, all’uso precoce dello strumento ma alla combinazione con uno stile educativo iperprotettivo. Il mondo è percepito come un luogo spaventoso da cui tenersi alla larga (anzi spesso il cellulare è usato dagli adulti come mezzo di localizzazione). L’ansia è figlia quindi della paura (non si «educe», porta fuori, ma si «in-trattiene», si tiene dentro) combinata con l’essere investiti, senza limiti, dal mondo, via schermo (non si «educe», porta fuori, ma si «seduce», separa). In-trattenuti e sedotti i corpi non vengono al mondo: le quattro conseguenze descritte sopra sono sintomi di es-corporazione. L’esperienza, che è scoperta dei confini (per disegnare qualcosa ne tracciamo il perimetro) evapora, siamo illimitati nei giga ma paralizzati nelle scelte (libero non è chi può scegliere tutto, ma chi può scegliere il meglio). Un mondo senza peso, odore, gusto, dimensioni, diventa un fantasma emotivo impossibile da elaborare e ordinare in un sé.
L’ansia è quindi la sacrosanta ribellione del «corpo remoto» (rimosso): un soggetto insonne, dipendente, distratto, isolato non può che essere ansioso. Ansia viene infatti dal latino angere, restringere, da cui: angolo, ascella, angoscia, angina… e tutto ciò che «ci mette all’angolo» e paralizza (geniale nel film animato Inside Out 2 che Ansia sostituisca Gioia al comando delle emozioni della protagonista adolescente). Il contrario di questo verbo in latino è augere: ampliare, accrescere, da cui parole come autore, auguri, augusto… tutto ciò che ci «mette al mondo». Angusto (stretto, claustrofobico) VS Augusto (ampio, libero): chi vince si impossessa della vita.
Lo rappresentano bene tre recenti film sulla scuola, molto diversi ma legati non solo dal fatto di essere storie vere.
Il maestro che promise il mare narra la drammatica vicenda di Antoni Benaiges, maestro di un paesino della Spagna rurale degli anni ’30.
Radical ambientato nel 2011 nella scuola ghetto di un quartiere disperato della cittadina di Matamoros in Messico, dove il professor Sergio Juarez Correa compie un miracolo giunto alle cronache globali grazie all’articolo «A Radical Way of Unleashing a Generation of Geniuses» («Un modo radicale di liberare una generazione di geni»), apparso su Wired nel 2013.
E infine Maria Montessori: la nouvelle femme, film biografico sulla dottoressa e pedagogista che ai primi del ‘900, a Roma, inaugura un metodo rivoluzionario partendo dai bambini fragili.
Che cosa hanno in comune il maestro spagnolo, il professore messicano, la dottoressa italiana? Educano. Fidandosi dei ragazzi e del mondo, creano una relazione di fiducia tra i ragazzi e il mondo, essenziale per una vita «ri-uscita»: autonoma e libera. Portano a esplorare e scoprire, proprio perché attenti allo svantaggio iniziale: ignoranza, povertà, delinquenza, disabilità… Il maestro spagnolo promette di portare al mare bambini che non lo hanno mai visto, culmine didattico di un crescendo esplorativo; il professore messicano porta i suoi studenti delle medie a scoprire le leggi della fisica proprio dove vivono, a partire dalle loro inclinazioni o storture; la dottoressa Montessori salva bambini che allora venivano richiusi in strutture per malati mentali, portandoli al mondo attraverso il gioco, il tatto, la musica… e grazie ai loro sorprendenti risultati mette a punto un metodo educativo universale, ostacolato allora (Montessori dovette andar via dall’Italia) dal fascismo che voleva il controllo dell’educazione (uniforme e uniformità contro libertà e scoperta) e ancora oggi guardato con sospetto in Italia (ci sono più scuole montessoriane in Giappone che da noi), forse perché continuiamo a volere, in modi diversi, una scuola controllata e uniformante. Nei tre film c’è «educazione»: portare «fuori» i ragazzi, metterli di fronte alle cose, spirito e corpo, il resto lo fanno loro stessi, perché scoprire il mondo è un gioco entusiasmante per chi viene messo in gioco.
Tre maestri che, pagando in prima persona le loro rivoluzioni, incidono sulla grande storia a partire da una stalla trasformata in aula, da una scuola senza computer, da un centro per bambini con disabilità. Tre che non «seducono» (separano) ma «educano» (portano fuori), non «in-trattengono» (chiudono dentro) ma «in-augurano» (ampliano dentro), perché hanno fiducia nei ragazzi e nel mondo, il combinato contrario a ciò che rende ansiosa una generazione (paura del mondo e sottomissione dei corpi al digitale).
L’esito è infatti opposto all’ansia: il coraggio. Bambini e ragazzi si tirano fuori dall’angolo: fuori-escono e fioriscono.
Il problema non è quindi il digitale in sé ma il digitale che in-trattiene e se-duce: riduce il mondo a schermo e mette i corpi all’angolo. Rimango dalla parte dei Greci, ma ha ragione mia nipote: si cresce dove c’è più mondo da esplorare. Non siamo fatti per essere messi all’angolo ma al mondo, non siamo chiamati a una vita «angusta», ristretta e ansiosa, ma «augusta», ampia e coraggiosa.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it